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In queste settimane si è parlato molto di Iran. Non succedeva da tempo. I media hanno innalzato un coro ed espresso uniformemente la loro condanna, più o meno velata, sulla situazione delle carceri iraniane (specialmente quella di Evin), in alcuni di questi articoli giornalistici si è anche parlato della repressione che gli iraniani sono costretti a subire, inserendo nel dibattito la teoria degli ostaggi come pratica del regime teocratico per liberare le “sue spie e i suoi uomini” detenuti all’estero.
Stride però il fatto che si sia parlato così tanto di Iran soltanto dopo l’incarcerazione di una cittadina italiana, come se prima questo argomento fosse poco rilevante per essere inserito nelle pagine di cronaca.
La Repubblica islamica da oltre 40 anni (e prima con la tirannia dello scià) pratica contro i propri cittadini violenze fisiche e psicologiche, incarcerazioni arbitrarie e un’oppressione sistematica che prevede anche la pena di morte. Svegliarsi da un sonno profondo soltanto quando viene toccato “uno o una dei nostri connazionali” appare un po’ ipocrita, opportunistico.
Inoltre nonostante in queste settimane si raccontassero, ripeto più o meno velatamente, i crimini e i metodi repressivi del regime teocratico iraniano, mai si è messo in discussione il fatto che Pezeshkian fosse un riformista. Ed è proprio questo, a parer mio, uno dei problemi base della nostra informazione: come si possono denunciare in maniera netta e schietta i crimini della Repubblica islamica se non si parla chiaramente: ovvero se non si dice una volta per tutte che Pezeshkian è riformista solo nel nome, ma non nella sostanza delle sue azioni e della sua condotta politica?
Che al governo ci sia Pezeshkian, o ci fosse stato Jalili (il suo candidato avversario “conservatore” nelle scorse elezioni) o ci fosse ancora Raisi (il macellaio di Teheran), non cambierebbe nulla, in quanto sono uno sostituibile all’altro, perché chi decide e detiene il potere assoluto su ogni decisione è soltanto lui: la Guida Suprema Alì Khamenei.
Che Pezeshkian non sia diverso dal suo predecessore lo confermano i dati.
926 esecuzioni nel 2024, aumenta il numero di donne giustiziate
Secondo i dati raccolti dall’Abdorrahman Boroumand Center nel 2024 in Iran ci sono state 926 esecuzioni capitali (nel 2023 furono 853), di cui 122 effettuate solo nel mese di Dicembre (mentre Hengaw parla di 138 esecuzioni a Dicembre); e sempre secondo le informazioni ottenute dal Boroumand Center, l’Iran ha giustiziato almeno 10 persone il primo giorno del 2025.
L’enorme ondata di esecuzioni nella Repubblica islamica dell’anno scorso ha però anche rilevato un numero crescente di esecuzioni politiche che includono le donne, 31 nel solo 2024, il numero più alto in oltre 15 anni, mentre tra il 2010 e il 2024 sono state giustiziate almeno 241 donne.
Se da una parte l’uso della pena di morte in Iran è l’espressione della natura brutale e disumana della Repubblica islamica, l’aumento delle esecuzioni di donne è la riprova che le politiche del regime teocratico (anche quelle di Pezeshkian) sono orientate verso un annullamento della donna, tant’è che come già ripetuto in un nostro precedente articolo, si può parlare di apartheid di genere, apartheid che si manifesta anche attraverso una profonda disuguaglianza di trattamento del sistema giudiziario.
A parlarne è il recente report Women and the Death Penalty in Iran: A Gendered Perspective pubblicato da Iran Human Rights: «La magistratura iraniana è profondamente radicata nell’apartheid di genere, dove la discriminazione sistemica influisce sulle possibilità delle donne di ottenere processi equi e aumenta la loro vulnerabilità alla pena di morte. Il capo della magistratura e tutti i giudici delle corti penali e rivoluzionarie con l’autorità di emettere condanne a morte sono uomini, il che garantisce una mancanza di imparzialità di genere nel sistema legale».
Oltre la mancanza di un giusto processo, vi sono altri fattori discriminanti che incidono sulla scelta da parte di questi giudici assoldati dal regime di condannare a morte una donna, tra questi, riferisce sempre il report: la povertà e l’appartenenza alle cosiddette minoranze etniche.
«Le donne nel braccio della morte sono spesso abbandonate dalle loro famiglie, lasciandole sole a sopportare condizioni carcerarie disumane. La povertà e l’analfabetismo, in particolare tra le donne appartenenti a minoranze etniche, le privano delle risorse necessarie per una difesa efficace, aggravando la loro vulnerabilità».
La povertà e l’appartenenza a minoranze etniche sono due elementi complementari, in quanto il regime teocratico lascia volontariamente alcune aree geografiche (come il Sistan-Baluchistan ad esempio) nell’indigenza più assoluta impedendo qualsiasi forma di sviluppo, sia economico che educativo.
Appare chiaro, dunque, che una donna proveniente da una di queste aree geografiche sarà svantaggiata durante il processo perché la magistratura non fornendo traduzioni o interpretazioni per garantire che gli imputati comprendano i loro diritti e le accuse, sfrutterà la differenza linguistica, la loro scarsa o nulla conoscenza del persiano, per violare i diritti delle imputate.
A conferma di quanto esposto fino ad ora, c’è anche un altro studio, Women Being Sent to the Gallows in Alarming Numbers in Iran, pubblicato il 18 Dicembre da Center for human rights in Iran.
«In Iran le donne sono sempre più spesso condannate a morte per reati politici. Le autorità iraniane hanno utilizzato la pena di morte contro manifestanti, attivisti e dissidenti al fine di intimidire la popolazione e mettere a tacere il dissenso nel Paese. […] Quest’anno, tre prigioniere politiche, Pakhshan Azizi, Varisheh Moradi e Sharifeh Mohammadi, sono state condannate a morte.
Mentre la sentenza di Mohammadi è stata annullata il 12 ottobre, Azizi e Moradi rimangono a rischio. Non è un caso che due di queste donne, Azizi e Moradi, siano membri della minoranza curda. Le minoranze etniche in Iran sono costantemente prese di mira per l’applicazione sproporzionata della pena di morte, mentre le donne sono soggette a persecuzioni intersezionali particolarmente dure: il loro attivismo politico è trattato come un crimine e un pericolo per la sicurezza nazionale per questo ricevono dure pene detentive, se non la condanna a morte».
“Sono stata impiccata molte volte dagli interrogatori”. La storia di Pakhshan Azizi
L’8 Gennaio la Corte Suprema iraniana ha confermato la condanna a morte di Pakhshan Azizi.
Nata a Mahabad, nel nord-ovest dell’Iran, Azizi Pakhshan si laurea in assistenza sociale presso l’Università Allameh Tabatabai di Teheran. Il 4 Agosto 2023 viene arrestata dalle forze di intelligence iraniane nella città Kharazi di Teheran, e l’11 Dicembre viene trasferita dal reparto 209 della prigione di Evin, dove era in isolamento, al reparto femminile della medesima prigione. Durante il suo periodo di detenzione subisce incessanti molestie e torture, proprio come testimoniato da lei stessa nella lettera di Luglio, le viene inoltre impedito di ricevere visite e telefonate dai familiari, nonché dai suoi legali. A fine Luglio la Sezione 26 del Tribunale rivoluzionario islamico iraniano di Teheran, presieduto dal giudice Iman Afshari, ha notificato la sentenza di condanna a morte per l’attivista, mentre la conferma della condanna è giunta qualche giorno fa.
Azizi, giornalista e attivista politica e umanitaria curda, è stata condannata con l’accusa di baghi, “ribellione”, in quanto secondo i giudici e l’intelligence iraniani appartiene a gruppi che hanno intrapreso una rivolta armata contro il governo islamico, è stata inoltre condannata a quattro anni di reclusione con l’accusa di essere membro del Partito della Vita Libera del Kurdistan (PJAK).
Uno dei suo avvocati, Amir Raesian, tramite Shargh Daily, riferisce che Pakhshan Azizi: «non solo non ha partecipato ad alcuna operazione armata, ma è anche stata in Iraq e Siria negli ultimi sette anni, dove ha aiutato i rifugiati e le persone colpite dalla violenza in veste di assistente sociale dopo le atrocità commesse dall’ISIS dal 2015».
A sostegno di Azizi e di tutti e tutte gli altri prigionieri politici, è insorta la comunità iraniana (sia dentro che fuori dall’Iran) e molti attivisti e organizzazioni umanitarie, che chiedono l’immediata scarcerazione dei prigionieri politici detenuti arbitrariamente e lo stop delle esecuzioni capitali in Iran.
«Jin, Jiyan, Azadi (Donna, Vita, Libertà) non è solo uno slogan, è una ferita aperta, una cicatrice incisa in questa terra che, nonostante il dolore, dà continuamente alla luce la vita. Queste tre parole hanno avuto origine in Kurdistan e hanno risuonato nelle strade, nelle lingue e nei cuori delle persone, non solo come parole, ma come un battito. Questo slogan rappresenta una tabella di marcia per la sopravvivenza in una terra in cui la morte è stata istituzionalizzata.
Gli agenti della morte cercano di stringere il cappio attorno a queste parole, non solo per mettere a tacere due donne, ma per recidere le radici della libertà stessa. Oggi, Varisheh Moradi e Pakshan Azizi, due donne curde, sono simboli di resistenza. I loro nomi riposano sulle nostre labbra, eppure l’ombra dell’esecuzione incombe su tutti noi. […]
I creatori di morte tentano di nascondere i loro volti grotteschi dietro maschere fabbricate. Diffondono paura e impongono il silenzio per spezzare questa catena di voci. Ma sappiamo che prendere le distanze dalla narrazione dello Stato non è sufficiente. Le nostre voci devono trasformarsi in un ruggito, rendendo chiaro che rifiutiamo la morte in tutte le sue forme.
Varisheh e Pakshan devono sopravvivere. Sono la linfa vitale di questa catena, che collega le montagne del Kurdistan alle pianure del Belucistan, le strade dell’Azerbaijan ai villaggi del Khuzestan, legando mani e voci attraverso la terra».
Scrive in una lettera Sepideh Qoliyan, giornalista, scrittrice e attivista per i diritti umani e dei lavoratori, l’11 gennaio 2025 dalla prigione di Evin.