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Bataclan, la Francia si divide sul processo agli attentatori. È necessario mostrare le immagini di quell’orrore?

di Alessio Porrino

È l’8 settembre 2021 e, in una sala gremita di spettatori, viene riprodotto il suono di alcuni spari. Nella registrazione si sentono grida, intervallati dal ritmo irregolare del fuoco delle mitragliatrici. Immediatamente parte dell’auditorio lascia la sala, per altri irrompe il pianto e l’aula si riempie di singhiozzi. Ciò che avevano ascoltato era una tra le innumerevoli prove documentarie del processo sui devastanti attacchi terroristici del 13 novembre 2015 a Parigi.

Il più grande processo della storia francese

Proprio lo scorso settembre si è aperto, alla Corte d’Assise speciale di Parigi, il processo ai colpevoli di quei terribili attentati. Si tratta della più ampia udienza criminale della storia francese, con oltre 1800 persone costituitesi parte civile e una copertura mediatica continua e intensa: all’interno del Palais de Justice è stata appositamente costruita una sala da oltre 550 posti, e il processo viene ritrasmesso in diretta in dieci sale all’interno dello stesso edificio, ad uso dei giornalisti.

Proprio la mediaticità di questo evento è stata una delle maggiori preoccupazioni dei giudici francesi. Si è tentato, infatti, di evitare che il processo diventasse uno spettacolo, rendendolo così più sensibile alle pressioni dell’opinione pubblica, e insieme si è voluto impedire che gli accusati possano usarlo come mezzo per diffondere propaganda dell’Islam fondamentalista. È per queste ragioni che è stato deciso di non ritrasmettere in diretta televisiva le immagini delle udienze, sebbene questo non abbia spento le polemiche sui rischi del sensazionalismo.

Il voyerismo del dolore

Difatti, in questo momento in Francia è divenuto molto acceso il dibattito sull’opportunità di presentare al processo ulteriore materiale audio e video dei massacri avvenuti il giorno degli attentati, come ad esempio quello al tristemente celebre Bataclan. La posta in gioco è quella di determinare la necessità di mostrare quelle immagini a un auditorio composto per la maggior parte da vittime e familiari di quegli attacchi. Ha senso, infatti, mostrare tutta la violenza di quegli attimi senza che diventi voyerismo del dolore? Che significato possono avere le prove di un fatto che nessuno tra gli accusati nega di aver commesso? Ma allo stesso tempo: sarebbe giusto non mostrare tali documenti solo perché i contenuti sarebbero troppo espliciti, dolorosi? Non si scivolerebbe, in questo modo, verso un’interpretazione troppo “sentimentale” di come condurre un processo?

La questione si è posta già a partire dalle prime sedute quando, alla riproduzione audio degli spari all’interno del Bataclan, molte vittime hanno lasciato l’aula o sono scoppiate in lacrime. A partire da quel momento il Presidente della Corte d’Assise speciale Jean-Luis Périès si è ritrovato forzato a interrogarsi sull’opportunità di continuare a mostrare quei materiali, coinvolgendo nel processo decisionale anche i suoi colleghi, psicologi e associazioni di sostegno alle vittime dell’attentato.

Verità dei documenti, verità dei testimoni

Proprio tra le vittime e i loro familiari si ritrovano le opinioni più divergenti: i sopravvissuti di quella sera si dividono tra chi ritiene del tutto insopportabile l’idea di rivivere quelle scene e chi, invece, pensa questo sia un modo utile per comprendere davvero quanto successo, mostrando a sé stessi e agli altri la realtà di quegli eventi. Di quest’avviso è Arthur Dénouveaux, presidente dell’associazione a sostegno delle vittime Life for Paris, che si chiede: «hanno davvero senso tutte queste precauzioni? Mi domando se invece quelle immagini non possano apportare qualcosa di utile al dibattitto. Basta anche solo digitare su Google “Bataclan” per vedere delle cose orribili, potrebbe essere strano non vedere nulla di tutto ciò in nove mesi di processo». Dal lato opposto Philippe Duperron, a sua volta presidente di 13onze15 Fraternité et vérité, afferma che le sole deposizioni dei sopravvissuti sono sufficienti a spiegare l’esperienza di quegli attimi: «sono convinto che tutte le testimonianze che sono state portate, quell’orrore e quel dolore permettono ancor più dell’immagine e del suono di rendersi conto della furia degli attentati. La verità giudiziaria è la verità dei testimoni».

Di certo questo problema si riproporrà spesso in questi tempi, ora che la capacità di documentare ciò che avviene in diretta appartiene a chiunque nel mondo abbia un telefonino. La questione, infatti, non si riduce soltanto a questo specifico processo, per quanto importante: sempre più ai giudici verrà richiesto di bilanciare l’interesse a mostrare le prove documentarie di eventi terribili e il contraccolpo psicologico che quelle immagini possono avere sui coinvolti da quelle violenze. Probabilmente sarà impossibile stabilire in modo astratto il giusto mezzo tra quelle due istanze contrapposte e si deciderà caso per caso, secondo la sensibilità dei magistrati e dell’opinione pubblica. Ciò che è certo è che per le vittime e i loro cari questo rappresenta solo l’ennesimo episodio doloroso di una storia che, dal 13 novembre 2015, non cessa di perseguitarli.