Vita universitaria fuori dai record: storie di chi deve farcela

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Vita universitaria fuori dai record: storie di chi deve farcela

Abbiamo realizzato un’intervista ai sommersi del mondo universitario. Abbiamo incontrato Gabriela, Dario e Francesco.

In un periodo storico in cui la narrazione dei record e dell‘eccellenza domina le cronache, una grande porzione del mondo universitario fatica a sentirsi rappresentata. Sono gli studenti fuori sede, in perenne lotta contro il tempo e la burocrazia per assicurarsi un alloggio, quelli fuori corso, dietro ai quali ci sono realtà che molto spesso vengono banalizzate e sintetizzate come non voglia di fare, e infine coloro che all‘università rinunciano, lasciando a volte dietro di sé una scia di ingiuste aspettative familiari deluse, per trovare la propria strada altrove.

Tutto ciò accade mentre in Italia il livello di istruzione della popolazione rimane al di sotto delle medie registrate nell’Unione Europea. La quota di persone in età compresa tra i 25 e i 64 anni con un titolo di studio terziario, nel 2022, si attestava infatti intorno al 63%, contro una media europea del 79,5%. Considerando invece solo la fascia dei giovani tra 30 e 34 anni, la percentuale scende al 27% a fronte di una media europea del 42%. Da segnalare anche una considerevole differenza tra Nord ,Centro e Sud: i giovani laureati in Lombardia sono infatti il 31,3%, nel Lazio il 35,9% mentre in Sicilia il 17,9%.

Gabriela, Dario e Francesco hanno tra i 24 e i 27 anni e sono o sono stati studenti di due grandi università del Nord Italia: il Politecnico di Milano e l’Università degli Studi di Bergamo. Sono fuori dai record, ma le loro voci sono forti e decise. Li ho intervistati a proposito della situazione delle università pubbliche italiane, delle mancanze di queste ultime e delle aspettative della cosiddetta Generazione X verso un sistema dove sembrano dominare intoppi burocratici e una disperata corsa al risultato, che privano l’istruzione del suo senso primario.

Perché vi siete iscritti all’università?

G: Vedevo nell’università un modo più facile per accedere al mondo del lavoro, anche perché avevo finito il liceo scientifico e non avevo mai fatto nulla di pratico, come un tirocinio, come ha l’opportunità di fare chi ad esempio si iscrive ad un tecnico. Ho frequentato Ingegneria Biomedica e ora ho intrapreso la magistrale in Ingegneria delle Telecomunicazioni.

D: A scuola e in famiglia mi è sempre stata data l’idea che fosse l’unico percorso possibile, perché i miei genitori non si sono laureati a causa di mancanze economiche. Anche io volevo frequentare l’università, perché mi era stata raccontata come una realtà pratica e a contatto con il mondo del lavoro, così ingegneria mi è sembrata la scelta migliore.

F: Volevo approfondire le conoscenze di base acquisite al liceo (delle scienze umane) e specializzarmi nell’ambito della psicologia.

Come è stata la scelta della facoltà?

D: Inizialmente volevo fare legge, ma in Italia ci sono già troppi avvocati, questo mi ha portato a scegliere ingegneria dell‘automazione, una facoltà con molte più applicazioni nel mondo del lavoro.

G: Sono sempre stata sicura di voler essere un ingegnera, il più è stato scegliere il tipo di ingegneria.

F: Limitante, in un certo senso. Ho dovuto passare un test e così dovrà accadere per la magistrale, poiché in quella dove vorrei entrare ci sono solo cento posti. Le alternative saranno lavorare o scegliere di trasferirmi.

Come si sono scontrate le vostre aspettative, con la realtà della vita universitaria?

G: Sono una studentessa fuori sede, vengo da una piccola città dell’Umbria, e ho scelto Milano proprio per il suo essere agli antipodi rispetto al mio luogo di nascita. La città in sé non mi ha deluso, l‘università invece sì, da quando ho dato il primo esame. Ho avuto modo di vedere il divario di istruzione presente tra il Nord e il Centro-Sud e la mancanza di supporto agli studenti. Ai professori non importa nulla della differenza di preparazione tra uno studente proveniente dal Nord e un altro del centro Sud. È un problema che non viene riconosciuto, perché comporterebbe una riforma radicale dell‘istruzione.

D: Da persona che ha lasciato l‘università e che ora è nel mondo del lavoro, posso dire che mi aspettavo che l‘università fosse molto più pratica, invece per me non è stata altro che un liceo in grande, che ha fornito conoscenze molto teoriche e poco applicabili nel lavoro. Nelle università STEM, è del tutto insensato non avere modo di vedere applicato ciò che si studia. Credo che sarebbe necessario implementare tirocini e laboratori. Si ha la sensazione di non sapere in quale direzione si vada e perché, se non per ottenere un voto alto agli esami.

G: Confermo. E se, come nel mio caso, a questo si aggiunge lo stress di dover obbligatoriamente raggiungere un numero di crediti all‘anno per mantenere la borsa di studio, è chiaro che non si abbia quasi nemmeno tempo di pensare allo scopo di ciò che si fa. L‘estate scorsa ho dovuto dare 30 CFU entro il 10 agosto, per mantenere la borsa di studio.

D: Anche i professori hanno deluso le mie aspettative. Guadagnano molto di più dei docenti delle scuole superiori, eppure si impegnano molto meno. La maggior parte di loro utilizza risorse molto vecchie e si avvale spessissimo di assistenti.

F: All’università, gli studenti non hanno figure di riferimento e gli ambienti sono spesso disorganizzati. Questo genera ansia, oltre che pressione e conseguente disorganizzazione negli studenti. Le situazioni di eccellenza ci sono, ma sono rare. Inoltre, le normative cambiano spesso; siamo alla mercé dei Governi. Mi trovo attualmente a dover frequentare una summer school per integrare i crediti di tirocinio mancanti nel mio corso di laurea che, nel frattempo, è diventato abilitante a svolgere la professione di psicologo.

Quanto contribuisce la burocrazia, nel clima di tensione che riscontrate nelle vostre università?

Tutti: Moltissimo.

F:Il personale delle segreterie e degli uffici spesso non sa fornire risposte ai problemi degli studenti. L’unica risorsa a cui affidarsi diventa il sito, anch’esso spesso disorganizzato e poco chiaro.

G: La segreteria del Politecnico è piuttosto ben organizzata, ma a livello burocratico si è completamente lasciati a se stessi. Il primo anno avevo presentato domanda per la residenza e avevo tutti i requisiti, ma il 10 di settembre, all’uscita del bando (le lezioni sarebbero iniziate il 15) ho scoperto, guardando il sito di essere risultata idonea alla borsa di studio, ma non beneficiaria. Ho chiamato la segreteria per chiedere spiegazioni, ma dopo svariati tentativi mi è stato detto che l’Ufficio Residenze era chiuso (alle tre del pomeriggio). L’impiegata con cui sono riuscita a parlare mi ha in seguito liquidata dicendomi che “non era un loro problema”.

D: La burocrazia crea molta tensione. Anche i professori vengono cambiati in corso d’opera. I rappresentanti degli studenti non hanno alcun potere, in università grandi come il Politecnico, poiché abbassano la testa davanti ai problemi per non sfigurare davanti ai docenti. Si può dire che le università non siano altro che lo specchio dei governi. I nostri governi degli ultimi anni non sono stati stabili, e questo si è rispecchiato nell’intero sistema di istruzione. Come si può chiedere al Governo di essere presente in un ambiente, se cambia in continuazione?

Gabriela, la tua mi sembra una storia a lieto fine, dal punto di vista della riuscita del tuo percorso. 

Perché, secondo te, i giornali parlano poco di persone come te?

A lieto fine? Sì, sto concludendo un percorso, ma io non sono l’eccellenza. Non sono materiale per un articolo clickbait. Non ho lodi, non ho ottimi voti, che studiando ingegneria sono tra l’altro molto difficili da raggiungere. Una ragazza che si trasferisce, si impegna e raggiunge un risultato non fa scalpore. Si pensa solamente “Ok, lo ha fatto, ma non si è differenziata”. Si guarda molto alla lode, ma non al percorso.

F: Non si pensa mai che l’università non sono i voti, ma la tua crescita personale.

Non avete aspettative troppo alte? Chi ha frequentato l’università prima di voi partiva sapendo che non sarebbe stato seguito a livello personale. Cosa è cambiato?

G: No, vorremmo solo coerenza e concretezza. Ad esempio, gli open day non sono altro che marketing e immagine. Si allestisce un mese prima per vendere l’università al meglio durante questi eventi, ma nel frattempo continua a mancare la carta igienica nei bagni e continuano a non funzionare i distributori dell’acqua. E poi, che senso ha pagare tasse così alte in un’università statale? Dove vanno a finire le tasse che paghiamo, quando poi talvolta ci si prepara un esame guardando video su Youtube per colmare lacune lasciate dalle lezioni?

D: Concordo. Ho capito che nel mondo del lavoro, a nessuno importa dei voti e della fatica fatta per ottenerli, né tantomeno dei problemi psicologici che uno studente potrebbe avere avuto durante lo svolgimento del percorso.

Ci sono dei tabù, a riguardo?

D: Certo che sì. In Italia non vengono mai considerati, i problemi psicologici. L’università è un’azienda, ormai, così come lo Stato. Si è considerati utili solo se si produce profitto.

Dario, come è cambiata la tua vita dopo aver lasciato l’università?

D: in meglio. Niente pressioni, niente esami, solo vita reale non valutata in base a numeri.

Perché sui giornali si parla di fallimento, quando qualcuno lascia l’università?

D: Perché non siamo altro che coloro i quali danno soldi alle università pubbliche, e chi rinuncia agli studi fa perdere soldi all’intero sistema. Tuttavia, la pressione è necessaria, per permettere di fare bene qualcosa , ma parlare di fallimento equivale a inculcare l’idea che o si è il meglio, o non si è nulla.

Francesco, ti sei mai sentito considerato inferiore in quanto studente fuoricorso?

Sono perfino i compagni, a considerarti inferiore in base ai tuoi risultati o agli esami sostenuti. Anche fuori dall’università è successo: in famiglia, il bravo studente è il figlio che fa il suo dovere, il cattivo figlio è colui che non ringrazia i genitori per ciò che gli hanno dato. È una realtà molto comune, in Italia, e crea situazioni in cui si arriva a frequentare l’università come tramite di qualcun altro, perché qualcuno che non sei tu pretende di decidere come tu debba essere.

D: Anche io sono stato definito un fallito dalla mia famiglia perché ho lasciato l’università, ma la mia vita è migliorata. Nonostante tutto, la mia famiglia non ha ancora cambiato idea e dubito che la cambierà.

Francesco, perché sei fuoricorso?

Perché ho avuto una situazione familiare difficoltosa. Non si parla di gente come me perché non fa notizia. Alla gente non frega nulla dei problemi psicologici degli altri. Qualsiasi cosa non sia il massimo, è irrilevante.

Gabriela, ti sei mai sentita inferiore o superiore a qualcuno per via dei tuoi risultati?

Sì, inferiore per il divario di preparazione tra Nord e Sud, benché sia sempre riuscita a passare gli esami, e per via della competizione tra colleghi.

F: A me non è mai capitato. Non ho mai sentito un trenta e lode come un onore o un motivo di particolare superiorità morale o di competizione, ma so che accade a molti.

Per finire, cosa ti ha dato e cosa ti ha tolto l’università?

F: Mi ha tolto speranze e mi ha dato una forma mentis più forte.

D: Inizialmente mi ha tolto la speranza, ma poi mi ha dato la capacità di capire che non ero fatto per quel tipo di percorso.

G: Mi ha tolto tante energie e mi ha dato uno sguardo sul mondo reale.