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Giornata mondiale dell’oceano: sos Mediterraneo per salvare il pianeta

di Roberta Caiano

Inquinamento, surriscaldamento globale e ricambio degli ecosistemi marini sono tra gli argomenti di spicco affrontati nella giornata mondiale dell’Oceano. Istituito nel 1992 a Rio de Janeiro in occasione del Vertice sull’ambiente e riconosciuto in maniera ufficiale dall’Organizzazione delle Nazioni Unite (Onu) dal 2008, il World Ocean Day ha lo scopo di sensibilizzare la salvaguardia del polmone blu del nostro pianeta. Quest’anno il tema che fa da cornice a questa ricorrenza è basato su ‘vita e sostentamento’, con l’intento di sottolineare il ruolo dei mari nella produzione di ossigeno, cibo e nell’assorbimento dell’anidride carbonica che è ben cinquanta volte maggiore rispetto alle foreste tropicali. Infatti, tenendo presenti i numeri dalla rivoluzione industriale fino ai nostri giorni gli oceani hanno immagazzinato circa 525 miliardi di tonnellate di anidride carbonica dall’atmosfera. Se consideriamo che la Terra è ricoperta per il 70 % da oceani, preservare l’ambiente marino significa innanzitutto lottare per la nostra stessa sopravvivenza. Per questo, centinaia di organizzazioni ambientali di tutto il mondo si riuniscono per celebrare questo evento al fine di creare una grande rete globale di mobilitazione. Portavoce della manifestazione è il Consiglio consultivo giovanile della giornata mondiale dell’Oceano, composto da 25 membri dai 16 ai 23 anni provenienti da venti diversi Paesi del mondo, che per il secondo anno si svolge in maniera virtuale a causa della pandemia Covid. 

Nel corso degli anni, l’esigenza di dare voce e peso alla biodiversità marina, all’inquinamento derivato da plastiche e microplastiche e al cambiamento climatico si è fatta sempre più urgente richiamando in maniera massiccia l’attenzione non soltanto di associazioni, organizzazioni e/o istituzioni ma anche di tutto il settore mass-mediatico. I mari, infatti, stanno diventando man mano sempre più caldi, acidi e privi di ossigeno mettendo a rischio la nostra stessa esistenza e lanciare un messaggio di sensibilizzazione e intervento può essere incisivo oltre che necessario. Per quanto i disastri ambientali sembrino riguardare per lo più gli oceani e le coste asiatiche, come ‘l’isola dei rifiuti’ in Indonesia, in realtà tutti i mari del pianeta stanno risentendo di questi stravolgimenti con effetti più devastanti di quanto ci si potrebbe aspettare. Tra tutti, c’è il nostro mar Mediterraneo. Come si può leggere nel rapporto diffuso in occasione di questa giornata dall’Ispra, Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca ambientale, sulle spiagge italiane si trovano in media 400 rifiuti ogni 100 metri e sui fondali dell’Adriatico si arriva a 300 rifiuti per chilometro quadrato (ne abbiamo già parlato in un precedente articolo). Per l’80% si tratta di rifiuti di plastica come buste della spesa, contenitori monouso e reti da pesca. Nel mar Tirreno più del 50% di alcuni pesci ha ingerito plastica, mentre il 75% degli stock ittici è sovrasfruttato. Inoltre, il surriscaldamento globale sta influendo sulle specie che popolano il Mediterraneo, individuando un numero di specie aliene sempre più elevato. In questo senso, secondo i dati del nuovo report del Wwf,  The Climate Change Effect in the Mediterranean: Stories from an overheating sea, sono quasi mille le specie aliene che si sono già adattate a vivere nelle calde acque del Mar Mediterraneo e stanno sostituendo le specie endemiche. Ciò dimostra come il cambiamento climatico abbia “già trasformato, a volte in modo irreversibile, alcuni dei più importanti ecosistemi marini del Mediterraneo, con conseguenze per settori economici come la pesca e il turismo, e cambiamenti nel nostro consumo di pesce”. Con l’aumento delle temperature del 20% più veloce della media globale e l’innalzamento del livello del mare che dovrebbe superare il metro entro il 2100, “il Mediterraneo sta diventando il mare con il riscaldamento più rapido e il più salato del nostro pianeta”. Il nuovo rapporto mostra così i principali impatti che il cambiamento climatico ha su tutta la biodiversità marina e l’entità dei mutamenti risultanti nelle principali specie ittiche e habitat con conseguenze sulla sussistenza delle comunità locali. Infatti, l’organizzazione internazionale di protezione ambientale sottolinea come la “pericolosa relazione tra l’impatto climatico e le attuali pressioni umane sulla vita marina, come la pesca eccessiva, l’inquinamento, lo sviluppo antropico costiero e la navigazione hanno già drasticamente ridotto la resilienza ecologica del nostro mare, ovvero, la sua capacità di rigenerarsi”. La perdita di queste specie “avrebbe un impatto drammatico sull’intero ecosistema marino poiché forniscono habitat vitali per molte specie, producono benefici nella lotta al cambiamento climatico poiché alcune di esse funzionano come serbatoi naturali di carbonio e anche per la nostra economia poiché spesso attirano subacquei e turisti”. In quest’ottica, le aree marine protette possono fare la differenza riducendo il più possibile lo stress sulle restanti popolazioni.

Inoltre, in questo Ocean Day 2021 viene posto l’accento sull’allarme che da anni scienziati e ambientalisti cercano di lanciare sull’impossibilità del mare di poter sostenere ancora il peso dell’attività umana e della pesca intensiva che rischia di svuotarlo minacciando l’abitabilità per milioni di specie animali e vegetali e ne preclude il ruolo di contrasto ai cambiamenti climatici. La tutela del sistema naturale marino è innanzitutto un alleato per la vita dell’uomo, per questo la saturazione del mare diventa un problema a cui cercare di porre rimedio al più presto, con interventi necessari e tempestivi. In merito si è espressa anche la Coldiretti, che in occasione di questa giornata ha reso nota un’analisi sulle conseguenze del cambiamento climatico su pesca, turismo e sul consumo di pesce. Infatti, l’associazione lancia un sos per il pesce italiano in quanto l’attività negli ultimi 35 anni ha perso quasi il 40% delle imbarcazioni con un impatto devastante su economia e occupazione di un settore cardine del Made in Italy, ora ulteriormente aggravato dall’emergenza Covid. “Sono apparse nuove specie non comuni nel Mediterraneo e stanno diventando rare specie fino a ieri comuni nei nostri mari. Pesci, come ad esempio le alacce o la lampuga, sino a qualche anno fa scarsamente presenti a certe latitudini, sono oggi diffusamente presenti nelle acque del centro-nord Adriatico e del Tirreno, mentre sono andate in sofferenza specie tradizionali come le sardine o le alici, messe in crisi dall’innalzamento delle temperature”, rileva la Coldiretti. Questo comporta un’importazione selvaggia di prodotto straniero, che unita alla burocrazia ingombrante, ha ridotto il numero dei pescherecci italiani ad appena dodici mila unità “mettendo a rischio il futuro del comparto ma anche la salute dei cittadini poiché con la riduzione delle attività di pesca viene meno anche la possibilità di portare in tavola pesce italiano, favorendo gli arrivi dall’estero di prodotti ittici che non hanno le stesse garanzie di sicurezza di quelle tricolori”.