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Rider, se non pedali tu pedala un altro. Tra gig economy e caporalato digitale

 di Silvia Cegalin

«I miei turni sono decisi da un algoritmo, forse è questa la cosa di cui non riesco a capacitarmi», è questa una tra le prime frasi che mi dice uno dei rider di Just Eat che ho intervistato a Padova (maschio dai 20 ai 25 anni).  

Già, perché se i fattorini classici avevano e hanno come riferimento un datore di lavoro rappresentato dall’esercizio commerciale per cui curano le consegne a domicilio, il “capo” dei rider sono le piattaforme online di food delivery che, attraverso un sistema algoritmico, organizzano i turni e gli orari di lavoro, oltre che valutare le prestazioni dei propri dipendenti.

I rider infatti possono essere considerati come l’emblema simbolo della gig economy, o quella che in italiano viene definita come economia dei lavoretti. Spesso ed erroneamente confusa con la sharing economy (economia collaborativa o condivisa in quanto improntata su una relazione orizzontale e simmetrica tra gli attori coinvolti), la gig economy, al contrario, si posiziona ai vertici delle nascenti forme di organizzazione dell’economia digitale.

In una società in cui le tecnologie hanno progressivamente rivestito un ruolo predominante, anche il settore del lavoro è stato costretto a mutare, assumendo forme che andassero incontro alle nuove esigenze create dal sistema, un sistema che ha notevolmente ridotto la partecipazione della componente umana, talvolta annullandola, in favore di rapporti esperiti tramite un semplice click.

E la condizione dei rider è proprio il risultato naturale di un mondo del lavoro che è cambiato e che, se da una parte ha scelto di adottare il principio della flessibilità (una flessibilità che come vederemo viene spinta all’estremo) come unico caposaldo, dell’altra ha scelto di rinunciare ai valori di stabilità, sicurezza e garanzie sociali.

La gig economy nel lavoro dei rider non a caso si manifesta nella sua forma più prepotente, perché a differenza di altri “lavoretti” precari (pensiamo ad esempio alle baby sitter o ai creativi freelance), è proprio il ruolo delle piattaforme a diventare – qui – determinante. Se infatti gli altri lavori, seppur instabili, esisterebbero anche senza le piattaforme, la figura del rider non può esistere al di fuori dell’online outsourcing. L’online outsourcing nasce con lo scopo di far raggiungere alle aziende, tramite le piattaforme appunto, un vasto bacino di potenziali lavoratori flessibili, saltuari e a basso costo, in questo caso il datore si trova esonerato dall’incarico di dover selezionare e conoscere personalmente i propri dipendenti, optando per un’assunzione di “massa” che accresce il raggio di disponibilità, nel senso che, se per quella consegna non non ci sei tu, ci sarà sicuramente un altro.

Tale fattore, tuttavia, incide sulla paga che risulta essere ai livelli minimi (a volte nemmeno rispettati) e ad accettare condizioni lavorative in cui i poteri contrattuali e sindacali appaiono diminuiti. Un modello, quello delle piattaforme online funzionali, che serve per soddisfare i bisogni estemporanei delle imprese, oltre che promuovere un’idea di lavoro sganciata da tutele e diritti.

Non stupisce d’altronde se la domanda e l’offerta di lavoro gestita online sia stata soprannominata Plattform-Kapitalismus, termine coniato dal blogger e studioso tedesco Sascha Lobo, e sviluppato successivamente da Nick Srnicek nel suo libro Platform Capitalism del 2016. Il connubio tra i termini di capitalismo e piattaforme avviene perché la neutralità di cui si rivestono le app in realtà è soltanto una facciata, in quanto esse non fanno altro che incentivare la precarizzazione, aumentando il potere e il guadagno delle aziende a discapito dei lavoratori. Il rapporto di lavoro mediante le app, spiega Sascha Lobo, funzionano come un’asta a ribasso, il lavoratore che pretende meno e offre di più vince la gara, un sistema che, se diviene sistematico, rischia di incidere sul significato originario di lavoro stesso, sgretolando qualsiasi potere di richiesta da parte del dipendente.

Le condizioni lavorative dei rider: tra riforme contrattuali e sfruttamento

Questa premessa sulla gig economy e sul capitalismo digitale è fondamentale per comprendere il tessuto sociale in cui i rider agiscono, e soprattutto per capire il motivo per cui attorno a questa categoria si sono creati dei collettivi di sostegno, come ad esempio Deliverance Milano – sindacato metropolitano dei riders, Rider x i Diritti, o Riders Union Bologna, perché per questo lavoro i sindacati tradizionali da soli non bastano.

Il panorama italiano dei rider, un po’ come quello internazionale europeo, è veramente molto variegato e complesso, parlando con la gente ho notato che c’è veramente tanta confusione in merito al lavoro dei rider: per alcuni sono la versione moderna e più colorata dei tradizionali fattorini, per altri invece sono lavoratori autonomi che però fanno riferimento a una grande azienda. Se poi si prova a chiedere quale compagnia tra Just Eat, Deliveroo, Glovo e Uber Eats si preferisca, la risposta più comune è: «ma non sono tutte uguali?».

Queste risposte fanno ben capire come l’argomento dei rider seppur molto discusso e onnipresente nei media resti per alcune persone abbastanza oscuro. L’unica cosa chiara è che il rider, una volta ricevuto un ordine attraverso l’applicazione digitale, va a recuperare il prodotto ordinato per consegnarlo, in bici o con un ciclomotore, all’indirizzo del cliente. Per capire bene chi sono e cosa fanno i rider è bene iniziare dicendo che non tutti i rider sono uguali, chi lavora per Deliveroo infatti ha un inquadramento contrattuale diverso da chi consegna per Just Eat, il primo è un lavoratore autonomo il secondo è un dipendente, tuttavia entrambi sono partiti alla stessa maniera, ossia come lavoratori autonomi.

In principio i ciclofattorini, indipendentemente da quale piattaforma fossero assunti, erano tutti considerati lavoratori autonomi, essi venivano perciò pagati a consegna decidendo quando lavorare, oltre che essere liberi nel rifiutare un determinato ordine.

Questo però, come accennato nel paragrafo precedente, è incluso all’interno di quello che è stato stato definito come Capitalismo digitale. Perché, se è vero che il lavoro dei rider è contrassegnato da un’alta flessibilità, è anche vero che se essi fossero realmente autonomi progetterebbero e organizzerebbero in piena autonomia il proprio lavoro, senza quindi doversi affidare all’algoritmo di una piattaforma gestita da terzi, stabilendo inoltre anche la cifra base con cui farsi pagare, e invece questi sono aspetti in cui i rider non hanno alcun potere decisionale, quindi perché considerarli autonomi? Tale “autonomia”, di conseguenza, sembra più un modo per le compagnie di scaricarsi dalle responsabilità.

Nel corso di questi anni sono state fatte molte battaglie dai sindacati e dalle singole associazioni, il primo passo verso una maggiore acquisizione dei diritti dei rider è datata settembre 2020, data che coincide con l’approvazione del Contratto Collettivo Nazionale del Lavoro firmato da AssoDelivery – associazione che rappresenta l’industria italiana del food delivery a cui aderiscono Deliveroo, Glovo, Just Eat, Social Food e Uber Eats – e il sindacato UGL (Unione Generale del Lavoro). Come si legge nel contratto il lavoro dei rider, pur rimanendo autonomo, prevede compensi minimi, indennità, fornitura gratuita di dotazioni di sicurezza, obbligo di formazione specifica e di coperture assicurative.

Un primo passo, si potrebbe dire, eppure non abbastanza, perché la categoria dei rider rimane tra quelle più sfruttate, sia a livello economico che sociale. A rivelarlo è stata l’indagine “deliverygate” condotta dalla Procura di Milano e resa pubblica nel febbraio 2021. Indagine iniziata dopo una serie di infortuni stradali avvenuti durante il lockdown, e in cui il procuratore capo Francesco Greco rilevando un costante sfruttamento dei rider e il non rispetto dei diritti presenti nelle loro condizioni contrattuali, ha descritto le modalità di lavoro di Uber Eats, Glovo-Foodinho, JustEat e Deliveroo, come un “sistema schiavistico” e somigliante al “caporalato digitale”.

A fronte anche di questo scandalo, un altro passaggio fondamentale è stato fatto a Marzo 2021 quando i lavoratori di Just Eat si sono trasformati in lavoratori dipendenti, grazie all’accordo stipulato tra Cgil,Cisl, Uil e Just Eat Takeaway per applicare ai rider il Contratto nazionale di Trasporti Merci e Logistica, contratto che ha permesso ai rider di usufruire di diritti coincidenti con: una paga base legata ai minimi contrattuali e non alle consegne, il Tfr, la previdenza, l’infortunio, la maternità o la paternità, le ferie, un orario di lavoro minimo, festività e notturni, oltre al rimborso spese per l’uso del mezzo proprio.

In merito nella città in cui mi trovo, Padova, ho voluto incontrare alcuni rider di Just Eat, fra i più numerosi in questa provincia, per chiedere cosa ne pensino di questo passaggio. Le opinioni rilevate sono molto diverse, due ragazze studentesse tra i 20 e i 25 anni ammettono che preferiscono questo sistema: «perché anche se non consegni sei pagato ad ore, e questo almeno ti permette una paga sicura e meno stress psicologico», «c’è però un neo, i contratti stipulati con Just Eat sono per la maggior parte di 10 ore,  in pochi sono assunti con le 20 o le 30 ore settimanali, questo significa che a fine mese non arrivi ai 200 euro »,  «è un lavoretto per pagarsi gli extra nulla più».

Un ragazzo, sempre collocabile in quella fascia di età, invece appare più contrariato e mi chiede:

«perché oggi si parla di lavoretti e non di lavoro? Un lavoro è un lavoro, io invece sono costretto a fare 2 part time perché con 10 ore settimanali cosa arrivo a pagarmi?» e continua «perché Just Eat invece di fare 4.000 assunzioni non ne ha fatte la metà pagando di più? Sembra che questo si faccia per dare un contentino e far vedere che ci sono assunzioni. Quando lessi che rientravamo nel contratto della logistica rimasi contento, pensavo saremo stati trattati come i corrieri, poi mi sono reso conto invece che la situazione non era cambiata più di tanto, c’è infatti chi preferisce continuare a consegnare per Deliveroo perché, gestendosi autonomamente, arriva a guadagnare di più».

Parlando con i rider, sebbene ci sia chi appare abbastanza soddisfatto – soprattutto nella prospettiva di fare un lavoretto occasionale, in generale rimane impressa l’idea di un “lavoro” molto instabile (se non pedali tu pedala un altro), psicologicamente frustrante e in cui la componente umana viene costantemente sottoposta alle decisioni dell’algoritmo, in coro comunque tutti i ragazzi e le ragazze intervistate ribadiscono, chi con un sorriso rassegnato chi con più tenacia: «per i rider c’è tanto da fare, e la strada è ancora lunga».