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30 Aprile 2025Rocco Chinnici, la sua eredità a cent’anni dalla sua nascita

«Questo è un messaggio onesto, chiaro e cosciente che posso lanciare alla mafia: noi giudici siciliani non ci arrenderemo mai. Non avremo mai rassegnazione o paura. Per ognuno che cade ce ne sono altri dieci disposti a proseguire con maggiore impegno, coraggio, determinazione».
Queste parole Rocco Chinnici, di cui nel 2025 il 19 gennaio sono stati celebrati i cento anni dalla nascita, le pronunciò in una delle sue ultime interviste, nello specifico in quella rilasciata a Lillo Venezia pubblicata nella rivista ”I Siciliani” di Pippo Fava nel marzo del 1983. Quattro mesi dopo, esattamente alle otto del mattino del 29 luglio, morirà in un attentato a opera di Cosa Nostra che imbottì di tritolo una Fiat 126 parcheggiata davanti alla sua abitazione in via Pipitone Federico 59, a Palermo. Vent’anni dopo la strage di Ciaculli avvenuta nel contesto della prima guerra di mafia, e nove anni prima rispetto alla strage di Capaci e di via d’Amelio in cui persero la vita Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, la mafia fa un uso della violenza spettacolarizzato per spazzare via l’ideatore del pool antimafia, colui senza il quale non ci sarebbe stato il Maxiprocesso di Palermo, che si svolse dal 1986 al 1992, e senza il quale non sarebbe stato possibile prendere consapevolezza dell’evoluzione sempre più rapida della mafia.
Rocco Chinnici, come affermato anche da Nino Di Matteo Sostituto Procuratore alla Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo davanti al compianto cronista Andrea Purgatori su una speciale andato in onda nel maggio del 2023 su La7, è stato fautore di una autentica rivoluzione. Perché questo? Perché Chinnici ha capito prima di tutti gli altri che non era possibile svolgere attività istruttoria in materia di mafia singolarmente ma era fondamentale unire le forze, creare una sinergia tra i magistrati impegnati nella lotta al fenomeno mafioso. Capì che solo tramite la condivisione delle informazioni raccolte dai singoli magistrati sarebbe stato possibile colpire davvero la mafia e renderla vulnerabile. Fu con Chinnici che la lotta alla mafia, a partire dal 1979 anno della morte di Cesare Terranova che avrebbe dovuto prendere il suo posto alla guida dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo in cui Chinnici lavorava dal 1966, fece il salto di qualità: sino ad allora, le inchieste erano disperse in troppi uffici e troppe mani. Chinnici crea un gruppo di lavoro motivato, tenace e dotato di una preparazione solidissima, si circonda di figure del calibro di Falcone, Borsellino, Giuseppe Di Lello, Leonardo Guarnotta, collabora strettamente con professionisti quali il capo della squadra mobile di Palermo Boris Giuliano, ucciso anche lui nel 1979 pochi mesi prima di Cesare Terranova, il vice dirigente della Squadra Mobile di Palermo Ninni Cassarà, figura fondamentale a cui si deve il ”Rapporto dei 162” in cui, grazie alle prime confessioni di mafiosi come Salvatore Contorno nel 1982, verranno delineati gli schieramenti della seconda guerra di mafia e sarà possibile capire appieno la pericolosità dei ”viddani” ovvero i corleonesi di Totò Riina e Luciano Liggio, sino a quel momento da alcuni ancora considerati come semplici malavitosi legati alla terra e alla campagna. Il rapporto dei 162 ha un’importanza unica, Chinnici lo comprese immediatamente, e come ribadito da tanti esperti del settore negli anni a venire rappresenta la base su cui si fonda lo storico maxiprocesso di quattro anni dopo. Una tappa, quindi, fondamentale del cammino dell’antimafia che non può essere tralasciata.
Le intuizioni di Chinnici che iniziò a occuparsi di mafia a partire dal 1970, seguendo le indagini sulla strage di viale Lazio a Palermo del 10 dicembre 1969 in cui i corleonesi fecero il loro primo vero exploit – richiamandosi alla strage di San Valentino di Al Capone – uccidendo il boss Michele Cavataio – , sono state tante e di grande rilevanza: su tutte, spicca l’essersi accorto, insieme a personalità del calibro del Procuratore della Repubblica di Palermo Gaetano Costa e del segretario regionale del PCI Pio La Torre che, per vederci chiaro sulla mafia, era necessario indagare nei loro assegni e nei loro conti correnti, seguendo la strategia del ”follow the money”, come venne ribattezzata in seguito ovvero l’analisi certosina degli spostamenti di denaro di coloro che appartenevano a Cosa Nostra, in quanto la mafia era diventata a tutti gli effetti una forza imprenditrice notevole. Proprio per questo Chinnici chiamò a lavorare con sé Falcone che veniva dalla sezione fallimentare del tribunale di Palermo in cui aveva fatto esperienze importanti nel campo economico, societario e finanziario. Fu un vero e proprio terremoto: Chinnici e Falcone mostrano il vero volto del costruttore edile Rosario Spatola, da tutti all’epoca considerato un benefattore, procedendo senza alcun timore nel loro cammino, mandando su tutte le furie Giovanni Pizzillo, l’allora presidente della Corte d’Appello di Palermo che li accusò di mandare in rovina l’economia palermitana. Sembra un paradosso, eppure il clima in cui si lavorava era quello. Chinnici sapeva di potersi fidare di pochissime persone, a dimostrazione di ciò spicca il fatto che con Gaetano Costa, il primo a spiccare un mandato di cattura su Spatola venendo lasciato solo dai suoi colleghi fatto questo che porterà alla sua uccisione nel 1980, erano costretti a incontrarsi nell’ascensore del Palazzo di Giustizia di Palermo per non farsi sentire da orecchie indiscrete.
Un’altra battaglia di grande rilevanza portata avanti da Chinnici fu quella della difesa della legge La Torre, di cui il primo firmatario fu Pio La Torre ucciso dalla mafia nel 1982, che introduce il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso insieme al sequestro e alla confisca dei beni dei mafiosi. Non solo battaglie dal punto di vista prettamente giuridico: Chinnici fu il primo magistrato a uscire dalle aule giudiziarie e a tenere incontri con gli studenti delle scuole, per lui il rapporto con i giovani era fondamentale, sapeva bene che la mafia faceva grossi guadagni grazie al traffico di sostanze stupefacenti e in particolare di eroina e proprio per questo cercava di mettere in guardia i giovani in modo tale che non cadessero in un tranello dal quale sarebbe stato difficile uscire fuori. Il suo obiettivo principale, come rimarcato anche dalla figlia Caterina nel maggio del 2020 nel corso dello speciale su Rai Play ”Diario Civile: Palermo come Beirut”, era portare a compimento quel cambiamento nelle coscienze grazie al quale non cedere alle fasulle e sporche promesse mafiose. Chinnici non aveva paura, il timore lo aveva per i suoi cari, per la moglie Agata Passalacqua, per i tre figli Caterina, Elvira e Giovanni e per gli uomini della sua scorta. Due di essi, Mario Trapassi e Salvatore Bartolotta, persero la vita con lui in quell’attentato di una brutalità inaudita del 29 luglio del 1983 in cui morì anche il portiere dello stabile Stefano Li Sacchi. Quotidiani come ”l’Unità”, ”L’Ora” e ”La Repubblica” scriveranno: ”Palermo come Beirut”, facendo riferimento alla cruenta guerra civile in Libano di quel periodo.
La mafia aveva alzato l’asticella della propria strategia violenta perché sapeva che Chinnici rappresentava davvero un pericolo per la criminalità organizzata. Era un uomo che, come disse Enrico Berlinguer per Pio La Torre il 2 maggio del 1982 durante i funerali in una gremita piazza Politeama a Palermo, non si limitava ai discorsi ma faceva sul serio. Proprio così, Chinnici faceva sul serio come rimarcato anche da Raffaele Bertoni, all’epoca giudice e presidente del comitato antimafia del CSM, che intervistato da Bruno Miserendino su ”L’Unità” disse con franchezza: «Sentiva che al suo impegno e a quello di molti colleghi, alla sua dedizione, non corrispondeva una pari fermezza, una pari mobilitazione altrettanto forte da parte delle istituzioni dello Stato. Di questo si rammaricava profondamente». Ma nonostante le amarezze e delusioni, ha proseguito imperterrito nel suo lavoro, proprio come ha sempre fatto sin dagli esordi a Partanna in cui ricoprì all’inizio della sua carriera per dodici anni il ruolo di Pretore conquistando la fiducia e la stima dei cittadini. Giuseppina Zacco, vedova di Pio La Torre, disse in un’intervista su ”L’Ora” del 25 aprile del 1992, realizzata dalla cronista Sandra Rizzo, che Chinnici aveva capito. Stava indagando sui delitti di La Torre, di Gaetano Costa, del presidente della Regione Piersanti Mattarella, ucciso il giorno dell’epifania del 1980, era pronto a spiccare i mandati di arresto per i temibili esattori di Salemi i cugini Ignazio e Nino Salvo, pur sapendo che il prossimo a morire dopo l’uccisione di Carlo Alberto Dalla Chiesa il 3 settembre del 1982 a Palermo molto probabilmente sarebbe stato lui. Sapeva i rischi che correva ma non ha temuto, non ha mosso un passo indietro, perché sapeva che la battaglia che portava avanti era più importante di qualsiasi cosa. Nonostante le minacce, nonostante gli sgambetti, nonostante all’epoca in tanti credessero che i mafiosi si ammazzassero semplicemente tra di loro, nonostante fosse diffusa l’erronea convinzione secondo cui la mafia era un problema che riguardasse solamente la Sicilia e i siciliani, Chinnici ha continuato a lavorare alacremente, con l’aiuto di pochi ma coraggiosi uomini. Uomini che sapevano quello a cui andavano incontro, ma che sono rimasti fermi nelle loro posizioni senza mai mostrarsi inclini ai compromessi. Uomini che, oggi più che mai, è importante ricordare a prescindere dalle ricorrenze e dalle celebrazioni per coltivare senso morale e spirito critico, grazie ai quali non piegarsi davanti alla violenza e grazie a cui battersi contro ogni forma di sopruso. Uomini che, come sottolineato dallo storico Salvatore Lupo, cercavano di fare luce e di vederci chiaro in una società dove la permeabilità tra la sfera della politica, della finanza e della mafia era decisamente cospicua, seppur si preferisse fare finta di niente girando la faccia dall’altra parte. Uomini come Chinnici, invece, la faccia dall’altra parte non l’hanno mai girata. Tra le sue parole più significative spiccano quelle pronunciate nell’autunno del 1981 in cui, durante un’intervista per la rivista ”Segno”, disse categoricamente: «la gente non vuole la mafia. I giovani non vogliono la mafia. Tutti i giovani, quelli politicizzati e quelli di nessun credo politico». A distanza di cento anni dalla sua nascita, sono proprio i giovani a dover fare tesoro di quanto realizzato da Chinnici perché sono loro, come sottolineato da Paolo Borsellino – nato lo stesso giorno di Chinnici sempre a Palermo, ma nel 1940 – nell’introduzione all’opera ”L’illegalità protetta” contenente gli interventi più significativi dell’ideatore del pool antimafia, gli eredi spirituali di Rocco Chinnici e i possessori di un lascito duraturo che non può assolutamente essere sprecato.