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Union of Equality. Dietro un “attentato alla cristianità”, il desiderio di includere ogni persona

di Marco Bellinzona

A Lussemburgo sta già nevicando. È dicembre, per fortuna ti sei vestito pesante. Ma il freddo non smorza il tuo entusiasmo, perché finalmente è arrivato il gran giorno. Hai vinto un concorso indetto dall’UE, ti hanno premiato di quel progetto per cui hai tanto lavorato. Di cosa si tratti, qui, non ci interessa. Importa invece che il pubblico a cui lo stai per presentare è multiculturale: al di là di una piccola percentuale di cattolici credenti, tutti gli altri sono musulmani, ebrei o semplicemente atei. Dopo l’applauso, che chiude la tua performance, ti sorge un dubbio: ha senso concludere con gli auguri di buon Natale? Del resto, solo una piccola parte dei presenti lo festeggerà. Probabilmente non suonerebbe inclusivo, visto che non coinvolgerebbe una (grossa) parte della tua audience.

Union of Equality

È solo una piccola raccomandazione: quando parli in pubblico, magari in uno scenario europeo, non dare per scontato che tutti siano cristiani. Potrebbe non suonare inclusivo.

Questo, in sintesi, era il senso delle European Commision Guidelines for Inclusive Communication, il documento del progetto Union of Equality pubblicato a ottobre dalla Commissione Europea, ma diventato famoso per aver attentato alle radici cristiane dell’Europa. In realtà, come suggerisce il titolo, si trattava di una serie di accorgimenti rivolti ai dipendenti UE per comunicare a un pubblico multiculturale, dove non è raro che gli interlocutori siano di diversa etnia, razza o orientamento sessuale. Un fraintendimento tutto italiano visto che, a quanto pare, all’estero ne avevano colto il senso. Fatto sta che alla fine la commissaria all’Uguaglianza Helena Dalli ha dovuto ritirare le Guidelines – sebbene sianoancora consultabili online.

Pagina 19 delle Guidelines.

È vero, nel documento si invita a non usare la parola “Natale”, ma la premessa nelle linee guidaè fattuale: non dare per scontato che tutti siano cristiani. Do this instead: specifica che ti stai riferendo «a chi celebra il Natale» oppure, a scanso di equivoci, limitati ad augurare buone feste. Banalmente, è un discorso di sensibilità, visto che «le persone hanno differenti tradizioni religiose».    

Un principio per chiunque

Fin qui, il Natale. Ma quello che si dice della festività cristiana vuole essere un principio generale: avoid assuming that everyone is […]. Non dare per scontato che tutti appartengono a una stessa categoria. Che non significa né rinnegare l’ascendenza cristiana dell’UE né venir meno alla nostra identità culturale – come anche un senatore ha dichiarato. Piuttosto, non dare per scontato che tutti i cittadini europei siano necessariamente cristiani. È un principio speculare al motto dell’UE, «uniti nella diversità»: se l’unità si deve fondare sulle specifiche diversità individuali, allora non è più scontato che tutti siano[…].

Lo stesso discorso si ripropone anche per altri argomenti, come l’orientamento sessuale (p. 13). «Il nostro linguaggio non dovrebbe dare per scontato che le persone siano eterosessuali, che si identifichino col loro genere di nascita o solo nei generi maschile/femminile».

Parlare alla persona

Avoid assuming that […]è un primo principio per parlare di inclusione, in un contesto multiculturale dove l’unità vuole fondarsi sulle differenze individuali. Ma anche il multiculturalismo parla, e richiede un suo linguaggio. È il cuore del documento: proporre una forma linguistica che sia sensibile e rispettosa delle diversità degli interlocutori. Per questo motivo le Guidelines si rifanno al people-first language (PFL).

Mutuato dal campo medico-psicologico, il PFL consiste in uso del linguaggio che enfatizza la persona prima della sua disabilità, dei disturbi o delle patologie con cui convive. Comunicare in modo person first significa riferirsi alla persona, senza ridurla alla sua cartella clinica. Per questo motivo si distingue il diabetico dalla persona che ha il diabete, l’epilettico dalla persona con disturbi da epilessia, il disabile dalla persona con disabilità. In sostanza, si dice che cosa una persona ha anziché che cosa è.

Non è la stessa cosa dire “persona con disturbi da alcolismo” o “alcolista”. Nel primo caso, si distingue la persona dalla sua dipendenza, dicendo che una persona ha una dipendenza; nel secondo, invece, la dipendenza identifica e determina la persona, che è la sua patologia.

Un discorso di sensibilità, perché si tratta di rispettare la dignità dell’individuo. In virtù di questa attenzione per la persona, al di là delle sue caratteristiche, le Guidelines suggeriscono di estendere l’uso del PFL anche agli altri livelli: dalla comunità LGBTIQ alle differenze di etnia, parleremo di persone gay anziché di gay, di persone africane anziché di africani, eccetera.

Uniti nella diversità: people-first

Un linguaggio attento alla persona, ma anche al plurale è utile parlare in modo people-first per evitare categorizzazioni, raggruppare le persone in un unico insieme. Se si parla “di disabili” è facile pensare che tutte le persone che appartengono a questo gruppo siano omogenee, qualificate solo da un’unica caratteristica (essere disabili). «Evita nomi collettivi come “i disabili” perché potrebbe suonare disumanizzante, e le persone con disabilità non sono un gruppo omogeneo» (p. 21).

La ricchezza della persona

Non dare per scontato che tutti appartengano a una stessa categoria; comunica con riguardo alla persona, anziché a una sua sola caratteristica. È un linguaggio per rispettare l’individuo, sapendo che le sue caratteristiche non lo determinano univocamente. Solo così si capisce che dietro ogni alcolista, ogni cristiano, ogni laico c’è comunque una persona – che è anche alcolista, una persona che è anche cristiana. Essere cattolico, alcolista, omo- o eterosessuale: sono solo alcune delle proprietà dell’individuo. In gioco, c’è la complessità della persona. È il concetto fondamentale per l’inclusività, tant’è che viene spiegato nel primo paragrafo delle Guidelines: «le persone sono esseri complessi [complex beings] con molteplici caratteristiche e identità» (p. 5).

Questa è la posta in gioco di un linguaggio inclusivo: avere una complessità come interlocutore. Se vuoi includere chiunque nel tuo discorso, senza eccezioni, devi pensare che stai parlando con esseri complessi. Non è scontato che tutti abbiano lo stesso credo religioso, un orientamento sessuale unico, ideologie affini. E la comunità di queste complessità, «unite nella diversità», non può disperdersi in categorie separate.

È la sfida che il linguaggio, in generale, deve sostenere: trovare un modo per parlare di (e con) entità sempre meno riducibili a categorie comuni, sempre più complesse e stratificate. Un linguaggio che racconta di una Union of Equality. Certo, è una sfida prima culturale che linguistica, ma si può iniziare con qualche semplice accorgimento. Per esempio, evitando di dare per scontato che tutti siano […].