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La Mongolia e il Papa

Ecco perché i Cinque giorni del Pontefice in una terra incastonata fra la Russia e la Cina dove, su oltre tre milioni di abitanti, solo l’1% è di fede cristiana.

«Giovedì prossimo partirò per un viaggio di alcuni giorni nel cuore dell’Asia, in Mongolia. Una visita tanto desiderata. Un’occasione per abbracciare una Chiesa piccola nei numeri ma vivace nella fede e grande nella carità e per incontrare da vicino un popolo nobile, saggio, con una grande tradizione religiosa che avrò l’onore di conoscere specialmente nel contesto di un evento interreligioso».

Con queste parole a conclusione dell’Angelus in Piazza San Pietro, Papa Francesco aveva annunciato la sua missione in Estremo Oriente, nel Paese delle sterminate steppe, per il suo quarantatreesimo viaggio apostolico.

La Mongolia cristiana

Cinque giorni, in una terra incastonata fra la Russia e la Cina dove, su oltre tre milioni di abitanti, soltanto poco più dell’1% è di fede cristiana.

Accolto nella capitale Ulan Bator dalla Guardia d’Onore e dal Ministro degli Esteri, il Pontefice si è ricongiunto sul luogo con il più giovane fra tutti i cardinali missionari, il Prefetto Apostolico Giorgio Marengo che lo ha accompagnato nei nove luoghi di culto ufficialmente registrati in Mongolia.

Un Paese di nomadi e di pastori, in cui le diseguaglianze sociali sono plastificate dalla differenza tra la capitale e i villaggi di periferia.

L’impatto della “morte bianca”

Luogo che negli ultimi due decenni ha conosciuto l’impatto devastante dei cambiamenti climatici, con inverni sempre rigidi e nevosi che le popolazioni locali hanno ormai chiamato “morte bianca” per i suoi effetti catastrofici sul bestiame.

Un insieme di fattori, cui compartecipano l’assenza di uno sbocco sul mare e la caratteristica semiarida del terreno, amplificata dall’alta attività mineraria e dalla deforestazione in corso.

Gengis Khan e il dialogo interreligioso

Oltre il novanta percento della popolazione è buddista o atea, con minoranze impercettibili di musulmani, seguaci dello sciamanesimo e, appunto, cristiani.  

Fu, il quasi mitologico, condottiero Gengis Khan, nel 1200, a cercare di rendere la Mongolia un simbolo del dialogo interreligioso in Asia, favorendo il futuro dialogo con la Santa Sede che si sarebbe instaurato grazie al lavoro di un emissario di Papa Innocenzo IV, mandato a corte del Gran Khan Guyuk.

L’importanza dell’evangelizzazione dell’Asia

Nonostante il lavoro pluridecennale di missionari cattolici, soprattutto di origine sudcoreana, il cristianesimo rimane una assoluta minoranza in Asia. Ma Papa Francesco, vede nella crisi della religione che caratterizza la società contemporanea una opportunità per l’evangelizzazione di luoghi difficili.

E, un Paese che fa da cerniera tra Russia e Cina, come è la Mongolia, è funzionale a questo progetto. In nessun altro spazio geografico come l’Asia il tema del dialogo interreligioso è una realtà quotidiana, ricalcando una delle visioni principali di Francesco, secondo cui le religioni hanno il dovere di aiutare l’umanità alla convivenza, alla pace e alla tutela per il creato.

L’incontro ecumenico con i leader delle altre religioni, tenutosi nel corso della visita in Mongolia ha reso palese l’intento seguito da Francesco. Non deve sorprendere pertanto, che dopo il viaggio apostolico in Kazakistan dello scorso anno, il Pontefice abbia deciso di ripercorrere la via dell’Oriente.

Proprio nel corso della missione kazaka del 2022, il Vaticano cercò vanamente di combinare un incontro con il Presidente cinese Xi Jinping.

Il telegramma

Per tutta risposta, a distanza di un anno, l’aereo di Francesco ha ripercorso la stessa rotta, spingendosi addirittura oltre e, sorvolando proprio la Cina, ha rivolto un saluto esplicito al suo Capo e al suo popolo, per mezzo di un telegramma. Le relazioni fra Pechino e Vaticano sono ancora molto fredde e soltanto in epoca recente si sta tentando di migliorarle e stabilizzarle, attraverso un dialogo costruttivo e continuo.

Era stato Papa Benedetto XVI a tracciare la via con la lettera ai cattolici cinesi del 2007, trovando sponda nel suo successero Francesco che ha individuato la nuova frontiera della fede cristiana più ad est che a sud del mondo.

Dopo la presa del potere di Mao, ad inizio degli Anni Cinquanta, il Nunzio Apostolico Antonio Riberi fu costretto a lasciare il Paese, inaugurando un lungo periodo di persecuzione nei confronti dei cristiani. Soltanto con l’avvento di Deng Xiaoping la pressione sui cattolici registrò un allentamento, sino al lento processo di riavvicinamento che ha portato alla firma di un Accordo diplomatico, dal contenuto segreto, soltanto nel 2018.

Il riconoscimento di sei vescovi da parte della Cina

L’intesa, rinnovata nell’Ottobre del 2022, ha permesso il riconoscimento di sei vescovi consacrati dal Vaticano che non godevano dell’approvazione da parte delle autorità politiche cinesi. La Chiesa cattolica ufficiale della Repubblica Popolare di Xi Jinping, infatti, è quella “patriottica” controllata dal partito comunista, mentre quella che riferimento al Papa, è ritenuta “clandestina”.

La fede “clandestina”

Gli operatori della fede ritenuti clandestini dal Governo cinese non riescono ad esercitare le attività loro più consone.

Dopo la firma del 2018, non si sono più registrate ordinazioni episcopali celebrate senza il consenso della Santa Sede, ma rimangono ancora almeno venti i vescovi clandestini su cui le diplomazie dovranno negoziare delle trattative, caso per caso.

Se si considera come, proprio per l’occasione del viaggio in Mongolia, i vertici della Chiesa Patriottica di Xi Jinping non abbiano concesso il permesso ai vescovi cinesi di partecipare all’evento, si comprende quanto la strada sia ancora in salita.

Bandito il volume “Storia generale dei mongoli”

Tra l’altro, come ulteriore atto di rappresaglia per manifestare la propria irritazione per le giornate ad Ulan-Bator, proprio mentre il Capo del Vaticano lodava la grande storia del popolo mongolo, Xi Jinping, attraverso le autorità governative della Regione cinese della Mongolia Interna, ha disposto il ritiro dagli scaffali di tutte le librerie, di un volume del 2004 intitolato “Storia generale dei mongoli”.

Il testo è stato definito un esempio di nichilismo storico e va in contrasto con la foga di sinicizzazione perseguita dal leader di Pechino e dagli apparati del Partito, per i quali il richiamo all’esistenza di una comune identità mongola è una minaccia, che si somma alle altre rivendicazioni autonomiste sparse nella periferia dell’impero, dagli Uiguri (musulmani perseguiti e detenuti in veri e propri campi di concentramento) alle più note vicende di Taiwan e Hong Kong.

Taiwan e Hong Kong

Proprio a Taiwan e Hong Kong la presenza cristiana è più radicata e, non deve sorprendere, pertanto, se durante la Messa in Mongolia, mentre pronunciava parole di affetto e responsabilità rivolte direttamente ai cattolici della Cina, accanto a Francesco, fosse presente il vescovo di Hong Kong, monsignore Stephen Chow.

Di questo messaggio non è apparsa traccia sui media ufficiali della Repubblica Popolare, né sul blog di riferimento dei cattolici cinesi, ovvero Xinde.

Aprire uno spiraglio in una struttura di potere incentrata sul controllo come quella di Pechino, per permettere lo svolgimento di una normale vita ecclesiale della comunità cattolica locale, è un’impresa difficile e non scontata.

Ma Papa Francesco non ha intenzione di mollare la presa, anche per alzare l’asticella della sfida e dimostrare che il cattolicesimo è in grado di vivere allo stesso modo in ambienti sociali, culturali e istituzionali distanti dal modello occidentale, un postulato che altrimenti lo ridurrebbe al banale riflesso di un assetto di civiltà.

Papa Francesco vuole dimostrare di non essere il cappellano dell’Occidente, ma il capo di una Chiesa globale.

A Seoul la prossima Giornata Mondiale della Gioventù nel 2027

A sostegno di questa visione, assume un significato ancora più politico, la scelta di svolgere la prossima Giornata Mondiale della Gioventù, in programma nel 2027, a Seoul, in Corea del Sud, a voler tracciare metaforicamente l’universalità della Chiesa cattolica che dopo l’esperienza di quest’anno, svoltasi al confine occidentale più estremo dell’Europa, ovvero Lisbona, è pronta a raggiungere, con lo stesso spirito e con gli stessi messaggi, la frontiera orientale più estrema, ancora una volta a poca distanza dalla Cina.

La reazione degli Stati Uniti 

Tuttavia, questo viaggio in Mongolia non ha lasciato indifferente neanche la sponda opposta dell’Oceano, ovvero gli Stati Uniti. Il principale quotidiano della capitale, The Washington Post, negli scorsi giorni ha dedicato una analisi critica alla dottrina di Papa Francesco. Gli elogi resi dal Pontefice alla storia della Mongolia, hanno seguito infatti di poche ore, la celebrazione, sempre a parole, che Francesco ha fatto alla Russia Imperiale, di Pietro il Grande e Caterina I, attraverso cui intendeva incoraggiare i giovani russi.

È noto però come la nostalgia proprio di questo passato imperiale sia il motore spirituale dell’invasione in Ucraina decisa da Putin. E, proprio sull’invasione in Ucraina, in questo anno e mezzo abbondante, non sono mancate occasioni di ambiguità e contraddizioni da parte del Vaticano, basti citare l’ormai celebre “abbaiare della Nato”.

Una sorta di Pax Mongolica

Quella sorta di Pax Mongolica ricamata da Francesco, dovrebbe però sempre tener conto del fatto che Gengis Khan ed i suoi successori conquistarono gran parte dell’Asia, attraverso violente scorribande a cavallo, selezionando usi e costumi locali da conservare, a proprio piacimento. Così come andrebbe ricordato che gli zar Pietro e Caterina, sebbene illuminati dall’ammirevole riverbero culturale di Fedor Emin o Lomonozov e i loro successori al trono da Tolstoij, Cechov e Dostoevskij, sono stati gli artefici del più esteso impero coloniale della storia che ha costantemente combattuto i suoi vicini, con lo scopo di allargare i propri confini, in nome della ricerca di una chimerica sicurezza. Una pratica rimasta famigliare alle istituzioni del Cremlino, anche dopo la caduta degli zar e di cui un recente predecessore di Francesco, ne fu diretta vittima, ovvero il polacco Giovanni Paolo II.

Con la stessa logica, a questo punto, andrebbero rese pacifiche una volta per tutte le diatribe storiche sull’Antica Roma o sull’Impero Britannico, ad esempio, che attuarono forme di tolleranza religiosa verso i popoli colonizzati, non meno dei mongoli e con non più violenza dei russi.

Ma ciò non accadrà perché, mentre in Russia, come in Cina, oggi, la storia viene reinterpretata in funzione di un revanscismo nazionalista, per giustificare le ideologie e gestire il consenso delle masse, l’Occidente intero è ormai diversi anni impegnato in una completamente opposta operazione, non meno estremista e pericolosa, ovvero una sorta di processo auto-colpevolizzante senza appello alla propria storia, per cui ciascuno di noi sembra sia nato macchiato da un peccato originale, che non è però quello tramandato dalla Chiesa cattolica, espiabile attraverso il sacramento del Battesimo, bensì un peccato originale frutto di una ipocrisia travestita da progressismo e tolleranza.