La repressione digitale e informatica nella Repubblica islamica dell’Iran

Il Mes, la rete di sicurezza con un buco
15 Maggio 2025
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15 Maggio 2025

La repressione digitale e informatica nella Repubblica islamica dell’Iran

La repressione del regime teocratico iraniano è un flusso inarrestabile: dilaga e contamina qualsiasi spazio, sia esso pubblico che privato, coercizzando in modo tirannico l’esistenza dei cittadini. La repressione ha trasformato le strade in luoghi di sangue. In molti sono stati uccisi, tra questi anche minori e bambini, e quando non sono morti si è provato a silenziarli torturandoli o incarcerandoli, ma non per questo gli iraniani e le iraniane hanno smesso di gridare alla giustizia e a lottare per vedere riconosciuti i loro diritti.

Finché l’Iran non sarà libero, il suo popolo continuerà nella sua rivoluzione pacifica, resistendo anche ai peggiori soprusi.

La repressione dei cittadini iraniani attraverso sistemi informatici e digitali

Da Settembre 2022 l’oppressione e il controllo verso i cittadini iraniani si è intensificata. Ad affiancare esecuzioni capitali, violenze di ogni tipo e incarcerazioni arbitrarie, il regime della Repubblica islamica ha anche effettuato controlli sistematici sui cittadini, utilizzando in maniera massiccia sistemi di videosorveglianza e informatici, con lo scopo di reprimere ulteriormente le donne e le ragazze.

A confermarlo sono due report recenti: Report of the independent international fact-finding mission on the Islamic Republic of Iran, realizzato dalle Nazioni Unite e pubblicato il 14 Marzo 2025, e lo studio del Parlamento europeo pubblicato nel Maggio 2024, Artificial intelligence (AI) and human rights: Using AI as a weapon of repression and its impact on human rights.

Lo studio delle Nazioni Unite è il risultato di un’indagine indipendente durata due anni che ha incluso interviste a circa 285 vittime e testimoni e l’analisi di oltre 38.000 prove. La ricerca è stata commissionata a seguito dello scoppio delle proteste sfociate dopo l’uccisione di Jina Mahsa Amini per esaminare i metodi repressivi del regime della Repubblica islamica.

Da questo studio emerge che il regime teocratico ha, dal 2022, utilizzato tecnologie avanzate, tra cui droni aerei e un nuovo software di riconoscimento facciale, per monitorare il rispetto dell’uso dello hijab negli spazi pubblici.

L’uso di tali tecnologie è stata, ad esempio, rafforzata nell’Aprile 2024 quando fu approvato il “piano Noor”: una serie di misure tese a punire ulteriormente e più severamente le donne che violavano la legge obbligatoria sullo hijab. Scopo dell’introduzione di queste forme di sorveglianza era quello di “preservare la sacralità della castità e dello hijab e combattere le cattive condotte”. Per rendere efficace il rispetto di queste nuove misure lo Stato ha fatto ricorso anche a un’applicazione mobile chiamata Nazer.

Nazer è un’applicazione che consente a individui scelti e monitorati dalle forze di sicurezza e alla polizia in tutto l’Iran, di segnalare e registrare casi di inosservanza dello hijab da parte di donne e ragazze presenti in veicoli privati. Se però da Aprile ad Agosto Nazer è stata usata perlopiù per intercettare le donne senza velo all’interno delle auto, a Settembre l’app è stata aggiornata per consentire il monitoraggio delle donne anche all’interno delle ambulanze, sui mezzi pubblici o sui taxi.

Oltre alle confische delle auto, con l’avvio del progetto Noor e l’uso dell’app Nazer aumentarono anche gli inseguimenti e le perquisizioni casuali di auto in cui viaggiavano donne. Molte ragazze hanno denunciato improvvisi sequestri durante i loro spostamenti tra casa – lavoro – scuola – visite mediche, sottolineando il completo disprezzo della polizia per la loro sicurezza, con alcune donne lasciate bloccate su autostrade trafficate o in località lontane dalla loro città di residenza.

Dal report delle Nazioni Unite emerge un altro dato allarmante: almeno 618 donne sono state arrestate nel contesto del piano “Noor“; e durante la detenzione molte di esse sono state sottoposte a ripetute violenze.

Le donne iraniane sono state quindi poste sotto una potente lente di ingrandimento, subendo sanzioni penali, multe,
apartheid di genere sistematica, dure pene detentive e condanne a morte.

Ricordiamo che nel 2024 furono 31 le donne impiccate, il numero più alto in oltre 15 anni.

Tutto questo mentre in Europa, e in Italia il neo eletto presidente Masoud Pezeshkian veniva definito da molti colleghi giornalisti: “normalizzatore”, “una possibilità di cambiamento”, “un uomo sensibile perché piange in pubblico”, definizioni che attraverso queste parole hanno fatto da megafono alla propaganda del regime senza considerare quanto stava accadendo in Iran, dove ogni giorno almeno un detenuto ogni 4 ore veniva (e viene) consegnato nelle mani del boia per essere impiccato.

Il ruolo dell’AI nel controllo sistematico del regime

Il report dell’UE invece affronta come i regimi totalitari usino l’AI per reprimere i cittadini, e in questo studio, non a caso, è dedicata una parte anche all’Iran.

In un paragrafo intitolato Sistemi di repressione iraniani basati sull’intelligenza artificiale: mettere a tacere il dissenso e reprimere l’opposizione, lo studio UE informa che sebbene le pratiche di autoritarismo algoritmico iraniano siano tecnicamente inferiori rispetto a quelle praticate da Russia e Cina, la Rete Nazionale di Informazione iraniana (NIN) rappresenta un tentativo significativo di isolare gli utenti iraniani dall’internet globale. Il regime teocratico infatti, utilizzando diversi strumenti di sorveglianza e monitoraggio basati sull’intelligenza artificiale, pratica il cosiddetto autoritarismo algoritmico.

Concepita all’inizio del 2010, la logica fondamentale della NIN affonda le sue radici negli sconvolgimenti politici del 2009, periodo in cui la popolazione iraniana, sempre più interconnessa digitalmente, iniziò a esprimere in maniera decisiva il dissenso politico anche tramite i sistemi informatici. Per frenare questa rivoluzione digitale e dominare la narrazione degli eventi attraverso la propaganda, il regime iraniano ha concepito la NIN come, appunto, un mezzo per ridurre la dipendenza dell’Iran dall’internet globale.

Scopo di questa rete nazionale è quella di garantire che i contenuti fruibili dai cittadini siano in linea con le ideologie e la propaganda del regime, e dunque non influenzati dalle voci dissidenti, oppositrici e occidentali.

Oltre che la Rete Nazionale di Informazione iraniana, la Repubblica islamica per monitorare e reprimere i cittadini e gli oppositori impiega l’uso dell’intelligenza artificiale. Nel paragrafo Sorveglianza e controllo transnazionali, il report analizza l’utilizzo repressivo dell’AI in: operazioni informatiche, manipolazione dei social media, sorveglianza e censura digitale. Tra queste vale la pena ricordare le famigerate campagne di hacking internazionali (si pensi quelle ad opera del gruppo hacker del governo iraniano Charming Kitten), e l’uso di tecnologie di sorveglianza e monitoraggio dei dissidenti iraniani all’estero e dei cittadini in patria (come le intercettazioni di cittadini iraniani in Iran effettuate attraverso il sistema informatico SIAM)

Dal report risulta che il regime teocratico applica una stretta sorveglianza soprattutto verso i dissidenti, le donne e appartenenti a minoranze etniche e religiose.

Il ruolo dei sistemi di videosorveglianza nelle proteste del 2018 e del 2019

L’uso della tecnologia e della sorveglianza attraverso un vigilantismo sponsorizzato dallo Stato non è una novità in Iran. È il Novembre 2019 quando il brusco aumento del prezzo del carburante e un’inflazione galoppante causarono proteste in tutto l’Iran, con manifestanti che bloccarono il traffico e le strade.

«Abbiamo abbastanza sistemi di sorveglianza e telecamere a circuito chiuso per identificare le auto, i loro numeri di targa e i conducenti che hanno bloccato le strade, per questo chiedo alla magistratura di attuare le leggi vigenti in materia. Voglio dire che se qualcuno disturba la vita delle persone, provoca insicurezza e blocco stradale… Non sarà tollerabile nel nostro Paese».

Così si esprimeva l’ex presidente dell’Iran Hassan Rouhani durante una riunione di gabinetto trasmessa dalla rete televisiva statale e riportata dal giornale Entekhab.

Parole a cui seguirono fatti, o per meglio dire azioni violente. Nel 2020 infatti il relatore speciale delle Nazioni Unite, Javaid Rehman, denunciò un uso eccessivo della forza da parte delle forze di sicurezza per sedare le proteste del Novembre 2019 e del Gennaio 2020. Una forza letale che costò la vita a oltre 300 persone. Justice for Iran a proposito informa che: «Le autorità hanno utilizzato i filmati delle telecamere a circuito chiuso del traffico, delle telecamere di sicurezza e i video delle piattaforme dei social media per identificare e arrestare i manifestanti. La polizia e le forze di sicurezza hanno anche rilasciato pubblicamente filmati di manifestanti, alcuni ripresi da telecamere a circuito chiuso, chiedendo al pubblico di aiutarli nell’identificazione. Utilizzando tali metodi, le autorità iraniane hanno continuato a portare avanti una feroce repressione all’indomani delle proteste, arrestando migliaia di persone».

Anche un anno prima, in relazione alle proteste nazionali antigovernative sfociate sul finire del 2017 e proseguite fino a Gennaio 2018, i sistemi tecnologici di videosorveglianza, in special modo quelli provenienti dalle telecamere per controllare le infrazioni stradali, sono stati usati per controllare e identificare i manifestanti.

Ricordiamo che le rivolte scoppiarono per criticare le politiche economiche del governo del Paese, l’elevata disoccupazione e inflazione, nonché per denunciare la corruzione nel governo e il leader supremo Ayatollah Ali Khamenei.

In quest’occasione, il 3 Gennaio, l’agenzia di stampa affiliata al Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche (IRGC), Tasnim, pubblicò una serie di foto scattate ai manifestanti da una telecamera a circuito chiuso del traffico posizionata di fronte all’Università di Teheran chiedendo ai cittadini di identificare i manifestanti e, una volta riconosciuti, informare le agenzie di sicurezza in merito alla loro identità. All’interno di questa “operazione” molti studenti furono arrestati, ricevendo pesanti condanne. Tra questi vi fu Leila Hosseinzadeh, all’epoca dei fatti segretaria del Consiglio centrale degli studenti dell’Università di Teheran.

I funzionari giudiziari iraniani, riporta Reuters, hanno stimato che in quel periodo 1.000 persone furono arrestate, mentre Mahmoud Sadeghi, allora membro del Parlamento, riferì a Khaneh-e-Mellat (ICANA) che erano almeno 3.700 le persone che sarebbero state incarcerate.

La tecnologia è quindi stata utilizzata dalla Repubblica islamica come strumento repressivo per intimidire e impedire ai manifestanti di esercitare i loro diritti fondamentali, ma anche per identificare i dissidenti e le donne che violavano la legge sullo hijab, per poter poi procedere con incarcerazioni arbitrarie, torture e condanne a morte. Un uso punitivo che si è intensificato specialmente alla fine del 2022 in coincidenza con la “rivolta Jina”.

Durante questo periodo, ad esempio, il governo iraniano per identificare i manifestanti ha utilizzato micro veicoli aerei (MAV) e droni. I MAV sono micro aeroplani facilmente pilotabili a distanza tramite una console, e permette alle forze militari di avvistare eventuali soldati o mezzi considerati “nemici” dall’alto.

Il 30 Ottobre l’agenzia di stampa Mehr ha difatti pubblicato un video di un drone utilizzato dalla polizia antisommossa per identificare i manifestanti. Nel filmato si vede l’operatore del drone accanto a un tiratore scelto della polizia antisommossa, dopodichè vengono mostrate le immagini dei manifestanti riprese dal drone, seguite dalle immagini dei manifestanti detenuti.

Tali testimonianze visive non lasciano dubbi sul fatto che le forze di sicurezza iraniane stiano utilizzando strumenti di videosorveglianza per identificare, sopprimere, arrestare, o addirittura uccidere i manifestanti.