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Morreale, ucciso 46 anni fa, senza sentenza non è vittima di mafia, “nella Svizzera della latitanza”

Il figlio aspetta giustizia e Roccamena la verità. È il 18 giugno 1975 e Calogero Morreale, sindacalista, responsabile dell’Alleanza contadini di un’area dell’entroterra palermitano, sta rientrando a casa. Viene ucciso. Il delitto rimane impunito, non c’è una sentenza dello Stato, perciò Calogero Morreale non viene riconosciuto come “vittima della mafia”. 

Perché abbiamo scelto oggi di ricordare il profilo di Morreale a 46 anni di distanza? Perché non è stato riconosciuto formalmente come vittima di mafia, anche se a tutti gli effetti lo è. E perché la sua uccisione, seguita, nel 1979, da quella di Mario Francese, uno dei più grandi giornalisti siciliani (tanto che definirlo semplicemente cronista giudiziario non gli rende abbastanza merito), si colloca in una serie di vicende che hanno tratteggiato la fisionomia di un territorio della Sicilia occidentale, fino ad oggi. A partire dagli espropri di terreni e dalla speculazione per costruire la grandissima diga del Belice.

Non ne hanno scritto il destino perché, quello, si può cambiare. Hanno, però, contribuito a radicare il carattere di un triangolo di terra, quello di Corleone-Roccamena-Castelvetrano.

L’entroterra della provincia palermitana, compreso tra il trapanese e l’agrigentino, “è una Svizzera, una zona franca dove deve imperare la miseria. In questo modo può essere un territorio perfetto per la latitanza, in massima libertà, per esempio”. Così definisce la zona di Roccamena, dove fu ucciso Morreale, e i suoi dintorni, Carmine Mancuso, già senatore della Repubblica, ora Presidente dell’Associazione per onorare la memoria dei Caduti nella lotta contro la mafia. Il padre, Lenin Mancuso, venne assassinato dalla mafia insieme al giudice Cesare Terranova, nel 1979. “In quegli anni, quando c’era un magistrato capace, un uomo delle Istituzioni o delle Forze dell’Ordine, lo eliminavano, anche perché queste persone erano normalmente isolate”. “I pochi terribili delitti servivano a toglier di mezzo un “problema” e a dare un segnale a tutti gli altri”. Lo stesso valeva per persone come Mario Francese e Calogero Morreale. “Negli anni in cui si stava discutendo dell’opera faraonica che è la diga Garcia, su cui è intervenuto anche tante volte il grande sociologo che era Danilo Dolci, Morreale si è comportato da eroe, da grande democratico. In un tessuto urbano di poche anime, lui alzava la voce, ma era solo, perciò un obiettivo facile. È come lui Francese, grandissimo giornalista d’inchiesta”. “In quella terra ancora oggi non c’è una biblioteca, non si è mai fatto un dibattito sulla mafia”, conclude Mancuso.

Di seguito, riportiamo il ricordo che l’“Associazione per onorare la memoria dei Caduti nella lotta contro la mafia” tributa oggi a Morreale.

“È il 18 giugno 1975. Calogero Morreale, segretario della sezione socialista di Roccamena, centro agricolo palermitano, e responsabile dell’Alleanza contadini, è sulla sua auto e sta rientrando a casa. Sta percorrendo la lunga strada che attraversa i possedimenti di un discusso e potente personaggio, Giuseppe Garda di Monreale, il cui nipote Franco Morreale, fu sequestrato nel settembre dell’anno precedente. Di quelle stesse terre, venticinque anni prima, era affittuaria la famiglia Morreale, che proprio per l’impegno politico del capofamiglia nelle lotte per l’occupazione delle terre, fu cacciata e completamente defraudata. L’auto si perde all’orizzonte lungo la strada. È passata poco meno di mezz’ora, da quanto la polvere si è ridepositata sulla strada, dopo il passaggio dell’auto. Due contadini, Giuseppe Calamia e suo figlio, la stanno percorrendo a piedi. Una Fiat 500 è ferma in mezzo alla strada. Si avvicinano. Al suo interno vedono Calogero Morreale morto. Sette colpi di pistola e una scarica a distanza ravvicinata, attraverso il parabrezza, chiudono per sempre la bocca a Calogero. A casa, ad aspettarlo, ci sono la moglie e i due figli.

“E’ un delitto contro il paese – scriveva su “L’Ora” Nicola Volpes, grande giornalista, alcuni giorni dopo l’ omicidio – un’ intimidazione per tutti, la scelta di un uomo che da anni era un emblema, una bandiera attorno alla quale si riunivano quei consensi che non erano certo graditi a chi avrebbe voluto Roccamena ferma nel tempo, avulsa dalle idee nuove, dai rinnovamenti che cancellano i vecchi privilegi”. “Il paese si trova a una svolta per il suo futuro sviluppo civile ed economico – illustra Volpes – la modifica del piano comprensoriale, il parziale trasferimento dell’abitato che fu danneggiato dal terremoto della Valle del Belice, l’estensione del vigneto per l’incremento dei redditi agricoli. Battaglie per le quali – continua il cronista – la famiglia dell’ucciso ha avuto sempre una precisa collocazione politica, impegnata sin dall’immediato Dopoguerra nel movimento contadino e nei partiti di sinistra”.

Nonostante Pietro, il padre di Calogero, abbia accusato apertamente i mafiosi della zona, le indagini sono destinate ad arenarsi. Il delitto di Calogero Morreale rimarrà, così, impunito e, sul suo omicidio, non fu mai raggiunta alcuna verità processuale. L’allora giudice istruttore Paolo Borsellino, così scriveva la sentenza che archiviava le accuse di favoreggiamento nei confronti di tre potenziali testimoni: «A causa della sua intensa attività politico-amministrativa, espletata in un ambiente sociale ove i privati interessi vengono prepotentemente difesi da parte degli interessati a discapito del bene pubblico e in acerrimo conflitto con loro, Calogero Morreale aveva per certo con numerosi individui e nuclei familiari notevoli ragioni di contrasto, in special modo con riferimento alla regolamentazione dell’ attività urbanistico-edilizia e alla promozione di attività cooperativistiche, delle quali s’era di recente ampiamente interessato”. La mancanza della sentenza, ha inoltre reso impossibile il riconoscimento a Calogero Morreale, da parte dello Stato, di “Vittima della mafia”.”

Riportiamo anche l’articolo scritto da Alberto Ronchey nel 1965