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Il decreto flussi prevederebbe più ingressi. E diventa un’altra spina per Draghi

di Salvatore Baldari

L’attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza sta facendo emergere, di settimana in settimana, tutte quelle forzature e pastoie ideologiche varie, sedimentate negli ultimi tre decenni di storia della nostra bella Italia.

La responsabilità di incrementare notevolmente la velocità di spesa dei fondi europei rispetto agli ultimi anni, impone la ricerca di rimedi efficaci. I decreti semplificazione e il supporto tecnico che lo Stato ha garantito alle amministrazioni locali da soli non bastano.

Pare un paradosso, ma in un Paese come il nostro con 2,3 milioni di disoccupati, mancano le competenze professionali necessarie per completare i progetti del Pnrr nei tempi indicati.

Seppure convocassimo i percettori del Reddito di Cittadinanza, fra questi solo un terzo risulta abile al lavoro e, soprattutto, una gran parte non possiede abilità e preparazioni adeguate, né ha manifestato disponibilità a spostarsi da una parte all’altra della Penisola. Si stima che, soltanto nel settore dell’edilizia, il buco sia di almeno 100 mila addetti specializzati. Nelle telecomunicazioni, la carenza calcolata è di circa sedici mila unità e discorsi analoghi valgono per altri settori, su tutti l’agricoltura e il turismo. Fra le qualifiche più ricercate anche quelle nelle attività scientifiche e tecniche.

Il decreto flussi

Alla luce di questo vero e proprio allarme, nelle ultime settimane, sulla scrivania del Presidente Draghi sono poste in cima a tutte le carte, quelle del cosiddetto decreto flussi.

Si tratta di una legge annuale che fissa il numero massimo di ingressi o regolarizzazioni di cittadini extracomunitari, nel nostro Paese, per motivi di lavoro.

Dal 2015 l’asticella è ferma a quasi trentuno mila permessi ed il meccanismo ha conosciuto una ulteriore clausola normativa, nel periodo in cui al Viminale sedeva Matteo Salvini, il quale aveva introdotto un vincolo per cui, in ogni decreto successivo, non si sarebbe mai dovuta superare la quota dell’anno precedente.

C’è un episodio emblematico che ben spiega la strategicità di una legge come questa. E lo racconta il Presidente confederale dell’industria manifatturiera, Paolo Agnelli, il quale recentemente aveva selezionato in Albania trenta collaboratori da impiegare in una sua trafileria, ma si è ritrovato impedito dalla Questura che non poteva più concedere permessi di lavoro.

Ad oggi l’Italia, insieme alla Grecia, detiene il primato di Paese europeo che, in proporzione alla popolazione, concede meno permessi di lavoro agli stranieri.

Ma, come tutti i tipi di “proibizionismi” conosciuti dalla storia dell’umanità anche questo cede il passo ad espedienti e soluzioni alternative. Infatti, il ridotto impiego di flussi regolari, ha favorito negli anni l’utilizzo di altri canali di ingresso: sbarchi, ricongiungimenti familiari, visti turistici. Si potrebbe semplificare, sostenendo che per lavorare fra i nostri confini, prevalentemente nel sommerso, una buona parte di persone entra da clandestino o da turista e si rifugia nell’oblio, in attesa di qualche accadimento propizio, tipo sanatorie, emergenze o cerimonie nuziali.

Tuttavia, l’impellenza del Pnrr e la volontà del Presidente Draghi stanno facendo trapelare, per quest’anno, numeri di tutt’altro ordine.

Il decreto è atteso per fine anno ed è, in questi giorni, in discussione fra le strutture ministeriali competenti (esteri, lavoro, interni) impegnate, nel frattempo, a consultare associazioni datoriali e sindacati.

Secondo Federico Fubini, giornalista economico del Corriere della Sera, “in una delle sue ultimissime versioni prevedeva 81 mila fra nuovi ingressi e regolarizzazioni, a fronte dei 30.850 cui si era rimasti fermi da sei anni: è dunque una spinta innegabile per tirare fuori dal limbo i lavoratori stranieri e gli imprenditori italiani che ne richiedono l’opera a gran voce, specie a fronte del sostanziale fallimento della sanatoria varata nel 2020”.

Entrando più nello specifico, la quota di ingressi per lavoro subordinato si attesterebbe sui trentasei mila addetti, ripartita fra i settori dell’autotrasporto, del turismo e dell’edilizia. Gli ingressi stagionali, ammonterebbero a quarantacinque mila, compresi i permessi per lavoratori autonomi ed investitori.

Il netto cambio di passo con una quota di ingressi più che raddoppiata rispetto a quelle precedenti, però, potrebbe non ridursi a questi numeri.

Fonti di Palazzo Chigi non smentiscono che, oltre al decreto atteso per la fine di questo anno, ne potrebbe essere varato un altro nelle prime settimane del 2022, con soglie molto simili.

In giornate roventi come le attuali, con la minaccia concreta della variante Omicron, le rivendicazioni successive allo sciopero Cigl-Uil, la fase di stallo per la legge di bilancio e le manovre per l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica, il decreto flussi è un’altra spina che sta mettendo a dura prova la stabilità del Governo.

Le prevedibili polemiche politiche scaturite da un’annunciata riapertura dei flussi migratori non fermano Draghi, pur imponendogli di agire con prudenza e destrezza.

Il decreto flussi è una misura richiesta con urgenza dal mondo degli imprenditori, per non far impantanare l’eccellente ripresa economica che l’Italia ha conosciuto negli ultimi nove mesi, uno dei fattori recentemente esaltati dal prestigioso tabloid britannico The Economist, che ci ha riconosciuto “Country of the year”.