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Una scintilla digitale che ha fatto esplodere una polveriera. Un gesto di censura come ultima goccia in un vaso traboccante di rabbia. E il fragile equilibrio del Nepal, la nazione himalayana incastonata tra i giganti India e Cina, è precipitato in un’escalation di violenza che ha già contato decine di morti. Tutto è iniziato con una decisione del Governo: bloccare l’accesso a piattaforme social come TikTok, Facebook e X.
La ragione ufficiale, come sempre, parla di “sicurezza nazionale” e “contenuti inappropriati”, ma la realtà è che il divieto è stato interpretato come l’ennesimo, disperato tentativo di un’élite politica corrotta di soffocare la voce di un popolo, in particolare di una Generazione Z che ha trovato nella rete l’unico spazio per denunciare malaffare e nepotismo. Nelle settimane precedenti, una virale campagna sui social aveva messo alla berlina lo stile di vita sfarzoso dei “nepo kids”, i figli dei politici, in un Paese dove il reddito pro capite a malapena supera i mille dollari l’anno e dove quasi un terzo dell’economia dipende dalle rimesse degli emigrati.
I primi segnali di malcontento si erano manifestati con i cortei pacifici, a Kathmandu e nelle principali città del Paese. Inizialmente, la polizia ha risposto con gas lacrimogeni e idranti, ma quando i manifestanti – molti dei quali giovanissimi, quasi in divisa scolastica – hanno tentato di forzare il cordone per raggiungere il Parlamento, la situazione è degenerata. La polizia ha aperto il fuoco, con munizioni vere.
I bollettini che arrivano dagli ospedali della capitale raccontano di ferite da arma da fuoco a petto e testa, che hanno trasformato una protesta in un massacro. Mentre il sangue scorreva per le strade, i giovani hanno reagito con una rabbia incontrollabile. Hanno dato fuoco a edifici governativi, attaccato le sedi dei partiti, devastato le case di ministri e leader politici.
Il fumo nero che si levava dal Singha Durbar, il palazzo che ospita uffici governativi e il Parlamento, è diventato il simbolo tangibile di un sistema che brucia. La polizia ha cercato di disperdere la folla, ma la ribellione è stata troppo vasta e capillare. I manifestanti hanno fatto irruzione persino in una prigione, permettendo a un leader politico accusato di corruzione, Rabi Lamichhane, di registrare un video che ha alimentato ulteriormente il fuoco della rivolta. Il premier, Khadga Prasad Sharma Oli, ha provato a difendersi, accusando “gruppi di interesse” di aver fomentato la violenza, ma la sua posizione era ormai insostenibile. In un gesto che segna la fine di un’epoca, ha rassegnato le dimissioni.
Un atto, però, che non ha fermato la rabbia di piazza.
Per i giovani nepalesi la battaglia non è finita con le dimissioni del premier. Le loro proteste vanno oltre un singolo politico. Sono una ribellione contro l’intera classe dirigente, accusata di aver tradito la fragile democrazia nata nel 2008 con la fine della monarchia. Come ha urlato uno di loro, con la bandiera nepalese stretta in mano: «Il nostro movimento non si fermerà qui. Non lasceremo che questa energia muoia invano. Siamo noi, il popolo, i nuovi re».
In questo quadro di caos e speranza, resta il rischio che il vuoto di potere si trasformi in un baratro. La storia del Nepal, con i suoi 13 governi dal 2008, è un monito che la stabilità è un lusso difficile da ottenere. Intanto, l’esercito pattuglia le strade, l’aeroporto di Kathmandu è chiuso, e la comunità internazionale, da India a Cina, osserva con il fiato sospeso gli sviluppi. La miccia è stata accesa, e nessuno sa quando l’incendio si placherà.