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Africa, terra di business e di armi

La nostra ultima inchiesta sull’Africa, il nuovo scacchiere tra Cina e Russia. Diamanti, cobalto e sangue. Un’analisi geopolitica, a tratti sorprendente, dall’osservatorio africano.

Il futuro del mondo non potrà prescindere dall’Africa. E l’Africa non aspetterà a lungo.

È questo lo spirito che ha animato il forum del G20 di inizio Settembre 2023 tenutosi a Nuova Delhi, in cui è stato stabilito che d’ora in poi l’Unione Africana siederà al tavolo delle discussioni come membro permanente, al pari delle venti economie più importanti del pianeta. 

Di fatto, con l’aggiunta dell’organizzazione che comprende i cinquantaquattro Stati del continente africano, il G20 si trasforma in G21. Nel frattempo, la diplomazia italiana ha già fatto sapere di voler estendere questo stesso status al prossimo G7, che si terrà proprio in Italia, fra gli ulivi pugliesi di Borgo Egnazia, in attesa dei contenuti del Piano Mattei, di cui nel frattempo il 10 Gennaio 2024 è stata approvata dal Parlamento la cornice legislativa, che probabilmente nella successiva Conferenza Italia-Africa verrà riempita con una strategia più chiara.

Un segnale di forte immedesimazione nelle dinamiche del cosiddetto Global South, in un’ottica di contenimento delle moine attrattive esercitate dal gruppo Brics (non a caso Cina e Russia non erano presenti a Nuova Delhi con i loro principali vertici istituzionali.)

Le ragioni sono anche squisitamente economiche. La recente istituzione della AfCfta, ovvero l’area di libero scambio fra i Paesi del continente, promette di fungere da volano per lo sviluppo dei commerci e delle opportunità imprenditoriali.  

Sarebbe ingenuo, tuttavia, pensare all’Africa come un blocco unico, come spesso accade purtroppo. Alla vastità del territorio, per convenzione rimpicciolito sulle cartine geografiche che siamo abituati a vedere, corrispondono una varietà enorme di etnie, religioni, paesaggi, condizioni sociali. 

L’appiattimento della narrazione occidentale sulla dimensione unica della miseria, della fame, delle guerre, delle migrazioni ci porta ormai a considerare inverosimile ogni buona notizia proveniente da quella parte del mondo, perché contraddice gli stereotipi con cui siamo cresciuti e cui ci siamo assuefatti.

Per gran parte dell’opinione pubblica occidentale, l’Africa ha senso solo se può generare compassione e complessi di colpa per gli sciagurati decenni della stagione colonialista, durante cui i nostri antenati ne sfruttarono risorse naturali e umane, disegnarono i confini fra gli Stati a proprio piacimento. 

Una posizione molto comoda, su cui si sono adagiate anche le classi dirigenti, che troppo prese ad assecondare l’opera di autoflagellazione, si sono perse di vista quanto stava accadendo al di là del Mediterraneo. 

I leader africani, abili a sfruttare i nostri rimorsi e le rivalità fra le varie potenze globali, hanno aperto le porte a conquistatori nuovi nelle facce, ma antichi nei loro propositi di dominio imperialista, pronti a riempire i vuoti lasciati dall’Occidente, per dare il via ad una nuova spartizione dell’Africa.

Cina, Russia, Turchia, Paesi del Golfo, ma anche Iran, India, Nord Corea sono i player che vogliono fare dell’Africa la sede della contro-globalizzazione e il laboratorio del sentimento anti-occidentale. 

Avevamo sfiorato questo tema già ai tempi della prima risoluzione dell’Onu sull’invasione di Putin nel territorio ucraino, con la promessa di un futuro approfondimento. https://www.laredazione.net/la-russia-e-compagni-il-nuovo-scacchiere-mondiale/  

Questo anno e mezzo trascorso da quell’articolo è servito a consolidare le dinamiche che si stavano prospettando davanti a noi.

Le autorità locali africane, oltre alle risorse economiche, pesano la forza delle armidegli attori in campo, praticando una fredda realpolitik che magistralmente sanno accostare a invocazioni umanitarie. 

La Russia è il primo esportatore di armi in terra africana, garantendo il 40% delle forniture totali sul continente, senza considerare il traffico illegale di cui non si conoscono i numeri.

La vocazione militarista del Cremlino in Africa si è diffusa, poi nell’ultimo decennio, attraverso la presenza securitaria della ormai arcinota compagnia Wagner, oggi orfana del suo leader Prigozhin, ma ancora centrale nel suo ruolo di esportazione degli interessi russi nel continente. Spesso invocati direttamente delle autorità locali per garantire la sicurezza e l’ordine nei propri territori, i mercenari della Wagner hanno in mano il traffico di armi, dei flussi migratori, delle estrazioni minerarie.

All’ombra dei mercenari Wagner, tuttavia, c’è un vasto mondo di altre compagnie militari private che operano in Africa. 

Al soldo tanto dei Governi locali quanto di gruppi ribelli, prestano i propri servizi per contrastare l’avanzata jihadista, talvolta invece sono impegnate in attività di sicurezza per politici, ambasciate, organizzazioni private o siti industriali.

Queste milizie private si fanno pagare tanto in denaro quanto in concessioni minerarie e hanno le loro sedi un po’ in tutti i Paesi del mondo.

Le compagnie statunitensi principali sono la Bancroft e la Amentum, canadese è invece la Gara World, turca la Sadat Defence, mentre dall’Europa provengono la francese Secopex, le tedesche Asgaard e Xeless, le spagnole Mitra e Prosegur. Ciascuna di esse agisce in territori e con scopi molto circoscritti, lasciando sempre l’interrogativo, come per il caso della Wagner, se stiano operando anche per conto dei propri Stati o solo per gli interessi dei propri committenti. 

La Russia, erede dell’Unione Sovietica che a metà del Novecento supportò i vari movimenti di liberazione socialista sorti in numerosi Stati Africani, ai giorni nostri, spinta meno dalle ideologia e più dalle risorse naturali e da opportunità di mercato, è proiettata prepotentemente nel continente nero. 

Non meno intensa è l’attività della Turchia, che può vantare un legame antico soprattutto con l’Africa Orientale, un tempo parte dell’Impero Ottomano ed oggi si racconta come la paladina della Fratellanza Musulmana. Con l’avvento dell’era di Erdogan la politica estera turca si è affidata al concetto di profondità strategica, implementato non solo con iniziative economiche e diplomatiche, ma anche attraverso il soft-power di contenuti culturali, come soap-opere e musica e l’azione di agenzie educative e caritatevoli. 

La Turchia, in un solo anno, fra il 2020 e il 2021 ha quintuplicato l’export di armi ed equipaggiamenti militare verso il continente africano e il trend sta continuando, attestandosi su standard ormai altissimi.

A lavorare in Africa con l’obbiettivo di costruirsi uno status di potenza internazionale, ci sono anche le Monarchie del Golfo. Emiratini, sauditi e qatorioti in testa, agiscono negli affari e nei conflitti del continente, tuttavia non in un’ottica di cooperazione fra loro, quanto piuttosto in un quadro di rivalità, proiettandole direttamente lì.

Soprattutto l’Africa Orientale fornisce agli sceicchi centinaia di migliaia di manovali e lavoratori a basso costo, spesso non qualificati.

Tuttavia, la potenza in grado di stringere delle partnership con un po’ tutti i Paesi del continente è la Cina, che ostentando una falsa parità con i loro leader e i loro popoli, è riuscita in una penetrazione economica e istituzionale senza precedenti, alimentando un vero e proprio impero commerciale che ruota intorno alla Belt and Road Initiative, da noi meglio nota con l’appellativo di Nuova Via della Seta. 

Se il summit G20 in cui sono state spalancate le porte all’Unione Africana si è tenuto in India, non è un caso. Dopo aver raggiunto il primato di nazione di popolosa al mondo, aver completato con successo un allunaggio e messo a punto il corridoio commerciale rinominato Via del Cotone (palese alternativa a quello di Pechino) l’India guarda all’Africa per affermare il proprio status di potenza globale. L’India va sulla Luna…e già si guarda a Marte – La Redazione

Puntando su un approccio di cooperazione Sud-Sud per instaurare rapporti reciprocamente vantaggiosi, l’India si è guadagnata la fiducia di almeno quarantadue Governi africani, in cui è già attiva in oltre duecento progetti, che spaziano dalla formazione delle risorse umane, sino alla tecnologia informatica, la sanità e la sicurezza marittima. Inoltre, a confermare il ruolo di primo piano di Nuova Delhi nella gestione delle crisi del continente, si può osservare come una consistente quota dei caschi blu dell’Onu che operano in Africa, siano indiani.

Grande valore va dato, anche, al tour africano del Presidente iraniano Raisi, tenutosi nell’estate 2023, in Kenya, Zimbabwe e Uganda. Era da oltre un decennio che un premier dell’Iran non visitava l’Africa e Raisi lo ha fatto, poche settimane dopo un viaggio nelle capitali di Cuba, Venezuela e Nicaragua. Segno che l’Iran ha intenzione di rinvigorire i rapporti con il cosiddetto Global South. 

Dopo il ripristino delle sanzioni a causa degli accordi sul nucleare, Teheran si è ritrovata sempre più isolata e gli sforzi per costruire un network internazionale nel solco dell’anti-occidentalismo diventano una priorità per la Repubblica Islamica. 

Chi ha fatto dell’Africa un retrobottega per la fabbricazione di armi è la Corea del Nord. 

Secondo le Nazioni Unite, Kim Jong-un dispone nel continente di almeno 54 impianti per la produzione di attrezzature militari, di ogni tipo. Attrezzature militari per sé e per i Governi che ospitano le fabbriche. Facendo leva sul fascino ideologico dell’anticolonialismo, retaggio degli anni della Guerra Fredda, il regime ha costruito in Africa una rete di collaborazione industriale, che diventa anche politica e commerciale, persino a costo di aggirare le sanzioni imposte dalla comunità internazionale.

E, siccome, oltre alle armi, la specialità della casa della Corea del Nord è la megalomania, in Africa esporta anche quella. Diversi leader africani, infatti, hanno commissionato allo studio d’arte nordcoreano Mansudae, la costruzione di statue giganti, nel maggior parte dei casi raffiguranti se stessi o eroi nazionali, da posizionare nelle loro città.

Alla penetrazione di armi ed equipaggiamenti bellici di questi attori internazionali, corrisponde il disimpegno progressivo delle potenze occidentali.

La Francia, emblema di questo processo, conserva ormai poche migliaia di soldati, dopo le graduali ritirate dai vari Paesi dell’area del Sahel, ormai tutti sorretti da giunte militari golpiste.

L’Italia, oltre ad una missione in Niger, partecipa alle attività in coordinamento con gli alleati internazionali, su tutti quelle dell’AfriCom, il commando statunitense, articolato in ventisette basi di terra, di cui undici permanenti e sedici di contenimento.

Tuttavia, già dai tempi dell’amministrazione Obama, gli States hanno deciso di alleggerire la propria presenza nel Mediterraneo, orientandosi maggiormente verso il quadrante dell’Indo-Pacifico. In controtendenza con il processo avviato dai suoi due predecessori, Biden ha deliberato il ritorno delle truppe a stelle e strisce nel Corno d’Africa, più nello specifico in Somalia e successivamente, più a sud, in Mozambico. 

La presenza militare, come dicevamo in apertura, apre spesso le porte alle relazioni commerciali e alle infiltrazioni nei tessuti produttivi locali.

L’interscambio commerciale Usa-Africa valeva 113 miliardi di dollari nel 2010 ed è crollato a 44 miliardi di dollari nel 2020. Sarebbe sufficiente questo dato per dipingere meglio la situazione, che assume ancora più rilevanza se confrontato con i 200 miliardi di dollari dell’interscambio Cina-Africa. 

Da qui, partiremo alla scoperta del continente, con un focus specifico sulle relazioni diplomatiche ed economiche dei singoli Paesi, oltre a fornire dove necessario un quadro di massima della situazione politica interna. 

Consapevoli del fatto che una analisi completa, anche della più piccola nazione del mondo, richiederebbe di soffermarsi su altri aspetti oltre a quelli attenzionati, prima di approcciarsi alla lettura dei prossimi articoli, invitiamo a comprendere l’opinione di fondo che anima chi scrive, al fine di evitare equivoci e teorie pregiudiziali.

In un’analisi geopolitica, non esistono buoni o cattivi.

Ciascuno Stato o blocco si muove perseguendo i propri interessi, che possono essere di varia natura. La moda che una certa politica e opinione pubblica occidentalesfoggiano per ritagliarsi spazi di visibilità, tuttavia, consiste nell’assecondare le azioni quando a perseguire i propri interessi sono quei blocchi di Paesi distanti dalla sfera d’influenza dell’Occidente e nel ritenerle deprecabili quando a farlo siamo noi.

Una moda per creare una giostra su cui far salire tutte quelle categorie di persone che, dichiarando “inquinati” i mezzi di informazione ufficiale, si affidano ai quei canali che loro chiamano di controinformazione, ma che in realtà sono alveari di fake-news. 

Con l’obbiettività di questa doverosa premessa, nei prossimi articoli, ci cimenteremo in un viaggio immaginario fra i diversi quadranti geografici del continente e passeremo in rassegna tutti i cinquantaquattro Stati africani, membri tutti di quella Unione Africana, che, come dicevamo in apertura, diventerà membro effettivo del G20.

Questo può essere considerato a tutti gli effetti il più concreto passo compiuto dai big del mondo per incorporare una parte vitale del cosiddetto Global South negli affari mondiali. I leader africani potranno portare le proprie istanze al principale tavolo economico multilaterale, una sfida interessante, in un periodo storico in cui la costruzione delle relazioni internazionali sta andando nella direzione opposta del multipolarismo. Ma anche un modo per smacchiare via quel paternalismo e sfacciataggine tipiche di chi dichiara di voler salvare l’Africa, senza tuttavia compiere lo sforzo di capirla e insistendo nel pregiudizio che per questo continente la storia non cambia mai, restando confinata nel comodo riflesso di un vittimismo infantile. 

Il vero dibattito oggi non è se le nazioni africane sono padrone del proprio destino diplomatico, ma in che modo esse stanno utilizzando il proprio protagonismo e, probabilmente, avere i suoi rappresentati seduti al tavolo G21 aiuterà ad avere delle risposte. 

1. Lo scacchiere del Nordafrica

Iniziamo il viaggio virtuale fra i territori sconfinati del continente dal Nord-Africa, composto da Paesi molto diversi e spesso in conflitto fra loro, sconvolti dalla stagione delle primavere arabe del 2011.

Il Marocco è la frontiera più occidentale del Mediterraneo e può essere considerato fra i Paesi africani con l’assetto istituzionale più radicato e l’identità storica meglio consolidata, nonostante la convivenza di due gruppi etnici, i berberi e gli arabo-beduini.

Sino alla pandemia aveva fatto registrare notevoli tassi di crescita economica, trainata soprattutto dal settore agricolo e dalle attività di estrazione delle miniere di fosfati. 

Recentemente,  la monarchia marocchina ha potenziato le ricerche e le esplorazioni off shore al largo dell’Atlantico, in un progetto che coinvolge la Qatar Petroleum.

Nella nuova mappa mondiale della transizione ecologica, il Marocco ha l’ambizione di essere cerchiato in rosso, divenendo leader assoluto nella produzione di idrogeno verde, per la cui produzione sono già stati individuati dalle autorità governative 1,5 milioni di ettari di suolo pubblico.

Di questa propensione, se n’è accorta la Cina, che attraverso la holding CngrAdvanced Material investirà in Marocco due miliardi di dollari per un sito di produzione del catodo, uno dei componenti delle batterie per i veicoli elettrici.

Come Pechino, anche investitori sudcoreani si stanno attivando nella filiera delle batterie, con volumi di investimento da record per l’intero bacino del Mediterraneo.

Nel settore dell’energia rinnovabile marocchina, l’India ha trovato opportunità di investimento attraverso cui consolidare la propria presenza economica nell’intero Nordafrica. In poco più di cinque anni, il commercio bilaterale fra India e Marocco si è quadruplicato, trainato dalle importazioni di fosfati e da scambi ben diversificati che comprendono prodotti farmaceutici, tessili e macchinari tecnologici.

A rallentare la ripresa economica post-pandemica, si è aggiunta la catastrofe naturale del terremoto di inizio Settembre 2023, che spazzate via le macerie, ha lasciato costi per la ricostruzione, perdita di infrastrutture fondamentali e malcontento nell’opinione pubblica. Il Re marocchino, di fronte al dramma provocato dal terremoto non si è sottratto dalla partita della geopolitica, accettando aiuti solo da quattro Paesi.

La Spagna, a cui il Marocco è tradizionalmente legato a doppio filo per ragioni storiche, sebbene i rapporti fra i due Stati dirimpettai siano spesso altalenanti e contraddittori, per una molteplicità di motivi, che vanno dall’annosa questione del Sahara Occidentale, alla disputa per le enclavi madrilene di Ceuta e Melilla, sino alla competizione per le zone economiche esclusive destinate alla pesca. 

La Gran Bretagna che conserva la base militare di Gibilterra, dove spesso si svolgono esercitazioni congiunti fra le due marine. 

Gli Emirati Arabi e il Qatar, seppur in competizione fra loro, sono entrambi legati al Marocco per interessi commerciali e strategici, oltre alla comune appartenenza alla Lega Araba.

Per comprendere la politica estera marocchina, in realtà, basterebbe coglierne l’orientamento anti-algerino che la anima, risalente dai tempi delle Guerre delle Sabbie e ben manifestata dalle frontiere terrestri chiuse fra i due Paesi confinanti ormai da trent’anni.

In chiave anti-algerina, senza dubbio, va inquadrato il fatto che il Marocco sia stato il primo ed unico Paese africano ad aver inviato armi all’Ucraina. Venti carri-armati consegnati, a fine 2022, per fare un dispetto alla Russia, fedele alleato dell’Algeria.

E, così, se a Dicembre 2023 sono volati definitivamente gli stracci fra Algeria e Mali, a causa dell’accoglienza al Palazzo Presidenziale di Algeri riservata all’imam Dicko, notoriamente ostile al Governo dei miliari maliano, sancendo una rottura fra i due Paesi già preannunciata viste le simpatie algerine per i ribelli tuareg, il Marocco è diventato uno dei migliori amici proprio del Mali. Anzi, per rilanciare, ha steso il tappeto rosso ai Ministri degli Esteri di tutti i quattro Paesi golpisti del Sahel e quindi anche di Burkina Faso, Niger e Ciad, per discutere di alleanze economiche e politiche.

Il Marocco ha, inoltre, ritirato il suo ambasciatore da Parigi e l’episodio del 2021, che scoperchiò le attività di spionaggio dei servizi marocchini nei confronti del Presidente Macron attraverso il software Pegasus, certamente non ha aiutato. 

Da Parigi, nel 2022 sono stati dimezzati i visti di lavoro concessi ai cittadini marocchini. E pesa, anche in questo caso, la questione del Sahara Occidentale, su cui la Francia non riconosce la sovranità marocchina, anche per non fare un dispetto all’Algeria, che invece sostiene economicamente e militarmente il popolo Sharawi, insediato nell’area contesa e di cui ospita il Governo in esilio nel campo profughi di Tindouf. 

La disputa sul Sahara Occidentale portò il Marocco ad abbandonare per protesta il proprio seggio all’interno dell’Unione Africana, quando nel 1984 vi fu ammessa proprio la Repubblica Democratica Araba Sahrawi. 

Soltanto nel 2017, dopo trentatré anni, le autorità marocchine hanno deciso di tornarvi a farne parte, sebbene la vicenda non sia ancora risolta e in quell’area continuino atti di violenza e soprusi, di cui non si sente mai parlare. 

In controtendenza sulla vertenza, sono gli Stati Uniti, che nell’ambito degli ormai noti Patti di Abramo del 2020, avevano ammesso i diritti del Marocco sul Sahara Occidentale, ottenendo in cambio dal Paese arabo il riconoscimento all’esistenza e la normalizzazione dei rapporti con Israele. Una promessa che ha avuto il suo vero banco di prova, l’11 Ottobre 2023, quando il Marocco, che presiedeva la riunione straordinaria del Consiglio della Lega Araba per gli attentati terroristici di Hamas nelle aree meridionali israeliane, ha fatto deliberare una risoluzione che condannava gli atti di violenza contro i civili e chiedeva la liberazione di tutti gli ostaggi.

Un testo, quello della risoluzione della Lega Araba, che potrebbe sembrare non abbastanza esplicito e piuttosto equidistante, ma che va pur sempre inserito nel suo contesto geografico e culturale, per essere valutato.

Soprattutto alla luce del fatto che, nonostante le condanne per i fatti del 7 Ottobre fossero piuttosto generiche, gli altri due Paesi del Nordafrica occidentale, Tunisia ed Algeria, non le hanno comunque votate. 

Una mossa che svela tutte le contraddizioni e le difficoltà della geopolitica e crea imbarazzi in tutta Europa, soprattutto in Italia.

L’Algeria è il Paese più grande per estensione dell’intero continente africano.

Dopo l’invasione di Putin in Ucraina, è diventata il principale esportatore di gas del nostro Paese, determinando introiti che dai 5,5 miliardi di euro del 2021, sono passati ad oltre 18 nel 2023. E parte di  questi soldi, il Governo algerino, potrebbe paradossalmente investirli per acquisire asset e partecipazioni in società proprio italiane, confidando sul fatto da Roma ci saranno un po’di indugi a far valere le clausole del golden power nei loro confronti, per via della nostra dipendenza dalle loro forniture energetiche.

A questo si aggiunge l’imbarazzo, che avevamo già approfondito poco più di un anno fa, per la proclamazione di una Zona Economica Esclusiva da parte dell’Algeria, che arriva sino alle coste della Sardegna e che ancora non è stata risolta. in Mare le Zone economiche esclusive, vedi l’Algeria a ridosso della Sardegna (laredazione.net)

Parallelamente, l’Algeria sta per diventare il primo importatore al mondo di armi russe, consolidando una collaborazione con le milizie ufficiali del Cremlino, con cui già svolge esercitazioni e operazioni congiunte, a ridosso del Marocco. 

La situazione economica dell’Algeria risente profondamente degli effetti lasciati dal Covid19, che qui ancora dilaga e ha comportato uno stallo politico continuo, con rivolte popolari ormai cronicizzate. 

Per far fronte alle difficoltà finanziarie, il Presidente algerino nell’estate 2023 si è recato in visita ufficiale a Pechino, da cui ha ottenuto un pacchetto di investimenti di quasi quaranta miliardi di dollari, distribuito in vari settori, oltre alla sottoscrizione di diciannove documenti, tra cui accordi di cooperazione e memorandum d’intesa.

L’Algeria nel 2014 era stata il primo Paese arabo a stipulare un accordo di partenariato strategico globale con la Cina. Un legame che ha reso Xi Jinping il finanziatore di infrastrutture cruciali per il paese nordafricano come l’autostrada Est-Ovest, la Moschea di Algeri e il centro olimpico di Orano.

Anche l’India ha recentemente dimostrato un impegno a costruire una partnership a lungo termine con l’Algeria. Alcune delle principali aziende indiane come Tata, Kirloskar e Mahindra si sono insediate nel Paese, creando joint venture in diversi settori, tra cui quelli ingegneristico e automobilistico. 

Incastonata fra il Marocco e l’Algeria, c’è la Tunisia, del Presidente Saied.

Lì da dove, nel Dicembre 2010 ebbero inizio le Primavere Arabe e in cui l’instabilità politica si è sovrapposta alla fragilità economica, come abbondantemente avevamo spiegato, poco tempo fa. Tunisia, aumentano i migranti con l’Italia che diventa il primo partner commerciale – La Redazione

Il piccolo Stato nordafricano è stato spesso chiamato in causa negli ultimi mesi, soprattutto per il fantomatico accordo sul contenimento dei flussi migratori, siglato con l’Unione Europea, rappresentata negli incontri ufficiali dal Presidente italiano Giorgia Meloni, dall’omologo/dimissionario olandese Mark Rutte e da Ursula Von der Leyen.

Questi accordi erano stati presentati come il preludio di una nuova stagione di cooperazione economica fra l’Europa e l’altra sponda del Mediterraneo, ma si sono ben presto rivelati un fallimento, diventando un caso diplomatico e alimentando non pochi imbarazzi nelle cancellerie europee, sino alla restituzione di 60 milioni di euro da parte del Governo tunisino a Bruxelles con tanto di «La Tunisia non accetta nulla che assomigli alla carità.»

Saied è in contrasto anche con il Fondo Monetario Internazionale da cui attende un prestito da oltre due miliardi di dollari, che potrebbe salvarlo dal default, condizionato al varo di una serie di riforme che però minerebbero lo status-quo su cui fonda il proprio potere e il proprio consenso. Per questo motivo, la Tunisia ha guardato altrove, alla vicina Algeria che le ha aperto le porte diplomatiche con la Russia, con cui il 25 Settembre 2023 ha siglato un accordo commerciale che prevede l’importazione di grano russo in cambio di flussi turistici provenienti da Mosca. 

Nel pieno dell’estate, poi, la Ministra delle Finanze tunisina ha firmato una doppia convenzione con l’Arabia Saudita per un finanziamento da mezzo miliardo di dollari. E poi ci sono i legami solidi con la Cina, al punto che pochi giorni fa è stato deciso di esentare i cittadini cinesi dal visto per entrare nel territorio.

Il grande bubbone del Nordafrica resta tuttavia la Libia. 

Dopo l’estromissione di Gheddafi nel 2011, venne divisa in due e sotto l’influenza di Russia (in Cirenaica) e Turchia (in Tripolitania), che a turno hanno potuto ricattare l’Unione Europea sui flussi migratori, mentre sotto i loro occhi si ingigantiva la terra di nessuno, nelle mani di estremisti islamici, bande paramilitari e tribù. 

Una situazione che si continua a trascinare come testimoniano gli scontri cruenti dell’ estate 2023 fra i commandi di Raada e quelli agli ordini di Hamza. Libia, si scatena la guerra tra bande – La Redazione

La Turchia ha supportato a lungo la resistenza di Al Sarraj contro il generale Haftar, fino al cessate il fuoco e la decisione di stabilire il confine fra le due aree lungo la linea di Sirte. L’influenza di Erdogan si è fatta sentire anche con l’ascesa del successore di Al Sarraj, l’attuale premier Dabaiba, con cui ha siglato gli accordi per le Zone Economiche Esclusive turche sul Mediterraneo Orientale.

La Russia fece il suo ingresso in Libia al fianco dell’Egitto, durante i disordini del 2011, per gestire il post-Gheddafi e designando come suo referente nel territorio il generale Kalifa Haftar, padrone assoluto della Cirenaica. Per una strana coincidenza del destino, il 24 Febbraio 2022, giorno dell’invasione in Ucraina, coincise con la fine del già di suo traballante Governo di Unità nazionale in Libia e l’ascesa al potere in Cirenaica di Fathi Bashaga, manager nel settore petrolifero, di fatto un fantoccio in mano alle milizie di Haftar e dunque di Putin. Se ce ne fosse bisogno, si tratta di una conferma al fatto che la Russia non lavora alla stabilizzazione e pacificazione nazionale della Libia, perché una Libia instabile e insicura conviene di più al Cremlino, garantendogli il controllo delle leve sul flusso dei migranti e sul razionamento delle forniture di gas naturale.

Basti pensare che attraverso il gasdotto Green Stream, collegato all’Italia, passa meno di un quinto della capienza di gas possibile, proprio a causa dell’instabilità e dei blocchi imposti sul suolo cirenaico.

Inoltre, i recenti incontri di Haftar con i generali Yevkurov, vice-ministro della Difesa della Federazione Russa e Averyanov, che ha preso le redini della compagnia Wagner dopo la morte di Prighozin, testimoniano l’avanzamento dell’accordo per l’imminente concessione al Cremlino del porto di Tobruk, dove la Marina russa installerà una base militare. Un avamposto nel cuore del Mediterraneo, a due passi dal Canale di Sicilia, che combinato con la base di Tartus sul suolo siriano, offrirà a Putin a un presidio totale sul mare nostrum. Con l’aeroporto di Al-Jufra già sotto il controllo dei mercenari russi, si completerebbe un architrave di infrastrutture logistico-militari in grado di rappresentare una minaccia diretta alla postura della Nato nell’intera area mediterranea. 

La catastrofe naturale che ad inizio di Settembre 2023 ha devastato questa regione della Libia, ha fatto emergere ancora di più la disfunzione di potere radicatasi in questi anni, dove la negligenza e la corruzione sono ormai dei tratti endemici. La gara per la ricostruzione, qui, potrebbe far entrare in gioco i Paesi del Golfo che già hanno manifestato interesse a mettere a disposizione i propri petrodollari, da investire nella costruzione di alleanze regionali e internazionali. 

Le monarchie del Golfo hanno rilevanza diplomatica, finanziaria e culturale soprattutto in Egitto, il Paese che chiude l’arco del Nordafrica, collegandosi attraverso il Canale di Suez e la penisola del Sinai al Medio-Oriente, teatro in queste settimane di tensioni, che potrebbero portare ad una escalation dalle conseguenze imprevedibili.

Per via della sua posizione geografica e della sua sovranità sul valico di Rafah, unica via d’uscita dalla prigione a cielo aperto della Striscia di Gaza, l’Egitto è uno degli interlocutori più attivi nei negoziati e nelle discussioni fra Occidente e mondo arabo. 

Tuttavia, oltre alla crisi lungo il proprio confine settentrionale, l’Egitto subisce forti pressioni da sud, dove negli ultimi mesi la rivalità fra i Signori della Guerra del Sudan ha generato una spirale di violenza e morte, che ha portato la popolazione civile a fuggire. 

Si stima che l’Egitto abbia già accolto oltre duecentomila profughi sudanesi. 

La situazione in Sudan sta già deteriorando i rapporti con gli Emirati Arabi e la Libia di Haftar, che in quell’area sostengono l’organizzazione paramilitare Rapid SupportForces del generale Dagalo, contrariamente alla posizione egiziana favorevole al suo rivale, Burhan. Il sostegno al Sudan è legato anche alla disputa in corso con l’Etiopia per la Diga del Gran Rinascimento, che per le autorità egiziane minaccia l’approvvigionamento di acqua. La tensioni con il Sudan, con tanto di presidi massicci di truppe, riguardano inoltre anche l’annosa disputa per i confini, in particolare per la sovranità sul cosiddetto triangolo di Halaib. All’apparenza potrebbe sembrare una contesa su delle linee immaginarie tracciate nella sabbia del Deserto della Nubia, in realtà si tratta di un’area ricca di giacimenti di manganese, oro e petrolio.

L’Egitto è il principale partner commerciale nella regione dell’India, grazie a un solido accordo commerciale, che promuove interscambi costanti fra il petrolio grezzo egiziano e la carne, il ferro e l’acciaio indiani. Anche facendo leva su questa amicizia con Nuova Delhi, dal 2024 l’Egitto è diventato membro del blocco Brics, mosso dall’ambizione della de-dollarizzazione e dalla volontà di ottenere finanziamenti al di fuori dell’orbita occidentale, per risollevare la propria situazione economica. Il blocco Anti-Occidente si incontra – La Redazione

Una situazione economica disastrosa, senza precedenti, quelle che sta attraversando l’Egitto, fra inflazione alle stelle e indebitamento quasi insostenibile, nonostante gli aiuti ricevuti del Fondo Monetario Internazionale. Attualmente, almeno il 70% del mercato interno è rivolto al settore edilizio, dove le imprese sono di proprietà delle Forze Armate. Un sistema che rafforza il sostegno al Presidente Al-Sisi all’interno dell’elite di potere ma impedisce la crescita del settore privato e non aumenta le esportazioni nazionali. Una situazione talmente nota e incrostata che l’Arabia Saudita si è proposta a dare gli aiuti economici necessari, chiedendo però di togliere dalle mani dei generali i settori dell’economia che essi controllano e aprendola al libero mercato.

Sin dai tempi del colpo di Stato dei Giovani Ufficiali del 1952, il controllo del potere della casta militare in Egitto è una costante. In settant’anni l’apparato militare ha plasmato a propria immagine la società egiziana nelle sue strutture portanti, dalle istituzioni, alle attività produttive, sino alla pubblica amministrazione. 

Per preservare il suo controllo sul Paese, Al Sisi si affida alla polizia, cui sono consentiti ampi margini di illegalità e all’utilizzo di una propaganda del sospetto che incita i cittadini a segnalare come potenziali spie gli stranieri che si interessano troppo da vicino alle dinamiche interne del Paese. È questo il caso, ad esempio, del video girato di nascosto dal sindacalista dei venditori ambulanti mentre parla con Giulio Regeni. 

Una vicenda ancora irrisolta e di cui non si potrebbe parlare in mezzo rigo. Ma in Egitto, le sparizioni come quella di Giulio sono all’ordine del giorno, di queste alcune finiscono in tragedia, altre in detenzioni sommarie, come nel caso di Patrik Zaki. 

Mentre compie atti del genere, Al-Sisi viene ricevuto sul tappeto rosso dalla cancellerie europee e occidentali e addirittura riceve la Legion d’Onore dalla Francia, con tanto di cerimonia solenne e cena di gala all’Eliseo. Questa è la faccia della complessità e del dramma con cui le nostre democrazie devono convivere. 

Nelle dinamiche geopolitiche, infatti, è troppo importante che l’Egitto, in quanto nazione araba più popolosa in assoluto, rimanga sempre lontano dal diventare uno Stato islamico e preservi quei suoi caratteri di laicità. 

Il dramma delle nostre democrazie sta tutto qui, nella complessità di dover tollerare la crisi di diritti umani senza precedenti che sotto Al-Sisi, l’Egitto sta attraversando, con oppositori politici, giornalisti, attivisti detenuti a migliaia e costretti ai lavori forzati. 

Tollerare la modifica costituzionale che lo stesso neo-faraone ha fatto approvare nel 2020, per estendere la durata del mandato presidenziale, insieme ad un annichilimento dei partiti di opposizione, che gli hanno permesso di vincere nuovamente le elezioni di Dicembre 2023. 

Tollerare il fatto che l’Egitto sia la più grande potenza militare di tutto il continente africano e che rappresenti il sesto importatore al mondo di armi ed equipaggiamenti bellici. Fra l’altro, in questo settore rappresenta il principale acquirente di fabbricazioni italiane. L’Egitto apprezza il Made in Italy di fregate, cacciatorpediniere, aerei da combattimento e armi leggere. 

L’Italia è protagonista in Egitto, attraverso l’Eni, nello sfruttamento del più grande giacimento di gas offshore del Mediterraneo, lo Zhor, scoperto proprio dalla compagnia italiana nel 2015 e in grado di soddisfare il fabbisogno energetico egiziano per i prossimi decenni.

Nel suo delirio, Al-Sisi ha anche in mente progetti mastodontici come deviare il corso del Nilo, sempre più degradato per via della iperurbanizzazione, realizzare una centrale nucleare a Dabea finanziata dalla compagnia russa Rosatum e soprattutto costruire nel mezzo del deserto la nuova capitale del Paese.

Una nuova Dubai, fiore all’occhiello della strategia Egitto2030, in cui far evacuare gli uffici governativi, presidenziali e i cittadini più benestanti, per metterli al sicuro dai disordini sociali de Il Cairo. La Cina si è già mossa per finanziare la metropolitana della nuova capitale e quello che sarà il grattacielo più alto di tutta l’Africa.

Tutto questo, mentre, un terzo della popolazione vive in condizioni di povertà, le interruzioni di energia elettrica sono frequenti e improvvise e il livello di debito pubblico è così disastroso che lo spettro della bancarotta di Stato si fa sempre più vicino. 

2. Sahel, si scalda il cuore d’Africa

Alcuni dei caratteri soltanto evocati nell’analisi del contesto nordafricano sono esasperati nell’area cosiddetta del Sahel, in cui l’assenza di istituzioni e di servizi più basilari sono al tempo stesso causa ed effetto della spirale di drammi a cui quella regione sembra condannata.

Per Sahel si intende quella vasta cintura di terra, che estendendosi dall’Oceano Atlantico al Mar Rosso, divide il Nordafrica dal continente sub-sahariano. 

Qui instabilità e conflitti hanno radici storiche profondissime. Da generazioni, gruppi etnici e tribali del luogo dialogano fra loro soltanto attraverso la violenza e i soprusi, spesso animati soltanto da ragioni puramente xenofobe. 

Governi deboli e istituzioni fragili, povertà estrema, assenza di servizi, predisposizione alla corruzione dei capi-tribù, hanno reso il Sahel terreno fertile per bande di criminali e organizzazioni terroristiche, che si sono imposte sulle popolazioni locali sostituendosi agli Stati centrali e fungono da veri e propri centri per l’impiego per numerosi giovani senza lavoro.    

Non stupisce quindi, se già a metà degli Anni Novanta, proprio un Paese della porzione orientale del Sahel, ovvero il Sudan, fece da campo-base per Osama Bin Laden e dei suoi fedelissimi, il quale con la complicità delle èlite locali, riuscì ad espandere la propria rete di influenze nella regione ed elaborare i progetti di terrore e di morte che il mondo, di lì a poco, avrebbe conosciuto. 

Non a caso lo scopo dell’unico organismo intergovernativo della regione, il G5-Sahel, era la politica di sicurezza comune, declinata nella cooperazione militare per fronteggiare gli estremisti islamici, che operano su scala transnazionale. 

A Dicembre 2023, la piattaforma si è definitivamente sgretolata, con l’uscita formale dei vari membri, vanificando anni e anni di investimenti anche da parte degli attori internazionali.

Le profonde ferite economiche, umanitarie, istituzionali e climatiche che interessano quest’area, provocano una emorragia di flussi migratori, in costante crescita.

La città di Agadez, in Niger è il principale bacino di raccolta di profughi, poi indirizzati prevalentemente verso le tratte algerine/tunisine e libiche, attraverso il Fezzan. 

L’eredità della presenza francese nella regione è testimoniata prevalentemente dall’utilizzo della lingua transalpina e del franco Cfa, una moneta fortemente condizionata dal Tesoro di Parigi, che tuttavia nelle intenzioni di Macron verrà presto sostituita da una nuova valuta, chiamata Eco. 

La rete di influenze e interessi della Francia nelle sue ex-colonie del Sahel, ma anche degli altri Paesi dell’Africa Occidentale, la meglio nota Francafrique, continua a conservarsi, in ogni caso, attraverso l’operato di grandi aziende come Total, Alstom, Orano ed altre meno note.

Da diversi anni, le attenzioni dell’Eliseo nell’area sono integrate in un più vasto impegno europeo, distribuito in progetti di natura economica, politica e militare. Un impegno che, alla luce della persistente successione di avvenimenti e sconvolgimenti nella regione, viene periodicamente ripensato e rimodellato.

Nel 2011, l’Unione Europea ha incentrato la propria “Strategia per la sicurezza e lo sviluppo del Sahel” sulle direttrici della lotta al terrorismo, della cooperazione economica e del miglioramento delle istituzioni locali, affiancandola ad una serie di missioni civili e militari, spesso sospese o ridimensionate. Neanche i più recenti piani adottati da Bruxelles, come il Rap o l’istituzione del comitato “One DesertIniziative”, hanno potuto evitare il rapido deterioramento del teatro saheliano. 

I finanziamenti dedicati alle forze militari locali, spesso coinvolte in soprusi o atti violenza nei confronti delle popolazioni civili, non meno delle bande criminali o dei gruppi jihadisti, hanno generato sentimenti di ingiustizia. Inoltre, il sentimento antifrancese e antioccidentale dilagante nella regione, ha portato alcuni Paesi governati da golpisti, Mali, Burkina Faso e Niger, a interrompere i programmi di collaborazione intrapresi con l’Unione Europea nell’ultimo decennio.

Ad una tale perdita di legittimità delle istituzioni di Bruxelles corrispondono inevitabili perdite di spazio di intervento e di dialogo, che vengono ormai da tempo riempiti da altri attori internazionali.

È il caso delle Monarchie del Golfo, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, che proprio attraverso i due Paesi più di frontiera del Sahel, hanno fra le mani le “porte dell’Africa.”

La Mauritania, ad ovest ed il Sudan, ad est, tracciano le rotte d’ingresso e di uscita dei flussi di merci e di capitale umano.

Già da tempo, il Sudan, rappresenta una sorta di granaio per i Paesi del Golfo, che in quel territorio hanno indirizzato centinaia di milioni di dollari proprio rivolti allo sviluppo delle attività agricole.

Il Governo di Riyad si è fatto garante del debito che questo Paese del Sahel ha nei confronti del Fondo Monetario Internazionale. 

Gli Emirati Arabi, dal conto loro, nel 2022, avevano stipulato un accordo da 6 miliardi di dollari per la costruzione del porto di Abu Amama, sul Mar Rosso. 

Ma l’azione in Sudan di emiratini e sauditi rappresenta soprattutto un baluardo per contenere l’influenza dell’Iran nell’Africa Orientale, nonostante nel Marzo 2023 ci sia stato un riavvicinamento fra le due parti, con la mediazione cinese, come avevamo testimoniato a suo tempo. Iran e Arabia Saudita, il disgelo voluto dalla Cina – La Redazione

Proprio il timido disgelo fra sauditi ed iraniani, aveva favorito l’evacuazione di numerosi civili in fuga delle violenze scoppiate in Sudan nella tarda primavera del 2023, a bordo di mezzi della marina di Bin Salman.

Nel frattempo, le strade sudanesi continuano a macchiarsi di sangue per un regolamento di conti fra i due Signori della Guerra che si erano divisi il potere dopo la dittatura di al-Bashir, proseguendo una storia di dolore e di instabilità, che fra le sue pieghe nasconde un genocidio di proporzioni inaudite, consumatosi nel Darfur e che neanche l’indipendenza del Sud Sudan nel 2011 e la rivoluzione popolare del 2019 hanno placato. 

La democrazia tanto agognata dai sudanesi durò soltanto due anni, prima di essere rovesciata da un colpo di Stato che fece insediare la giunta miliare attualmente al potere. 

Da Aprile 2023, le due fazioni opposte della giunta hanno deciso di farsi la guerra. 

Alla loro guida due generali senza popolo e senza scrupoli. Da un lato il Capo di Stato maggiore Al-Bhuran supportato dall’esercito regolare, dall’altro le milizie agli ordini di Dagalo, note come Forze di Supporto rapido, storico alleato della sanguinaria tribù dei Janjaweed e in tempi più recenti molto vicino ai mercenari Wagner, braccia armate di Putin. 

Da mesi, ormai imperversa una guerra poco raccontata, perché i giornalisti internazionali non possono entrare e quelli locali non sono messi nella condizioni di poter lavorare, consentendo così,  che nel sud-ovest del Paese, si possa consumare, dentro la guerra, qualcosa di peggio della guerra stessa. 

Una campagna di massacri e stupri etnici, perpetrata, casa per casa, dalle milizie di etnia araba ai danni delle loro connazionali dei etnia africana. 

Dentro questo incubo c’è spazio anche per un fallimento che ci riguarda: ad inizio Dicembre 2023, la Nazioni Unite hanno chiuso la propria missione in Sudan, su richiesta proprio del Governo sudanese, un governo illegittimo e violento, che ha chiesto alla comunità internazionale di farsi i fatti propri.  

Tutti questi fattori rendono il Sudan teatro della più grande crisi di sfollati, in corso, al mondo, con almeno sette milioni di persone che in questi mesi hanno lasciato le proprie case e le proprie città. 

La principale fonte di entrate economiche del Paese restano le miniere d’oro, di cui è terzo produttore dell’intero continente africano. Le riserve aurifere sono controllate per la maggior parte proprio dal generale Dagalo e, probabilmente anche in questa chiave va vista la sua sponsorizzazione da parte della Russia. 

Russia che presto otterrà una base navale a Port Sudan, che le permetterà un affaccio diretto sul Mar Rosso e uno sbocco verso l’Oceano Indiano, per espandere ulteriormente la sua influenza militare. 

La Cina, dal canto suo, a Novembre ha invocato un immediato cessato il fuoco in Sudan, per bocca del suo delegato alle Nazioni Unite, che in realtà tradisce un disinteresse verso questo Paese dopo che, con l’indipendenza del Sud Sudan, ha perso la sovranità sulla quasi totalità dei suoi giacimenti petroliferi, vanificando anni ed anni di investimenti in progetti di supporto come strade, ferrovie, ponti o la colossale Diga di Merowe, ormai nell’ultimo periodo orientati principalmente verso il neonato Stato, con capitale Juba. 

Dal lato opposto del Sahel, si estende l’altra “porta”, ovvero la Mauritania, cerniera naturale con il Magreb, con cui da pochi anni, le Monarchie del Golfo hanno intensificato le relazioni diplomatiche, commerciali e militari. Visite di Stato incrociate, quattro memorandum d’intesa firmate con i sauditi, una commissione di monitoraggio per i miliardi a loro favore stanziati dagli emiratini, l’espansione e la modernizzazione dei porti di Nouakchott e Nouadhibou per proiettare gli scambi commerciali sino all’America Latina, sono soltanto delle tracce di una penetrazione che abbraccia anche gli aspetti culturali e spirituali, attraverso la costruzione di moschee e la formazione di Imam, per contrastare il dilagarsi dell’Islam più radicale e il crescente proselitismo sciita, di ispirazione iraniana. In questo senso, va anche inquadrato, il finanziamento costante che le monarchie hanno elargito al G5-Sahel, fino all’ultimo momento prima della sua dissoluzione. 

L’economia della Mauritania si basa sull’industria estrattiva, grazie ai suoi notevoli giacimenti di oro, rame e ferro, cui si sommano le ingenti risorse gasifere offshore scoperte soltanto nel 2019, in acque territoriali condivise con il Senegal. 

La politica estera della Mauritania è ormai allineata a quella saudita-emiratina, come testimoniano la partecipazione alla coalizione araba impegnata in Yemen e la rottura dei rapporti con il Qatar nel 2018.

La Mauritania è contesa, tra l’altro, in un tira e molla fra la Nato e la Russia. La prima, non vuole lasciare l’area vuota dopo i fallimenti negli altri Paesi della regione e qui intende installare una propria base militare, la seconda, con cui vige un accordo di cooperazione militare siglato nel 2021, ha intenzione di posizionarsi in un territorio di cerniera fra Maghreb e Africa Occidentale.

Fra Mauritania e Sudan, si incastrano quattro Paesi, che nell’ultimo decennio, possono essere assimilati a due costanti: colpi di Stato militari e sentimento anti-francese, nonché anti-occidentale.                                                                                                                   Ad inaugurare il giro di valzer, è stato il Mali, nel 2012, sotto le spinte dei separatisti del Movimento Nazionale di Liberazione dell’Azawad, regione a nord del Paese, area designata per la costituzione di uno Stato jihadista. La Francia rispose con due operazioni militari di contenimento, in rapida successione, la Serval e la Barkhanè, senza tuttavia riscuotere alcun risultato sul campo. Di fronte al moltiplicarsi dei territori sotto il controllo di Al Qaeda, il governo golpista maliano si gettò fra le braccia della Russia, che garantì la protezione dei mercenari del gruppo Wagner, in cambio dello sfruttamento esclusivo dei giacimenti di bauxite, manganese e oro. Da questa parti, negli ultimi anni, anche la Cina ha intensificato il proprio volume di investimenti e di relazioni diplomatiche. Un percorso che nel Luglio 2019 ha prodotto un memorandum d’intesa per l’adesione del Mali alla Via della Seta, ma che già prima di questa firma si era alimentato dei finanziamenti cinesi indirizzati verso l’edilizia abitativa, il settore sanitario e oltre mezzo milione di chilometri di ferrovia, fra cui il miglioramento degli itinerari più importanti per collegare il Mali ai vicini Senegal e Guinea. Nel frattempo la Cina ha puntato il porto di Ndiago, uno sbocco marittimo ideale per i prodotti che viaggeranno verso l’entroterra del continente. Forse anche di questo, l’8 Dicembre 2023, avranno parlato i Ministri degli Esteri di Mali e Cina, nel loro incontro ufficiale tenutosi a Pechino.                                                                                                                              Di certo c’è che la guerra civile che seguì le incursioni dei separatisti, le elezioni del 2013 e del 2020, archiviate con nuovi golpe militari e il ritiro definitivo della Francia nel 2022, hanno trasformato il Mali in un focolaio che ha contagiato l’intera area del Sahel, a cominciare dal Burkina Faso.                                                                                               Qui, dal Settembre 2022 vige la legge del giovanissimo capitano dell’esercito Ibrahim Traoré, che si definisce la reincarnazione dell’eroe nazionale Thomas Sankara, a cui ha copiato anche il celebre motto: «O la patria o la morte, noi vinceremo!»                             Intriso di socialismo economico, il giovane golpista ha lanciato dei programmi di imprenditoria comunitaria, ampliando le attività di tre miniere e di due stabilimenti di salsa di pomodoro. Il Burkina Faso ha un potenziale agricolo ancora poco sfruttato e riserve minerarie inesplorate, nonostante questo la povertà estrema è dilagante.              In meno di un anno di Governo, Traoré si presentato come leader dell’antimperialismo panafricano, non mancando di bacchettare élite di potere e politicanti del suo continente. Le alleanze strategiche, diplomatiche e militari del nuovo Burkina Faso contemplano l’intero assortimento di Stati ostili all’Occidente: Iran, Venezuela, Nicaragua, Cuba. Ad inizio Settembre 2023, ha definitivamente rotto le relazioni diplomatiche con Taiwan, riconoscendo l’unica sovranità territoriale della Repubblica Popolare Cinese. 

Alla fine di Luglio 2023, il giovane militare è stato uno dei più attenti e disponibili fra gli ospiti di Putin, che nella sua San Pietroburgo ha celebrato la seconda edizione del forum Russia-Africa, nel corso del quale sono state gettate le basi per un accordo, poi formalizzato, riguardante la costruzione di una centrale nucleare per mano della holding moscovita Rosatom. Al ritorno dal summit, Traoré venne accolto dal suo popolo in festa, fra caroselli e bandiere russe sventolate per aria.                                                       Tutto questo, mentre nell’ultimo anno, il Burkina Faso ha registrato un incremento del 137% di attentati terroristici e, nel Nord-Est del Paese, ormai quasi un milione di persone vivono in villaggi conquistati da Al-Qaeda ed Isis.                                                                                                                        Gli sviluppi in Mali e Burkina Faso, avevano spinto la Francia e l’Unione Europea a fare del Niger, il perno della nuova architettura di sicurezza nel Sahel, l’ultimo avamposto occidentale nell’area. Il Niger era diventato teatro di missioni bilaterali di singoli Stati membri, fra cui figurava anche l’Italia. L’ultima operazione approvata nei palazzi di Bruxelles è del Febbraio 2023 ed aveva l’obbiettivo di sostenere le forze di sicurezza nigerine in proiezione di controterrorismo e per difendere l’integrità territoriale. Tuttavia, come abbiamo raccontato nel corso dell’estate anche in Niger non si è resistito al richiamo del colpo di Stato. Niger, il golpe e i mercenari della Wagner – La Redazione                            
 Deposto il Presidente filo-occidentale Bazoum, la giunta militare al potere da Luglio 2023 ha interrotto tutti i programmi di cooperazione con l’Ue ed ha bussato alle porte del Cremlino. Sono ancora fresche nella nostra memoria, le immagini dei manifestanti che mettono a soqquadro l’ambasciata francese della capitale nigerina, intonando: «Lunga vita a Putin!»                                                                                                                        Le condanne dell’Ecowass, organismo che riunisce i Paesi dell’Africa Occidentale guidato dalla Nigeria, con tanto di minacce di intervento miliare non hanno fatto tornare sui propri passi, il generale Tchiani, autoproclamatosi Presidente. Per nulla intimoriti, negli ultimi giorni del 2023, i leader di Niger, Mali e Burkina Faso si sono prima presentati davanti alla folla che nella capitale nigerina, celebrava il ritiro completo delle truppe francesi dal Paese e poi, hanno formalizzato ufficialmente la propria unione politica, indipendente dall’Ecowass, che hanno chiamato Alleanza degli Stati del Sahel e presentata nel nome dello «stesso destino» dei Stati guidati da militari, come detto nella conferenza stampa dei loro Primi Ministri.                                                                              Il Niger è ricco di uranio, terzo maggior fornitore della Francia e secondo dell’intera Ue. La nuova politica estera della giunta militare ha messo in crisi l’esportazioni di questo minerale verso i Paesi Occidentali, creando un vuoto di domanda che l’espansione dell’energia nucleare cinese potrà colmare facilmente. Già nel 2007 la joint venture di Stato cinese Cnnc si era impegnata nello sviluppo della miniera di Azelik, nel centro del Paese. Una collaborazione proseguita nel tempo e che, a Luglio 2023, si è arricchita di nuovi accordi per rilanciare le attività presso il sito di Arlit, nella regione settentrionale. L’altro pilastro degli investimenti cinesi in Niger è quello petrolifero. Il Niger ha iniziato a produrre petrolio nel 2011, proprio grazia alla società PetroChina, che rese operativo il giacimento di Agadem. Successivamente, PetroChina ha finanziato la costruzione della raffineria Soraz, di cui oggi detiene la quota di maggioranza. Il fiore all’occhiello della strategia petrolifera cinese nella regione è, però, senza dubbio, l’oleodotto di oltre duemila chilometri che collegherà il sito di Agadame alla città portuale di Cotonou, in Benin. La pipeline, in grado di trasportare quasi centomila barili al giorno, sarà la più lunga del continente.                                                                                                                        La Cina controlla inoltre da almeno due decenni, anche l’estrazione di petrolio greggio del vicino Ciad, sebbene le autorità del Paese abbiano spesso accusato Pechino di violare le norme ambientali nello svolgimento delle attività estrattive.

E proprio il Ciad, chiude il mosaico del Sahel di cui ci stiamo occupando in questo articolo. Costretto a reggere la pressione crescente del flusso di sfollati provenienti del confinante Sudan, vive in uno stato di emergenza alimentare formalizzato nel Giugno 2022, oltre flagello dalla desertificazione del bacino del lago omonimo, evento che alimenta tensioni fra allevatori nomadi e contadini stanziali, in lotta per accaparrarsi acque e terreni, siamo di fronte ad un Paese composto da oltre duecento etnie, protagoniste di scontri fratricidi, che spesso sfociano nel sangue. Dopo l’uccisione del Presidente Deby, avvenuta subito dopo la rielezione per il suo sesto mandato, per mano dei ribelli, armati dalla Libia di Haftar e dai mercenari della Wagner, il Ciad è guidato da un Consiglio di transizione militare, al cui vertice, c’è proprio il figlio del Presidente deceduto. In questo scenario, il Ciad rimane la principale potenza militare dell’ormai sgretolata piattaforma G5-Sahel e le sue truppe sono essenziali per la lotta ai fondamentalisti. Per questo motivo, le instabilità interne preoccupano la comunità internazionale, in quanto assorbono uomini e impegno nella delicata sfida al terrorismo. In questo contesto, il Governo del Ciad ha avanzato richieste di finanziamenti per realizzare il programma di disarmo e reintegro dei miliziani ribelli, come era previsto dagli accordi di pace firmati, con le quaranta sigle di gruppi armati, a Doha nell’estate 2022. L’Unione Europea, primo interlocutore del Ciad, ha espresso sin da subito perplessità sull’opportunità di finanziare il piano, a maggior ragione dopo che a Dicembre del 2023, il G5 Sahel si è trasformato in una scatola vuota. A venire in soccorso della giunta militare di Deby è stato Viktor Orban, Presidente dell’Ungheria, che il giorno dell’Immacolata Concezione ha inviato nella capitale africana il suo Ministro degli Esteri per inaugurare la nuova ambasciata ungherese nel Paese, dove nei primi mesi del 2024 schiererà duecento suoi soldati. Nella forma, l’Unione Europea si posiziona militarmente in Ciad e nel Sahel con un’altra compagine oltre a quella francese, sebbene nei fatti, a cimentare questa presenza sarà il membro delle istituzioni di Bruxelles, in assoluto più vicino a Putin, che proprio nel Ciad vede un tassello mancante per la sua penetrazione in Africa. 

3. L’Africa Occidentale è contesa

Il mosaico del continente africano si arricchirà, attraverso questo articolo, di altri tasselli.

Passeremo in rassegna i territori dell’intero arco che si affaccia fra l’Atlantico ed il Golfo di Guinea.

La regione occidentale è composta da una molteplicità di Paesi, anche di piccole dimensioni, che si riconoscono nella comunità Ecowass, istituita nel 1975, un organismo transnazionale con l’ambizioso obbiettivo di favorire una progressiva confederazione economica, politica e militare fra i suoi componenti.

Dopo la stagione della Guerra Fredda, i Paesi dell’Ecowass si sono indirizzati verso forme di democrazie e multipartitismo più o meno funzionanti e consolidate, tant’è che laddove colpi di Stato o prese di potere autoritarie hanno sovvertito l’ordine istituzionale, l’organizzazione ha reagito con la sospensione immediata e la minaccia di intervento miliare per ripristinare lo stato delle cose.

È il caso del Burkina Faso, del Niger, del Mali e e della Guinea. 

La regione è prevalentemente di stampo francofono ed anglofono, con le eccezioni della Guinea-Bissau e delle Isole di Capo Verde, che invece furono colonie portoghesi.

Piccolo inciso: da non confondere fra di loro la Guinea, la Guinea-Bissau e la Guinea Equatoriale, tre Stati distinti fra loro, a cui, allargando lo sguardo oltre l’Africa, potremmo aggiungere anche la Papua Nuova Guinea, nell’Oceano Pacifico.

L’arcipelago di Capo Verde, in particolare, è ancora strettamente legato al Portogallo, soprattutto culturalmente, tanto che la sua valuta è agganciata al valore dell’euro con un regime di cambio fisso e le istituzioni locali da tempo chiedono di avviare i negoziati per aderire addirittura all’Unione Europea. Del resto, basterebbe, dare uno sguardo veloce alla bandiera ufficiale di Capo Verde per cogliere il forte sentimento europeista che aleggia su queste isole paradisiache al largo dell’Atlantico.

Ma non lasciamoci illudere, perché al di là delle spiagge capoverdiane, si estende un’area in cui gli impulsi anti-occidentali dominano le azioni dei Governi e delle popolazioni. 

A cominciare dal Senegal, principale dirimpettaio dell’arcipelago di Capo Verde, in cui nel 2022, il Presidente Macky Sall, lo stesso Presidente che nella primavera del 2023 ha fatto arrestare il principale leader dell’opposizione con l’accusa di “corruzione di giovani” ed ha bloccato l’accesso ad Internet per limitare le proteste, ecco proprio questo Presidente, rimproverò l’Unione Europea di essere la responsabile di una imminente carestia nell’intera Africa, a causa delle sanzioni inferte alla Russia, a seguito dell’invasione in Ucraina. Qualcuno avrebbe dovuto raccontargli che mentre intonava tali presagi, Putin teneva bloccate nel Mar Nero venti milioni di tonnellate di grano. Molto attiva in Senegal è soprattutto la Turchia, con cui durante il Business Forum di fine Settembre 2023 ha siglato cinque nuovi accordi, a conferma di un sodalizio che nell’ultimo decennio ha fatto registrare un aumento del valore dell’interscambio commerciale fra i due Paesi di oltre sedici volte. Sono state ditte e fondi turchi a costruire a Dakar l’aeroporto internazionale, il centro sportivo, il mercato e attraverso la compagnia Tika, pozzi e sistemi di depurazione della acque.

A gestire invece l’infrastruttura portuale di Dakar sono gli Emirati Arabi.

Sul finire del 2022, inoltre, il Senegal ha plastificato la sfida a distanza fra Stati Uniti e Cina. Alla visita ufficiale del Segretario del Tesoro di Washington, Janet Yellen, fece seguito di pochissimi giorni l’arrivo di funzionari governativi di Pechino, che già da tempo hanno messo le loro firme sui principali contratti di sviluppo economico senegalesi, con un occhio di riguardo sul centro-dati di raccolta informazioni digitali.

La mano lunga della Cina non si è fatta sfuggire nemmeno il piccolo Gambia e soprattutto le sue preziose riserve ittiche. Dalle coste del Gambia, sino alla Mauritania, Pechino ha installato quaranta fabbriche per la trasformazione del pescato, in farina di pesce, che poi in Cina viene data in pasto ai maiali. Fa niente se in questo modo si stia alterando l’ecosistema marino e sociale di quella porzione di Atlantico, anzi il Presidente del Gambia è così felice, che per ringraziare Xi Jinping, il 31 Ottobre 2023 ha annunciato la fine delle relazioni diplomatiche fra il suo Paese e Taiwan per motivi di “interesse nazionale.”

Il Gambia è inoltre un diretto beneficiario della espansione dell’export di attrezzature militari da parte della Turchia in Africa. Solo negli ultimissimi mesi, l’esercito gambiano si è arricchito di venti veicoli blindati di fabbricazione turca, radio ad alta frequenza, rilevatori di mine, maschere antigas e uniformi, consolidando una partnership di assistenza fra le Forze Armate dei due Paesi suggellata da un accordo del 2014. 

Non va meglio in Guinea-Bissau, ex colonia portoghese, in cui le aziende cinesi praticano un disboscamento senza precedenti, che non preoccupa le istituzioni locali, forse perché impegnate a sottoscrivere contratti per l’acquisto di navi da guerra e di elicotteri dalla Russia, come avvenuto nell’autunno del 2022.

In quella regione che si estende fra Senegal, Gambia e Guinea-Bissau, nota come Casamance imperversa il conflitto armato più duraturo di tutto il continente, che va avanti a varie fasi, fra ondate di violenza e spiragli di pace, ormai dal 1982. 

In questo territorio gli abitanti del luogo a maggioranza cristiana, esasperarono il proprio risentimento contro il Governo centrale senegalese a maggioranza musulmana, sotto la cui amministrazione si trovano, in un movimento indipendentista che sin da subito imboccò la via della lotta armata, senza mai lasciarla. 

Uno dei paradossi di questa guerra infinita è che ad alimentarla attraverso l’invio di armi sempre più sofisticate è la già citata Turchia, partner militare del Gambia che sostiene i secessionisti di Casamance e al tempo stesso partner militare anche dell’esercito del Senegal, che equipaggia ed addestra. Se, sino ad ora, dalle parti di Ankara non hanno scelta da che parte stare, difficilmente lo faranno in futuro. 

Tornando alla Guinea, questa volta l’altra, quella un tempo sotto il controllo francese, qui la Cina gioca una partita più strategica, puntando con forza la più grande riserva mondiale di ferro non sfruttata al mondo, quella di Simandou. La richiesta di ferro dalle parti di Pechino è destinata ad aumentare ancora e l’ambizione della nomenclatura del Partito Comunista è di ridurre al minimo le importazioni di questo minerale dall’Australia, oggi suo principale fornitore. La soluzione della Guinea, che grazie a questa riserva, secondo gli studi di Fitch, potrebbe aumentare la propria produzione di ferro del 570% nel 2026, sarebbe la chiusura perfetta del cerchio, con tanto di fiocco. Rosso naturalmente. 

Anche i sempre presenti emiratini coltivano interessi nel territorio, attraverso la remunerativa gestione del porto di Kamsar. 

La svendita degli ecosistemi marini e forestali è una fenomeno molto frequente nella regione del Golfo di Guinea, dove oltre al già citato caso del Gambia, la Sierra Leone ha ceduto ai cinesi uno dei suoi tratti di costa più belli, Black Johnson, tra la altre specie faunistiche, oasi anche per balene e delfini, oltre che di antilopi nel suo retroterra.

In questi oltre duecentocinquanta ettari di spiaggia e foresta pluviale, le aziende di Pechino realizzeranno un porto industriale, con impianti di gestione dei rifiuti marini e di stoccaggio del pesce.  A nulla sono servite le sollevazioni delle popolazioni locali e di organizzazioni internazionali, come a nulla sono servite anche nella confinante Liberia, per un caso molto simile. 

Qui, il Presidente George Weah, ex-calciatore del Milan, ha ceduto una gestione trentennale di un milione di ettari di foresta pluviale alla Blue Carbon Ilc, società degli Emirati Arabi, che li investirà in compensazione per i crediti di carbonio. 

Una forma di greenwashing allo stato puro, sdoganata alla Cop27 di Sharm el-Sheikh del 2022. L’accordo è stato tenuto segreto sino all’Agosto del 2023, quando una fuga di notizie proveniente da fonti governative, ne ha fatto emergere parte dei dettagli, alimentando il già denso fumo di corruzione che incombe da anni negli ambienti istituzionali della Liberia. Gli Stati Uniti, storici alleati del Paese (basti osservare le similitudini fra i due vessilli nazionali) hanno condannato ben cinque funzionari del Governo di Weah, negli ultimi tre anni, proprio per corruzione. Tuttavia l’ex calciatore, che spesso e volentieri si allontana dal suo Paese per diversi mesi, non se ne preoccupa, così come non si preoccupa delle sempre più frequenti manifestazioni di protesta dei suoi cittadini, che lamentano la carenza di beni di prima necessità e l’inflazione alle stelle.

Weah ha trovato il tempo, tuttavia, di rinnovare gli accordi con la Cina, sulle politiche per il trasporto marittimo e garantendosi degli sconti sulle tasse portuali, in caso di scalo nei porti cinesi. 

Uno dei principali motori economici dell’Africa Occidentale è la Costa d’Avorio, che durante il recente Expo di Dubai, ha fatto sapere di avere nel mirino l’obbiettivo del miliardo e mezzo di dollari di investimenti internazionali. L’Accordo di Partenariato Economico con l’Unione Europea, che esenta da dazi e quote tutte le sue esportazioni, è soltanto un mattoncino di questo progetto, in cui la parte del leone la giocano i finanziamenti cinesi, diversificati nel settore dell’alimentazione dell’acqua potabile, di progetti nel settore sanitario, nell’estensione dell’aeroporto di Fèlix(abbr.) e nel secondo terminal del porto di Abidjan.

Tuttavia, la contaminazione culturale più diffusa in Costa d’Avorio è quella russa, con intere trasmissioni televisive e radiofoniche che quotidianamente passano in rassegna la propaganda putiniana, come il caso del breve cartone animato, divenuto un fenomeno social nazionale, in cui un miliziano russo armato di mitragliatrice, a bordo di una jeep, viene avvicinato da un soldato ivoriano che gli dice qualcosa del tipo: «La Costa d’Avorio ha bisogno di te. Giù con l’imperialismo, giù con la Francia!»

Sintomo di un allarme securitario, amplificatosi nel Giugno del 2020, quando nella località di Kafolo al confine con il Burkina Faso, si sono intensificati gli assedi dei terroristi islamici. Negli ultimi tre, quattro anni, l’attivismo dei gruppi jihadisti si è esteso dal suo epicentro originario del Sahel, andando ad interessare anche le zone settentrionali dei Paesi costieri dell’Africa Occidentale e generando centinaia di migliaia di rifugiati. 

La penetrazione terroristica, in molti di questi casi, si associa a preesistenti commandi di criminali e briganti, trasformando intere aree in zone di approvvigionamento e di organizzazione logistica, in cui praticare traffici illeciti di armi e droga, come avviene ad esempio nella località di Cinkassé, in Togo.

Per far fronte alle minacce, la leadership politica togolese, che potremmo definire senza essere smentiti una democrazia dinastica e autoritaria, lo scorso anno, ha incaricato il suo Stato Maggiore, di prendere in consegna dalla Russia tre elicotteri da combattimento. 

Una vicinanza quella di Putin, che già si era osservata ai tempi Covid, quando il Togo fu uno dei Paesi che si affidò alla somministrazione del vaccino Sputnik V. 

L’attività jihadista si è manifestata anche in Benin, dove nel 2019 vennero rapiti due turisti francesi nel parco del Pendjari. 

Proprio dal Benin, nell’estate del 2022, il Presidente francese Macron aveva accusato la Russia di essere “una delle ultime potenze imperiale coloniali” rimaste al mondo. Nonostante i segnali autoritari della guida del suo ricco Presidente, la crescita economica del Paese è una delle più significative dell’area, sostenuta dalle esportazioni di cotone e dagli investimenti in opere infrastrutturali, che rendono questa piccola lingua di terra uno snodo vitale per gli scambi commerciali fra le comunità del Golfo di Guinea. 

Il Benin, insieme ai già citati Togo e Costa d’Avorio, oltre a Burkina Faso e Ghana è coinvolto nella Accra Initiative, un organismo orientato a sviluppare strategie coordinate nella lotta al terrorismo islamico.

La stabilità politica manifestata in elezioni regolari tenutesi negli ultimi trent’anni, rende il Ghana un dei Paesi più democratici del continente africano, virtù che tuttavia non le ha permesso di evitare una congiuntura di difficoltà economiche, che ha indotto il Governo ad annunciare la sospensione dei pagamenti sul suo debito estero.

Ad accogliere questa richiesta è stata la Cina, lasciando in forte imbarazzo il Fondo Monetario Internazionale. 

Non è tuttavia stato sufficiente ad impedire il default del Paese, annunciato nel Dicembre 2022 e che ha reso il Ghana il secondo governo africano a dichiarare bancarotta nel post-Covid, dopo quello dello Zambia. Ai due si è poi aggiunto quello etiope, alla fine del 2023. Per tutti e tre gli Stati, la speranza sarà riposta nei percorsi di ristrutturazione del Common Framework adottato dal G20 nel 2021. 

L’Università del Ghana aveva già preparato il terreno al sodalizio con Pechino attraverso la diplomazia culturale, impegnandosi a potenziare l’insegnamento della lingua cinese nel Paese. 

Anche la Turchia è qui impegnata in progetti di sviluppo e affiderà a proprie imprese la costruzione del terzo terminal dell’aeroporto internazionale di Accra. 

Fenomeno trainante di molte economie della regione è il settore degli idrocarburi, che il Ghana ha implementato abbastanza recentemente con la scoperta dei principali giacimenti avvenuta soltanto nel 2007 e l’affidamento del sito alla compagnia norvegese Aker Energy. Le ambizioni di diventare esportatori di oro nero di rilievo, sono aumentate anche in Costa d’Avorio con la scoperta da parte di Eni del giacimento di Baleine, avvenuta nel 2021. Il Benin infine è parte in causa del più importante progetto in questo senso, l’oleodotto di oltre due mila chilometri che collegherà la sua area portuale al sito estrattivo di Agadem, nel cuore del Sahel. 

Un progetto a cura della China National Petroleum Company, che permetterà di quintuplicare le esportazioni di barili. 

A dominare il mercato del petrolio dell’Africa è però la Nigeria, il Paese più popolato in assoluto dell’intero continente e secondo le proiezioni demografiche, nei prossimi decenni, conterà da solo più abitanti di tutta l’Unione Europea messa insieme o degli Stati Uniti d’America. 

In Nigeria operano 135 società indiane che hanno investito complessivamente oltre venti miliardi di dollari, soprattutto nell’educazione e nella sanità. Sempre dall’India arriveranno nuovi investimenti miliardari nel siderurgico e nel petrolchimico. Non è un caso che il Presidente nigeriano Tinubu sia stato invitato come ospite al G20 di Nuova Delhi.  Un strano filo lega invece la Nigeria alla Corea del Nord. Già in piena pandemia i due Paesi avevano deciso di rafforzare la cooperazione in materia sanitaria. A fine 2022, poi, un rapporto Onu, ha raccontato che Lagos avrebbe acquistato armi, proprio dal regime di Kim Jong-un, contravvenendo alle sanzioni. 

Sin dalla sua indipendenza dalla Corona Britannica, la superficie nigeriana è imbrigliata in una trama di malgoverno, corruzione, iperburocrazia, iniquità, ingiustizie, superstizioni, in cui si intrecciano le varietà di lingue, etnie e religioni che la compongono. Una trama così intricata che non possiamo dipanare in poche righe. Ci basta citare il dato di World Poverty Clock secondo cui quasi metà della sua popolazione vive in condizioni di povertà estrema, con il paradosso che l’area del Paese maggiormente interessata da questa situazione di fragilità è proprio quella più ricca di petrolio, ovvero la regione del Delta del fiume Niger. La mancanza di un quadro normativo adeguato e la dilagante corruzione delle classi politiche locali, hanno fatto sì che le attività di esplorazione ed estrazione di oro-nero, anziché generare benefici economici per le comunità locali, provocassero soltanto danni ambientali e igienici irreversibili.

Il quadro della Nigeria è ulteriormente aggravato dalle dinamiche securitarie, con le incessanti rivendicazioni separatiste nel Sud del Paese e le violenze indiscriminate dei terroristi del gruppo Boko Haram, nel Nord-Est. 

Le scorribande efferate Boko Haram sono una costante anche nel confinante Camerun, impegnato anche, nella sua porzione più Occidentale, con un altro fronte aperto dal 2017, dagli indipendentisti anglofoni dell’Ambazonia.

In questo scenario di instabilità, il Governo camerunense, ha tuttavia perso il sostegno degli Stati Uniti, che nel 2020 hanno rimosso il Paese dal loro programma di partenariato per la cooperazione in materia di sicurezza, a causa delle documentate frequenti violazioni di diritti umani. 

A garantire la fornitura militare è subentrata la Russia, con cui il 12 Aprile 2022 è stata siglata una intesa in tal senso. Un modo anche per Putin di mettere al sicuro i propri appetiti economici in Camerun, come gli investimenti di Gazprom e le mire di Lukoil al largo di Kribi. Due imprese cinesi invece, si stanno occupando della costruzione di una linea ferroviaria per collegare la costa camerunense a un giacimento di ferro al confine con la Repubblica del Congo. Una operazione che ha fatto andare su tutte le furie l’amministrazione dell’Australia, cui già erano state accordate le licenze per questa infrastruttura. Una conferma dell’attivismo di Pechino per limitare le potenzialità l’Australia, che già abbiamo osservato qualche rigo più in su.

Chiudiamo questa lunga, ma speriamo piacevole carrellata, con un piccolo Paese molto particolare e poco conosciuto, che, per ragioni facili da comprendere, non è membro dell’Ecowass, ma ne può essere geograficamente (e soltanto geograficamente) assimilato. Composta da due isole (Bioko e Annobon) e da un’area interna rigogliosa di foresta pluviale, la Guinea Equatoriale è un mondo un po’ a parte.

Qui governa ininterrottamente dal 1979 Teodoro Obiang, il Capo di Stato in carica da più tempo al mondo, secondo soltanto al sultano del Brunei.

Obiang e la sua famiglia (il figlio è il Vice-Presidente del Paese) sono detentori di un potere assoluto su tutto il territorio nazionale. Dispongono degli introiti delle concessioni petrolifere attraverso la GePetrol, di cui sono essi stessi amministratori, rinchiudono oppositori e personaggi scomodi nelle galere di Black Beach, di cui in gioventù proprio Teodoro Obiang fu Direttore, ruolo oggi comunque ricoperto da un altro dei suoi figli. Consentono il deposito di rifiuti tossici e scorie radioattive nell’isola di Annobon, a tutto danno della popolazione locale.

Recentemente hanno anche deciso di spostare l’attuale capitale Malabo, situata sull’isola di Bioko, nell’area interna ed hanno individuato un luogo nel cuore della foresta, dove presto sorgerà dal nulla Ciudad de La Paz, un centro amministrativo iper-moderno, della cui costruzione si occuperanno aziende cinesi, brasiliane e nord-coreane. 

L’Africa Occidentale non è esente, dagli impatti del cambiamento climatico, manifestatosi attraverso innalzamenti del livello del mare ed erosione della costa. Fenomeni che generano conflitti interni agli stessi territori, fra contadini, pastori e pescatori in competizione fra loro per le risorse naturali, fenomeni che alimentano la mobilità migratoria sia interna alla regione, sia indirizzata verso le rotte nordafricane dirette in Europa. 

Attività migratorie a cui contribuiscono uno dei tasso di natalità più alti al mondo e l’attività di malfattori e organizzazioni locali, che con il solo scopo di arricchirsi, vendono ai loro conterranei disperati sogni, spesso irrealizzabili e che trovano spesso il loro epilogo in drammi durante le traversate nel deserto o nel cuore del Mar Mediterraneo.

4. Corno d’Africa e dintorni, dal baratro al miracolo economico

In questo focus, si circoscriverà l’Africa Orientale basandosi sia su riferimenti geografici che politici. Geograficamente, alla regione orientale del continente possono essere ricondotti il Corno d’Africa e l’area dei Grandi Laghi. Sotto l’aspetto politico, si può circoscrivere l’analisi ai blocchi di Paesi riuniti negli organismi intergovernativi dell’Igad e dell’Eac, utilizzando lo stesso approccio con cui, attraverso il perimetro dell’Ecowass, si sono passati in rassegna i Paesi dell’Africa Occidentale. 

La regione oggetto di questo articolo, presenta caratteristiche disomogenee, già abbondantemente riscontrabili dallo spettro demografico che la contraddistingue, se si considera come oltre il 70% dell’intera popolazione distribuita su nove Paesi differenti, sia concentrata prevalentemente in tre di questi, ovvero Etiopia, Kenya e Tanzania. 

Un tratto distintivo che accomuna i Paesi di questa regione è l’andamento di crescita economica stabile registrato nell’ultimo decennio, con tassi di annui molto elevati nel caso delle economie più grandi. 

Questo poderoso sviluppo è stato favorito dall’integrazione nel commercio internazionale e da un aumento vertiginoso degli investimenti esteri, da parte di tutti quegli attori che in quest’area avevano individuato una potenzialità.

Il filo della storia recente del Corno d’Africa, in particolare, ci riconduce a un passato di dominazione italiana, che nei territori delle attuali Etiopia, Eritrea e Somalia, per diversi decenni, agì al pari di tutte le altre potenze coloniali dell’epoca.

Una influenza macchiata di sangue, omertà e corruzione, che in alcune aree continuò a perdurare anche dopo il tramonto della stagione fascista e la soppressione dei Governatorati a seguito del Trattato di Parigi del 1947. 

È il caso della Somalia, ad esempio, negli Anni Novanta al centro di inchieste sullo smaltimento di rifiuti tossici provenienti dall’Italia e che, nel Marzo 1994, furono probabilmente il motivo dell’assassinio alla giornalista Ilaria Alpi, forse vicina ad unire i puntini sulla vicenda.

Ai tempi dell’attento a Ilaria, su cui non si è mai avuta giustizia, la Somalia era nel pieno di una guerra civile scoppiata a seguito della caduta del regime di Siad Barre.

A distanza di ormai trent’anni, la Somalia continua ad essere in uno stato di frammentazione e guerriglia permanente, che ingaggia a rotazione movimenti separatisti, forze governative, guerriglieri jihadisti di Al-Shabaab e bande armate private. 

La Somalia è diventata un centro nevralgico per la missione turca in Africa,  in cui oltre a fornire costanti aiuti umanitari, supporto medico e formazione universitaria, nel 2017 ha insediato la base militare di Camp Turksom, vero e proprio centro di addestramento per le milizie regolari somale. L’espansione dei fondamentalisti islamici ha inoltre riattivato l’impegno militare statunitense nel territorio. 

Intorno alla Somalia si staglia un intrigo diplomatico che investe la Cina, sostenitrice dell’amministrazione federale di Mogadiscio, in quanto avverte come una minaccia ai suoi interessi nell’area, le solide relazioni fra Taiwan e la Repubblica autoproclamata del Somaliland, due entità governative di fatto non riconosciute.

L’Eritrea, prima colonia del Regno d’Italia, occupata alla fine dell’Ottocento, tanto da esser nota ai tempi con l’appellativo di Colonia Primogenita, oggi è un regime dispotico isolazionista, con lo stesso Capo di Stato in carica dal 1993, che ha bandito tutti i partiti politici ad eccezione del suo, ha imposto la leva obbligatoria a tempo indeterminato, ha sviluppato un sistema di sorveglianza e spionaggio pervasivo, che punisce i dissidenti deportandoli in celle sotterranee o container sigillati. 

La capitale Asmara, nota anche come “piccola Roma” oggi è un patrimonio Unesco per la sua architettura modernista, ma rimane pur sempre la capitale di un Paese che insieme a Corea del Nord e Turkmenistan è ultimo al mondo per libertà di stampa. 

Proprio dal regime di Kim Jong-un, ha ricevuto attrezzature per la diffusione di trasmissioni radio. Loro sì che se ne intendono di tecniche per il lavaggio del cervello ai propri cittadini.

Nonostante la sua interessante posizione geografica, l’Eritrea resta una delle nazioni più povere e sottosviluppate del pianeta. Se soltanto si pensa al fatto che l’unica tratta ferroviaria in funzione nel Paese è quella che collega la capitale alla città portuale di Massaua, costruita all’inizio del Novecento dal Governo italiano, si comprende meglio quanto affermato e quanto la dittatura di Isais Afwerki abbia compromesso la storia di questa terra. L’Eritrea è stato uno dei cinque Paesi che, in sede Onu, votò a favore della Russia, non condannando l’invasione dell’Ucraina e l’esclusione di Mosca dal Consiglio per i diritti umani. Per la cronaca, gli altri tre furono Bielorussia, Siria e Corea del Nord. 

La Russia e compagni. Il nuovo scacchiere mondiale – La Redazione

Afwerki e Putin hanno rinnovato il proprio sodalizio in un incontro tenutosi a Mosca, nella tarda primavera del 2023, in cui si è discusso di un progetto esplorativo per lo sfruttamento del porto di Massaua e di investimenti nei siti minerari di Bisha e Koka.

Ma il vero debole, il dittatore eritreo ce l’ha per la Cina. È lì che in gioventù svolse il suo addestramento militare ed è a Pechino che ha spalancato le porte del suo Paese, con l’adesione alla Belt and Road, in barba alle sanzioni economiche imposte dagli Stati Uniti per il coinvolgimento nel conflitto del Tigray, uno dei risvolti della guerra intrattenuta con l’Etiopia nel 1998 e mai veramente archiviata. 

L’Etiopia, erede del più grande impero d’Africa e ai tempi del dominio italiano nota come Abissinia, oggi è nel pieno di una crisi interna dovuta all’avanzata militare dei ribelli di Tigray e che il Governo di Addis Abeba nel 2022 ha iniziato a respingere, con il supporto di droni forniti dalla Turchia. 

L’esistenziale dilemma della ricerca di uno sbocco sul mare, che in passato ha portato l’Etiopia a muovere guerra all’Eritrea, sembra aver trovato una soluzione nel memorandum d’intesa siglato il 1 Gennaio 2024 con l’autoproclamata repubblica del Somaliland, la quale fornirà libero accesso ai suoi porti sul Mar Rosso, in cambio del riconoscimento ufficiale da parte di Addis Abeba. Inutile dire che questo accordo ha subito scatenato la reazione furiosa della Somalia, che lo considera una violazione della propria sovranità. Anche l’Unione Europea ha condannato il patto, attraverso una nota ufficiale diramate nelle ore successive alla sua diffusione.

Tuttavia, il potenziale economico dell’Etiopia, continua ad attrarre gli investimenti dei principali attori impegnati nella regione. 

Non va dimenticato che il Presidente del Consiglio italiano Giorgia Meloni, qui si era recato in viaggio di Stato, nella primavera del 2023 e, durante la Conferenza Stampa di inizio 2024, ha definito «una delle emozioni più belle dell’ultimo anno» la visita alla scuola italiana di Addis Abeba.

Gli Emirati Arabi, intermediari nelle trattative di pace con l’Eritrea, hanno finanziato un oleodotto e una ferrovia fra i due Paesi. 

L’azienda automobilistica russa Lada farà dell’Etiopia il centro di produzione di veicoli più grande dell’intera Africa. Il Governo etiope, nel corso dell’estate, ha inoltre definito un accordo per lo sviluppo dell’energia nucleare con l’azienda statale russa Rosatum, a testimonianza di una partnership ben consolidata con Mosca, già sviluppata nei settori del tessile e della produzione agricola. 

Nella capitale etiope fu eretta, nel 1984, la prima statua gigante made in Corea del Nord posizionata in Africa, per omaggiare i soldati impegnati nella guerra dell’Ogaden, contro la Somalia.

Risulta molto più raffinata l’influenza di Pechino, invece, che lo scorso mese ha deciso di farsi notare per aver condonato all’Etiopia 4,5 miliardi di dollari di debito, subito dopo la firma di un Partenariato di cooperazione strategica, mettendo così pressione ai creditori occidentali. Nonostante questo intervento, l’Etiopia non è riuscita ad evitare la bancarotta di Stato, dichiarata formalmente a fine 2023, aggiungendosi a Zambia e Ghana, nella lista dei Paesi africani falliti nel periodo post-pandemico.

Recentemente il Ministro degli Esteri cinese è stato l’ospite d’onore dell’inaugurazione ad Addis Abeba dell’Africa CdC, centro di sanità pubblica d’avanguardia interamente finanziato dal Governo di Xi Jinping. 

Un dono cinese è il Palazzo, sede dell’Unione Africana che sorge proprio nella capitale etiope e portano la firma cinese le principali opere infrastrutturali del Paese, ovvero l’aeroporto, le stazioni ferroviarie e la Grande Diga della Rinascita, al centro di un scontro diplomatico con l’Egitto. 

Proprio come l’Egitto, l’Etiopia ha visto accogliere la propria richiesta di adesione al gruppo Brics e, dal primo gennaio 2024 ne è diventata membro effettivo. Il nostro giornale lo aveva anticipato nel corso dell’estate. Il blocco Anti-Occidente si incontra – La Redazione

Il protagonismo cinese in questo territorio si materializza anche nelle sovvenzioni per la realizzazione di un tracciato stradale transnazionale che unirà l’Etiopia a Gibuti, un piccolo fazzoletto di terra e deserto, incastrato fra Eritrea, Etiopia e Somalia, ma soprattutto affacciato sullo Stretto di Bab El Mandeb, che separa la penisola arabica dal Corno d’Africa e attraverso il quale transita un terzo del traffico marittimo mondiale.  

Gibuti è un microcosmo popolato dagli eserciti di mezzo mondo e in cui la Cina ha piantato l’osso sacro della sua presenza in Africa, piazzandoci la sua unica base militare estera.

Un po’ di Italia, in un certo senso, si respira anche in Kenya, per il centro spaziale di Malindi ideato nel 1966 dal professor Luigi Broglio, ancora oggi una eccellenza nel settore e base operativa in funzione dell’Agenzia Spaziale Italiana. 

Il Kenya è sicuramente fra i Paesi africani più attivi nelle attività aerospaziali e il 17 Aprile 2023 ha completato con successo il lancio di un satellite, che fornirà dati per il supporto decisionale alla sicurezza alimentare e al monitoraggio ambientale.

Con la recente firma di cinque memorandum che comprendono la pesca, le derrate agricole, le tecnologie informatiche e addirittura l’apertura di una fabbrica di automobili nella città di Mombasa, il Kenya si conferma il primo partner commerciale, di tutto il continente, dell’Iran. Sempre da Mombasa, nel 2024, è stata posata la prima pietra del Mombasa Gateway Bridge, ovvero quello che sarà il ponte più lungo di tutta l’Africa e collegherà l’isola omonima alla costa meridionale del Paese, rimpiazzando un servizio di traghetti, attivo da oltre ottant’anni. A finanziare l’ambizioso progetto è stato il Giappone, da tempo impegnato in collaborazioni con la prima economia della regione.  

Il Governo di Nairobi è stato anche il primo africano a ribellarsi contro la “trappola del debito” cinese, cogliendo come pretesto il mancato completamento di un progetto ferroviario avviato nel 2014 e mai concluso. 

Non è noto sapere se a causa di questa levata di scudi o per altro, nel Maggio 2023, sono venuti a galla degli attacchi hacker provenienti da Pechino nei confronti proprio di istituzioni e ministeri kenioti, entrando in possesso di dati e documenti riservati.

Per incrementare i flussi turistici, il Governo del Kenya ha messo a punto una forma di liberalizzazione dei visti, a partire del 2024, sintomo di un desiderio di aprirsi e raccontarsi al mondo.

Uscendo fuori dal perimetro del Corno d’Africa e delle influenze italiane, il Paese più settentrionale dell’Africa Orientale può essere considerato il Sud Sudan, che detiene anche il titolo di Stato più giovane al mondo, in quanto divenuto indipendente soltanto nel 2011. 

La scissione dal Sudan ha ridisegnato la mappa dei giacimenti petroliferi, in quanto i tre quarti dei siti di estrazione una volta presenti nell’intero territorio, sono ora sotto la sovranità esclusiva del neonato Stato, con capitale a Juba. Un riassetto che ha portato a ripensare la politica cinese, primo importatore di oro-nero, subito intervenuta con 8 miliardi di investimenti per migliorare il tessuto sociale del Paese e nel completare, con ulteriori finanziamenti, la colossale rete di oleodotti di collegamento fra il Sud Sudan e l’Oceano Indiano, passando per l’Etiopia, conosciuta con l’acronimo Lapsset.

Un progetto che, quando ultimato, offrirà al Sud-Sudan uno sbocco sul mare indipendente, ridimensionando la centralità del molo di Port Sudan, nei confini dell’altro Sudan, nonché centro nevralgico delle forze navali russe. 

Forse, anche per questo, il Cremlino non sta restando alla finestra e, attraverso la holding Safinat, ha già aperto i cantieri per una raffineria di petrolio da erigere in Sud Sudan.  

Uno dei Paesi più attivi nell’espansione delle politiche energetiche è senza dubbio l’Uganda. 

Il Governo ha predisposto un piano per raggiungere nel 2025 un ritmo medio di 230 mila di barili di petrolio al giorno, da immettere nel commercio internazionale attraverso l’Oceano Indiano, grazie all’oleodotto Eacop, finanziato dai gruppi Total e China National Offshor Oli Corporation, in grado di collegare i giacimenti del Lago Albert al porto di Tanga, in Tanzania. Anche l’Iran è interessato alla costruzione di una raffineria di petrolio in Uganda.

L’ambizione ugandese non si limita al petrolio, ma investe soprattutto il comparto del nucleare. A nord della capitale Kampala, infatti, nei prossimi anni sorgerà il secondo stabilimento più grande di tutto il continente dopo quello sudafricano di Koeberg. 

Partner del progetto è la China National Nuclear Corporation. 

Il braccio della Cina in Uganda si allunga anche nel settore minerario, in quanto sarà la pechinese Wagagai, ad occuparsi delle attività di estrazione e raffinazione dell’enorme deposito aurifero, la cui scoperta è stata annunciata soltanto nel 2022. 

A fare le scarpe ai cinesi, ci sono riusciti i turchi, che hanno soffiato l’appalto per la costruzione di una strada ferrata di quasi trecento chilometri. Qualcosa di simile si era già verificata lo scorso anno per i tentennamenti cinesi nella costruzione di sette centrali idroelettriche, a dimostrazione che il Presidente ugandese non guarda in faccia nessuno quando si tratta di fare affari. Un po’ come il suo Ministro degli Esteri, che in visita a Bruxelles nell’Aprile 2021 fu protagonista di un episodio di imbarazzo, quando saltò la stretta di mano alla Presidente Ursula Von der Leyen, una sorta di dejavù del “sofagate” di Ankara. Non dovrebbe stupire tuttavia se collocato in una sottocultura sui diritti civili, che nel Maggio 2023 ha prodotto l’approvazione in Parlamento di un disegno di legge, che prevede la pena di morte per gli atti omosessuali. 

A commentare positivamente questa legge è stato il Presidente iraniano Raisi, durante la sua visita estiva, scagliandosi contro l’Occidente, accusato di promuovere l’omosessualità e rilanciando una cooperazione con il Governo ugandese in questo campo.

Chissà cosa ne penserà Putin di questo provvedimento, che in quanto a leggi anti-gay se ne intende. Sicuramente sarà rimasto entusiasta per le dichiarazioni del figlio del Presidente ugandese, intenzionato a candidarsi alle presidenziali del 2026, il quale si è  detto disponibile ad inviare militari ugandesi in Ucraina, se soltanto Mosca lo chiedesse.

Come una propaggine della superficie meridionale dell’Uganda, si susseguono i territori del Ruanda e del Burundi.

Il Ruanda, recentemente alla ribalta delle cronache per l’accordo sui richiedenti asilo con la Gran Bretagna, è ancora segnato dalle conseguenze di uno fra i più drammatici genocidi della storia dell’umanità, evento strumentalizzato spesso dal Presidente turco Erdogan per attaccare la Francia e respingere le accuse di violazione dei diritti umani. 

Qui la Turchia è particolarmente attiva, soprattutto come erogatrice di servizi educativi e formativi, mettendo a disposizione borse di studio e somministrando corsi di lingua turca. 

Nel 2018 il Governo ruandese aveva sottoscritto protocolli d’intesa anche con la Cina, culminati nello sviluppo del nuovo aeroporto di Burgesera e nella fornitura di strumentazioni militari fra cui missili e veicoli a propulsione atomica. Anche il Ruanda, ad inizio 2023 ha beneficiato di una riduzione del suo debito nei confronti di Pechino, come altri Paesi della regione. 

Proficue sono le relazioni che la Cina intrattiene con il Burundi, al punto da riceverne in visita ufficiale il Presidente durante la cerimonia di apertura dei Giochi Universitari, nel cuore dell’estate. La Cina è «un amico di tutte le stagioni» aveva dichiarato nell’occasione il Presidente del Burundi. 

Ma, il Paese in cui la Cina ha stanziato più fondi è senza dubbio la Tanzania, con investimenti sull’aeroporto di Zanzibar e i porti di Bagayomo e Dar-es-salaam, affacciati sull’Oceano Indiano. Proprio quest’ultimo è stato oggetto di un accordo multimilionario con una società di Dubai, per la gestione in esclusiva dei due terzi dell’infrastruttura, provocando l’irritazione di gran parte dell’opinione pubblica, già indignata da una vicenda del 2022, quando una famiglia reale emiratina aveva sfrattato dalle loro terre una comunità di settantamila Masai, per realizzarvi una riserva di caccia di lusso, naturalmente con l’assenso del Governo tanzaniano, motivato dall’incentivare i flussi turistici provenienti da Dubai. La fetta di turisti più massiccia del Paese, in realtà, proviene dalla Russia e non a caso negli ultimi mesi, la Tanzania ha rafforzato gli Accordi bilaterali sui servizi aerei con Mosca. L’interesse russo nel territorio va, tuttavia, oltre il comparto turistico ed è concentrato nella costruzione di una serie di fabbriche di fertilizzanti, con l’ambizione di farne un polo d’avanguardia per l’intero continente. 

La Tanzania ha un ruolo fondamentale nell’agenda africana di Erdogan, già dai tempi della visita ufficiale del 2017, quando vennero siglati dieci accordi di cooperazione fra i due Paesi, che hanno portato al risultato di un interscambio commerciale di almeno 250 milioni di dollari, nel solo 2020.

Ditte turche sono le aggiudicatrici degli appalti più onerosi, come la maxi-tratta ferroviaria da tre miliardi di dollari, mentre la Fondazione Maarif gestisce istituti scolastici per tutte le fasce d’età, dagli asili alle scuole superiori.  

Anche gli ingegneri militari della Nord Corea, invece, sono di casa in Tanzania, impegnati in programmi di sviluppo della flotta aerea del Paese. 

Solcando lo specchio di mare più vicino alla regione della capitale tanzaniana, raggiungiamo l’isola di Zanzibar, il cui nome di origina persiana è soltanto la prima e più evidente traccia del suo legame storico con l’Iran.

5. Africa Orientale, fra spiagge da sogno e kalashinkov

Dall’isola Zanzibar proseguiamo il nostro viaggio verso il mare aperto.

Spiagge da sogno, acque cristalline, barriere coralline, alberghi a cinque stelle e cocktail fino a notte fonda. Da qui iniziamo, portando lo sguardo  verso l’Oceano Indiano che bagna le coste dell’Africa Orientale. 

Per completezza, va precisato che, nello stesso specchio di mare, si stagliano altri isolotti,  che seppur geograficamente assimilabili al continente africano, sono a tutti gli effetti dei dipartimenti amministrativi francesi o britannici.

Le Seychelles, le Mauritius, le Comore e Madagascar sono alcune delle mete turistiche più ambite in assoluto. Ma noi, come ormai nostra consuetudine, cercheremo adesso di osservarle da una diversa prospettiva. 

L’arcipelago delle Seychelles, ad esempio, è da tempo teatro di una intensa competizione diplomatica e commerciale tra India e Cina, le quali, con il pretesto di offrire supporto militare nella lotta alla pirateria, cercano una base marittima fra l’Oceano Indiano e l’Africa Orientale e guardano con interesse allo sfruttamento della Zona Economica Esclusiva seychellese, estesa per un milione e mezzo di chilometri quadrati e ricca di risorse ittiche e minerarie. In una delle isole delle Seychelles, tra l’altro, a Mahé, gli Stati Uniti hanno una base aeronautica, attiva nelle operazioni contro al-Qaida e al-Shabab, nel Corno d’Africa. 

Le Seychelles condividono, poi, con lo Stato delle Mauritius, la felice corona di Paese africano con il più alto punteggio nella graduatoria mondiale dell’Indice di Sviluppo Umano, un indicatore che compara i dati riguardanti il benessere economico, la qualità della vita, i livelli di istruzione, la speranza di vita ed altri parametri sociali. 

Le Mauritius lo scorso anno hanno celebrato in pompa magna il cinquantesimo anniversario di relazioni con la Cina, suggellando l’amicizia con un accordo bilaterale di scambio, primo nel suo genere che Pechino ha stipulato con uno Stato africano. 

Talmente penetrante è l’influenza della Cina nel quadrante africano dell’Oceano Indiano, che il Presidente delle Comore, durante un incontro bilaterale con il premier giapponese di Maggio 2023, tenutosi a margine del G7 di Hiroshima, nel ringraziare il suo interlocutore, anziché nominare il Giappone, ha accidentalmente detto “Cina.”

Una gaffe che si potrebbe definire imbarazzante o simpatica, a seconda del punto di vista di chi la analizza. Parlando di Comore, torna protagonista il Presidente turco Erdogan, che ad Ottobre 2023 ne ha ricevuto i suoi alti vertici ad Istanbul, nella cornice del Forum economico e commerciale Turchia-Africa. 

Ma l’isola africana che viene per prima in mente a tutti noi e che ha dato il titolo ad uno dei film di animazione più di successo dell’ultimo decennio, è senza dubbio, quella di Madagascar. 

Mettendo un attimo da parte le spassose avventure del gruppetto composto da un leone, una giraffa, una zebra e un ippopotamo o, per gli amanti dello spin-off, dei pinguini, Madagascar è un isola su cui il riflesso della Russia opacizza i meccanismi democratici, in maniera dirompente. L’attuale Presidente del Paese, è un uomo prescelto a suo tempo da Putin e dal recentemente defunto Prigozhin.

L’ingerenza russa nelle elezioni dell’isola si articolò in campagne di disinformazione, pagamento di tangenti, reclutamento di figuranti durante i comizi del proprio candidato, occupazione massiccia di spazi pubblicitari e televisivi.

In cambio, Putin si accontentata di poco: eterna fedeltà, concessioni sull’estrazione di cromo, diritti sulla lavorazione della vaniglia (di cui Madagascar è il primo produttore mondiale) e progressivo allontanamento di tutte le aziende occidentali dal territorio.

Nell’autunno del 2022 a fare le spese della viscerale dipendenza da Mosca del Capo di Stato del Madagascar, è stato il Ministro degli Esteri del Paese, il quale dopo aver votato in sede Onu a favore di una risoluzione che condannava l’annessione illegale di alcune regioni ucraine alla Russia, si è ritrovato sulla scrivania un decreto presidenziale che lo sollevava dal suo incarico. 

«You’re fired!» avrebbe detto Donald Trump, anche se il malcapitato se lo sarà sentito gridare in lingua malgascia…o forse direttamente in russo?

A Novembre 2023, si sono tenute le nuove elezioni, che però i partiti di opposizione hanno dichiarato pubblicamente di boicottare, in quanto da loro ritenute una “una frode, una presa in giro per il Madagascar.” 

Per la cronaca, ha rivinto l’attuale Presidente. 

Nel frattempo, la Cina, che non si scandalizza per tutto questo teatrino, ha già registrato nel Paese almeno ottocento aziende attive in vari settori e si è attirata le contestazioni dei pescatori per le sue condotte.

Ma è sul primo Paese che incontra, tornando sulla terraferma, che l’influenza cinese si percepisce maggiormente.

È il caso del Mozambico, dove uno dei principali viali della capitale Maputo porta il nome di Kim Il-Sung, nonno dell’attuare dittatore di Pyongyang. 

In Mozambico, le maestranze di Pechino hanno realizzato uno fra le opere più avanzate al mondo dal punto di vista ingegneristico, ovvero il ponte sospeso che collega la baia di Maputo al sobborgo di Katemba. Una infrastruttura da quasi ottocento milioni di dollari, inaugurata nel 2018, che rappresenta un unicum per l’intero continente con effetti prodigiosi per la mobilità dell’intera costa meridionale della regione. 

La lenta penetrazione cinese in Mozambico, tuttavia, già era avviata nel 1999 con la donazione di un nuovo palazzo, in cui tutt’ora ha sede il Parlamento. 

La cooperazione bilaterale con il Dragone è estesa a una moltitudine di settori di estrema rilevanza, con Pechino che in questi anni, ha trasformato il Mozambico, dotandolo di uno stadio di calcio avanguardistico, nuove flotte di autobus moderni e rifornimenti massicci di derrate alimentari. 

Nell’ultimo periodo, l’impegno cinese in questo territorio riguarda, tuttavia, anche il campo della sicurezza, imbottendo di armi gli arsenali governativi contro i jihadisti di Capo Delgado. In questa area del Paese, infatti, imperversano le razzie del gruppo terrorista Sunna Wa Jama, lo stesso che il 6 Settembre 2022 ha ucciso in uno dei suoi attentati la missionaria italiana, suor Maria De Coppi. 

Anche la Turchia partecipa al sostentamento del settore della difesa del Mozambico, come suggellato da un recente accordo di cooperazione fra i due Paesi. 

E non può mancare il supporto militare della Russia, che già ai tempi dell’Unione Sovietica somministrava armamenti e addestramento al Mozambico, come del resto è ben rappresentato dalla bandiera del Paese africano, che nel triangolo rosso sul lato del pennone, esibisce una falce e un kalashinkov…per la serie: falce e martellolasciamola ai romantici!

La Russia è riuscita a sfruttare la recente minaccia terroristica per rilanciare la partnership economica e diplomatica con il Mozambico, un intento riuscito se si considera il +20% di interscambi commerciali registrato nel 2022, oltre all’episodio che ha visto le autorità doganali mozambicane ritirare un ordine di servizio emesso su richiesta statunitense per estromettere dai propri porti sette compagnie del Cremlino. 

La compagnia russa Rosneft, ha poi recentemente ottenuto mandati esplorativi speciali per la scoperta di nuovi giacimenti petroliferi, che le permetteranno di ampliare la propria attività, già proficua nei siti di Angoche e nel delta del fiume Zambesi. 

Non soltanto cinesi e russi guardano alle preziose risorse del Mozambico, che tra le altre cose, è soprattutto il terzo paese africano per ricchezza di gas naturale. 

Tutte le principali compagni mondiali sono concentrate in questo Stato, dagli americani di ExxonMobil, ai francesi di Total Energies e naturalmente l’italiana Eni. 

Va inquadrato in questo contesto, il viaggio di Sergio Mattarella proprio in Mozambico, del Luglio 2022, in un momento storico in cui si va ridisegnando la mappa delle forniture energetiche globali e la proiezione degli interessi di politica estera dei Paesi occidentali si snoda in realtà come queste. 

Subito dopo la visita in Mozambico, Mattarella completò la sua missione africana raggiungendo lo Zambia, accolto dal Presidente Hichilema, il quale per ricambiare il favore si è recato a Roma, poche settimane fa, nel Novembre 2023.

Un Paese che detiene il triste primato di essere stato uno dei primi Governi a dichiarare default, nel post-Covid, a causa del crollo dell’export di rame, risorsa da cui dipende l’ottanta percento della produzione economica nazionale. 

L’attività di estrazione del rame è talmente radicata nella cultura locale, che l’intero territorio è interessato dalla presenza di numerosi siti di scavo, aperti da gruppi di minatori improvvisati in cerca di fortuna, che si ritrovano spesso protagonisti di spiacevoli incidenti, di cui l’episodio verificatosi ad inizio Dicembre 2023, con un crollo di un tunnel a nord della capitale, che ha lasciato intrappolati sotto le macerie almeno trenta operai, è soltanto il più recente.

L’accordo sulla ristrutturazione del debito zambiano è stato formalizzato soltanto ad Ottobre 2023, dopo un via libera arrivato dalla Cina, di gran lunga il suo creditore principale. Il controllo dei profitti sull’economia dello Zambia da parte di Pechino è pressoché totale, con un controllo che rasenta il 70% dell’industria edilizia e l’85% delle principali miniere di rame, oltre alla quota di maggioranza dell’unica miniera di nichel, attiva sul territorio. Il Governo dello Zambia, forse resosi conto della cosiddetta “trappola del debito cinese” sta iniziando ad allargare lo sguardo.

La cancellazione di un contratto da 5 miliardi di dollari per una centrale idroelettrica sul fiume Zambesi, affidata alle controllate di Xi Jinping e il ruolo di co-organizzatore del II Summit per la Democrazia promosso da Joe Biden, rappresentano forse due piccoli segnali in grado di suggellare un cambio di rotta. 

Fra i confini di Mozambico e Zambia si inseriscono due realtà, diverse all’apparenza ma molto simili. Il piccolo Malawi, molto appiattito su posizioni filo-cinesi, per cui ha recentemente deciso di interrompere un rapporto diplomatico con Taiwan che andava avanti da oltre quarant’anni e filo-russe, ricompensate con venti mila tonnellate di fertilizzanti ricevuti in dono direttamente da Mosca. 

C’è poi lo Zimbabwe, ostaggio delle farneticazioni del suo Presidente, l’ottantenne Mnangagwa che nel 2017 spodestò l’ancor più anziano Capo nazionale Mugabe, con un colpo di Stato, avallato dai vertici di Pechino.

Fiore all’occhiello della politica del Presidente è la edificazione di una nuova capitale, che possa sostituire l’attuale Harare, ormai prossima al collasso, sporca e sovraffollata.

A Luglio di quest’anno c’è già stato il taglio del nastro del nuovo Parlamento della futura capitale, un palazzo costruito dalla Cina per 140 milioni di dollari. 

A finanziare il progetto di Zim-Cybercity (così dovrebbe chiamarsi) è entrato in gioco anche il miliardario indiano, Shaij Ul Mulk, poco noto dalle nostre parti.

L’asservimento agli interessi di Pechino è tale che Mnangagwa ha permesso di fare del suo Paese una sorta di laboratorio per gli esperimenti dei software cinesi di riconoscimento facciale, che allo stato attuale hanno difficoltà a identificare le persone con carnagione scura.

Ma, oltre al Grande Fratello, gli interessi di Xi Jinping in questa area coprono soprattutto il sempre remunerativo comparto delle risorse naturali, dal tradizionale carbone con il sito di Sengwa, al litio di cui lo Zimbabwe ha ambizione di diventare la principale potenza africana in assoluto. 

Per raggiungere tale obbiettivo, da poco più di un anno, ha vietato le esportazioni di litio grezzo in giro per il globo, nazionalizzando la filiera. Uniche ad essere esentate da questo editto, soltanto tre aziende, naturalmente cinesi. 

Anche l’Iran ha un posto speciale nel cuore di Mnagagwa, come testimoniano i dodici accordi firmati nel Luglio 2023, che vanno dalle telecomunicazioni, al settore agricolo attraverso la costruzione di una fabbrica di trattori.

Tuttavia, mentre l’anziano Presidente continua a fantasticare, nel suo Paese l’inflazione annuale viaggia sistematicamente a tre cifre, con tassi di interesse fra i più alti al mondo, la popolazione vive in condizioni socio-sanitarie estreme, la repressione violenta del Governo contro dissidenti e manifestanti è all’ordine del giorno, componendo uno scenario che volontari di Medici Senza Frontiere hanno definito simile a quello dell’Afghanistan. https://www.laredazione.net/afghanistan-quali-sono-i-giacimenti-e-le-materie-prime/ https://www.laredazione.net/afghanistan-e-risorse-minerarie-il-forziere-maledetto-che-piace-alla-cina/

Per chiudere con una esperienza felice, ci soffermiamo su un Paese che ai tempi della sua indipendenza, a metà degli Anni Sessanta, era fra i più poveri a livello globale, insieme al Bangladesh. 

Ai giorni nostri, invece, i suoi cittadini guadagnano in media un reddito pari ad almeno il quadruplo della media continentale, con livelli di istruzione di base impartiti al 90% dei bambini, un sistema stradale efficiente e capillare, solide istituzioni democratiche. 

Ci riferiamo al Botswana, secondo produttore di diamanti su scala mondiale, abile a non farsi inghiottire da quella maledizione delle risorse, che investe gran parte dei territori ricchi di materie prime eppure incapaci di goderne per le sviluppare le proprie comunità. 

In Botswana, lo Stato riesce a trattenere i tre quarti delle rendite provenienti dalla vendita di diamanti, grazie ad una collaborazione storica e proficua con l’azienda estrattrice, una controllata del gruppo De Beers. La holding De Beers, con sede in Sudafrica, venne fondata dall’eclettico Cecil Rhodes, uomo d’affari dalla storia romanzata, che nella seconda metà dell’Ottocento, riuscì addirittura a farsi riconoscere dalla Corona britannica, una colonia che portava il suo nome, nei territori degli attuali Zambia e Zimbabwe, nota come Rhodesia. 

6. Africa australe: fra fast-fashion, diamanti e cobalto

L’ultima puntata della nostra serie di successo dedicata all’Africa si chiude con un focus sui Paesi della fascia australe ed equatoriale del continente, che si avvicendano lungo il versante occidentale.

Un ruolo dominante in questo quadrante lo ricopre, senza rischio di essere smentiti, il Sudafrica. Di gran lunga l’economia trainante di tutta l’area e non solo, in quanto può essere considerata a tutti gli effetti una sorta di piattaforma di lancio per ogni investimento diretto nel resto del continente.  

Primo produttore africano di oro (che il 4 Dicembre 2023 ha toccato il prezzo record di 2100 dollari l’oncia), negli anni è riuscito a diversificare la propria economia dalla dipendenza dalle estrazioni minerarie, sviluppando i settori del manifatturiero e dei servizi. In qualità di Paese membro del G20 e del Gruppo Brics, gode di un peso internazionale universalmente riconosciuto, come del resto è testimoniato dal fatto di essere l’unico Paese africano ad aver ospitato un grande evento internazionale, come i Mondiali di calcio, nel 2010.  

Interpretando il proprio ruolo di attore globale di spicco, a fine 2023, il Sudafrica ha denunciato lo Stato di Israele presso la Corte Internazionale dell’Aia, accusandolo di genocidio per le azioni militari sulla Striscia di Gaza, che hanno fatto seguito all’attentato dei terroristi di Hamas del 7 Ottobre. Dopo pochi giorni, all’atto giudiziario sudafricano si è unito anche il Presidente turco Erdogan, uno che in effetti di genocidi se ne intende. 

I curdi ne sanno qualcosa.

L’altra faccia del Sudafrica, tuttavia, nasconde un Paese ai primi posti nella classifica mondiale dei territori in cui vengono commessi più crimini, dietro soltanto a campioni come Venezuela, Papua Nuova Guinea e Afghanistan. 

Anche per questo, probabilmente, in Sudafrica il settore della vigilanza privata è il più redditizio al mondo, a causa della corruzione e dall’inadeguatezza dei corpi di polizia, che  non godono della fiducia dei cittadini. 

Dal Settembre del 2022, inoltre, il Sudafrica è ostaggio di continui blackout anche di diverse ore ogni giorno, programmati dalla società statale Eskom per effettuare interventi di manutenzione sulle vecchie centrali a carbone ed evitare il collasso definitivo della rete elettrica. 

Secondo un report del Marzo 2022 della Banca Mondiale, il Sudafrica è la nazione più iniqua al mondo, in cui il 10% della popolazione possiede l’80% delle ricchezze, gli spazi abitativi ricalcano ancora lo scenario dell’apartheid con sobborghi di baraccopoli popolate anche da milioni di persone, le cosiddette township, di cui Soweto è soltanto il caso più noto. 

Nel periodo in cui ricorre il decimo anniversario della morte di Nelson Mandela, una analisi approfondita del Sudafrica richiederebbe uno spazio tale da non consentirci di menzionare gli altri Paesi dell’area, per questo ci fermiamo con questa cornice. 

All’interno del territorio sudafricano sono incastonati i due piccoli regni del Lesotho dell’Eswatini, insieme al Marocco uniche monarchie del continente africano.

Il Lesotho è il maggior esportatore di indumenti verso gli Stati Uniti d’America dall’Africa sub-sahariana. Una piccolissima nazione nelle mani di alcuni dei principali marchi della moda low-cost, che qui hanno stabilito alcuni dei propri siti produttivi. L’industria del fast-fashion, tuttavia, si sa, è uno dei settori più inquinanti in assoluto e il Lesotho se n’è reso accorto a sue spese, quando qualche mese fa, uno dei fiumi che scorre nel suo territorio si è dipinto interamente di blu, assorbendo il colore degli scarti di produzione di una fabbrica di jeans, che opera nei dintorni. 

Non passa inosservato neanche l’ancor più piccolo regno di Eswatini, fino al 2018 conosciuto come Swaziland, dove la multinazionale Coca-Cola contribuisce da sola al 40% del Pil nazionale, grazie alle enormi quantità di zucchero prodotte nel regno.

Il re Mswati III si è recentemente distinto per essere il primo governante africano ad aderire al Clean Network Initiative, un programma messo in capo dal Dipartimento di Stato statunitense nel 2020 contro le società cinesi che gestiscono le infrastrutture del 5G. Nel rompere con Pechino, il monarca ha fatto le cose “per bene”, annunciando anche di intensificare le proprie relazioni diplomatiche e commerciali con Taiwan.

Eswatini è l’unico Stato africano che formalmente riconosce l’isola ribelle della Repubblica Popolare.  

La reputazione della Cina inizia a vacillare, tuttavia, anche nella più estesa Namibia, ex colonia tedesca sull’Oceano Atlantico, che soltanto nel 2016 si è vista ricevere le scuse ufficiali di Berlino per un orrendo genocidio consumatosi all’inizio del Novecento. 

Una espiazione dei peccati del proprio passato arrivata giusto in tempo, per permettere alla Germania, in partnership con la Gran Bretagna, di avviare nella Namibia un progetto per la produzione di idrogeno verde, a cui alla fine di Ottobre di quest’anno si è accodata anche l’Unione Europea, con uno stanziamento da un miliardo di euro.  

«I namibiani sono stati venduti ai cinesi» è una delle dichiarazioni lanciate dal partito nazionalista locale la scorsa estate, che ha raccolto grande consenso nella popolazione al punto da generare manifestazioni e cortei di protesta, al limite dell’odio razziale. 

Recentemente, inoltre, il Governo della Namibia ha dato mandato alla polizia di imporre il fermo al trasporto di litio alla compagnia cinese Xinfeng, con le accuse di aver acquisito i diritti sulla miniera di Uis con la corruzione, di imporre condizioni di lavoro “da apartheid” e di arrecare danni ambientali.

Una sensibilità ambientale che non nasce per caso, da queste parti se si considera che la Namibia, nel 1998, è stato il primo Paese in assoluto a inserire nella propria Costituzione la protezione degli ecosistemi. Tutt’ora il 44% del territorio è sotto tutela, offrendo un patrimonio di paesaggi mozzafiato, che vanno dal deserto, alle coste selvagge, sino alle fitte foreste fluviali, in cui trova esaltazione la biodiversità di flora e fauna. 

Queste peculiarità, tuttavia, aprono le porte ad altre criticità, come il dilagante fenomeno del bracconaggio di rinoceronti, elefanti e ippopotami e soprattutto la cronica carenza di acqua. 

Scopriremo presto se le azioni del Governo namibiano nei confronti di Pechino sono soltanto di facciata per alzare l’asticella degli investimenti o se si tratta di una nuova presa di coscienza. Certo è che l’infrastruttura più importante del Paese porta la firma di un’azienda cinese, che fra il 2014 e il 2019, ha raddoppiato il terminal del porto di Walvis Bay, rendendolo uno degli scali più importanti di tutta l’Africa australe. 

Sempre cinesi sono i capitali e la manodopera che hanno migliorato i collegamenti autostradali fra le città di frontiera e l’aeroporto della capitale.  

In Namibia è ben inserita la Corea del Nord, che negli anni ha realizzato nella capitale Palazzo Presidenziale, il Museo memoriale dell’Indipendenza ed edifici per l’intelligence.

Sempre nordcoreane sono le ditte che hanno costruito il Museo Militare nella città di Okahandja, una fabbrica di armi e munizioni a Oamites e l’accademia militare di Leopard Valley.

Bagnata dall’Oceano Atlantico, l’Angola è la seconda economia dell’intera regione australe, sebbene, a differenza del Sudafrica che è stato in grado di diversificare le proprie entrate, qui si assiste ad una pressoché totale dipendenza dal petrolio e dal settore minerario.

A causa di divergenze sulle quote di produzione assegnatele, a fine 2023, l’Angola ha deciso di lasciare il cartello Opec. Questa scelta, secondo gli analisti, potrebbe determinare l’apertura di una finestra di investimenti più ampia da parte degli attori internazionali, in particolare di uno.

Già nel 2021, ad acquistare il 70% del petrolio angolano, è stata la Cina, a conferma di un legame viscerale fra i due Paesi, ancor meglio spiegato dal dato per cui l’Angola sia il destinatario di un quarto di tutto il denaro investito da Pechino in Africa,  sin dall’inizio del millennio. La cooperazione con il gigante asiatico si è intensificata a partire dal 2002, anno che segnò la fine di una guerra civile pluridecennale che lasciato dietro sé macerie e morte. A partire da allora, la Cina ha costruito case, scuole, ospedali, strade, ferrovie, nuovi quartieri e addirittura città intere anche a solo fine speculativo, come si potrebbe dedurre dal caso di Cidade de Kilamba, in cui tutt’ora vi sono centinaia di palazzi a otto piani completamente disabitati. L’impegno cinese in Angola è dettato da accordi molto chiari e stringenti: il 70% di tutti i contratti infrastrutturali devono essere affidati ad imprese del Dragone, così come almeno la metà dei materiali e delle attrezzature devono provenire dalle stesse latitudini. Come già in altri territori di questa area dell’Africa, tuttavia, l’influenza culturale e romantica dell’Unione Sovietica è quella dominante, da far risalire ai tempi delle lotte per l’indipendenza dai domini coloniali, nel caso angolano, domini portoghesi. L’erede sovietico per eccellenza, ovvero la Russia, incassa questo fascino che esercita nel Paese, sfruttandone le ricchezze minerarie, in particolare diamantifere, attraverso partnership firmate dalla società Alrosa, attiva nel sito di Lauchi, nella provincia nord-occidentale dell’Angola. 

A non voler restare indietro sul palcoscenico angolano sono le principali potenze occidentali, che qui stanno concentrando parte dei propri sforzi, per rilanciare la competizione internazionale e ribaltare la narrazione sul grande Sud Globale. A Novembre, il comandante generale dei Marines americani si è recato nella capitale angolana per incontrarne il Presidente e gli alti vertici militari, sebbene accanto al contributo nel settore della difesa, Washington sta mettendo sul piatto milioni di dollari da investire nello sviluppo infrastrutturale del Paese. 

Nello specifico, come si evince da un memorandum concepito durante il G20 di Nuova Delhi, gli Stati Uniti d’America e la Commissione Europea collaboreranno ai lavori per l’ampliamento del corridoio di Lobito, una linea ferroviaria di oltre duemila chilometri, che dovrà collegare la costa dell’Angola alla città di Lumumbashi, nella Repubblica Democratica del Congo, passando per Kolwezi e poi da lì, fino in Zambia. 

L’opera permetterebbe di dare una svolta ai flussi commerciali di tutta la regione, mettendo in rete le principali località minerarie dell’area. 

E proprio seguendo il percorso di questa linea ferroviaria, il nostro racconto si sofferma adesso sul Congo. In realtà, ad avere questo nome sono due Stati differenti, ciascuno con la propria storia e separati geograficamente dal corso del fiume Congo, per l’appunto, da cui il nome di entrambi.

La piccola Repubblica del Congo, con capitale Brazzaville, fu una colonia francese. Praticamente confinante con Brazzaville è Kinshasa, la capitale della immensa Repubblica Democratica del Congo, fino al 1997 denominata Zaire, un tempo colonia belga.  

Il primo è uno Stato povero, con scarsa livelli sanitari e di alfabetizzazione, in cui per la mobilità interna piuttosto che affidarsi ad una rete stradale si navigano i fiumi. Governata dallo stesso uomo, già al potere nel 1979, incentra la propria economia prevalentemente sulla lavorazione delle risorse derivanti del proprio patrimonio forestale, come legno e caucciù, oltre all’estrazione petrolifera, in cui l’Eni ricopre un ruolo di primo piano. 

Per descrivere invece l’altro Congo, quel gigante grande otto volte l’Italia, con capitale Kinshasa, si potrebbe partire dalla visita ufficiale di Papa Francesco, ad inizio 2023 e dal suo appello rivolto direttamente «al Padre che è nei cieli», abbassando umilmente il capo per chiedergli «perdono per la violenza dell’uomo sull’uomo.»                                            Il Pontefice chiese alla platea di “disarmare i cuori”, in un Paese che vive una tragedia perpetua, in cui parlare di una guerra è limitativo, in quanto bisognerebbe piuttosto parlare di uno stato continuativo di conflitti, ininterrotto sin dalla indipendenza del 1960. Una indipendenza ai tempi salutata dall’eroe nazionale Patrice Lumumba con le parole trionfali “lacrime, fuoco e sangue”, sebbene ben presto, si rivelarono un fosco presagio del destino della Repubblica Democratica del Congo. 

Qui, ormai in una logica in cui l’obbiettivo non è la vittoria sul nemico, quanto la prosecuzione del conflitto stesso, bande armate agli ordini di piccoli e grandi signorotti spadroneggiano voracemente, riproponendo le atrocità in passato inflitte dai padroni coloniali, dalla dittatura trentennale di Mobutu e dalla dinastia dei Kabila che l’ha succeduta, fino ai giorni nostri. 

Dalle ceneri di una delle guerre più violente e mortifere che il mondo abbia mai conosciuto, consumatasi alle porte del nuovo millennio, con una capacità espansiva tale da renderla una guerra continentale che eccitò il protagonismo degli Stati confinanti, su tutti Ruanda ed Uganda, ne è uscito un Paese disgregato e lacerato, che rappresenta un fallimento vergognoso per tutta la comunità internazionale, la quale a coronamento della propria inconsistenza, il 19 Dicembre 2023, ha deliberato la fine della missione di peacekeeping, nota come Monusco, attiva nel territorio da ventitré anni. 

Il suo sottosuolo custodisce una tale quantità e varietà di minerali preziosi da renderlo un banchetto già apparecchiato per gli appetiti di trafficanti, bande armate, Paesi vicini e lontani. 

La competizione per le risorse minerarie alimenta una economia di guerra ramificata a livello globale, in cui diverse èlite tendono a mobilitare i rispettivi gruppi etnici per ottenere il controllo dello Stato e impossessarsi delle rendite da esso controllate, così da provocare una incessante proliferazione di movimenti ribelli animati dall’obbiettivo di prendersi una fetta della torta. Le frequenti scissioni fra i vari gruppi armati provocano poi un effetto moltiplicatore delle milizie, in un meccanismo che incentiva l’emersione continua di nuove bande, guidate da piccoli leader che ambiscono a una carriera politica o militare, incoraggiati da una situazione in cui le istituzioni statali e il mondo delle milizie sono separati da porte girevoli in continuo movimento. 

Queste logiche permeano anche le relazioni sociali a livello popolare, convincendo giovani e addirittura bambini ad arruolarsi nei gruppi armati privati, pur di sfuggire alla povertà, ma contribuendo soltanto ad allungare la spirale di violenza, saccheggio e stupri, a danno delle popolazioni locali. 

In tali dinamiche, nel Febbraio 2021, ha perso la vita l’ambasciatore italiano Luca Attanasio, vittima di un attentato nella provincia del Kivu, al confine con il Ruanda.

La drammaticità di questo scenario è amplificata dal fatto che la spropositata ricchezza mineraria della Repubblica Democratica del Congo non corrisponde ad altrettanti benefici per la popolazione locale, come invece accade per il già citato Botswana. 

Basti pensare che i tre quarti del cobalto mondiale, minerale essenziale per tutte le apparecchiature tecnologiche, provengono proprio da qui, rappresentando una quota più che doppia rispetto a quella che l’Opec detiene nella produzione di petrolio. 

Alla drammaticità, si aggiunge l’ipocrisia di un mondo che rincorre la transizione energetica in nome di un ambientalismo dogmatico, da raggiungere attraverso la diffusione di totem ideologizzati come l’auto elettrica, la cui batteria, per essere assemblata ha bisogno di grandi quantità di litio e coltan, minerali di cui proprio questo Congo detiene un quasi monopolio. Minerali estratti con procedure altamente inquinanti e impattanti per gli ecosistemi circostanti, attraverso l’umiliazione dei minatori e sfruttamento minorile e ipertrofizzate da circuiti di corruzione e mazzette fra funzionari pubblici e faccendieri vari, disegnando una filiera che di sostenibile ha soltanto lo sdegno. 

A godere di un ruolo egemone nel settore minerario del grande Congo è la Cina, attraverso la Sicomines che gestisce diciannove siti estrattivi con riserve stimate di almeno otto milioni di tonnellate. In cambio, Pechino, sin dall’accordo siglato nel 2008, si è impegnata nella costruzione di infrastrutture, finanzia progetti di sviluppo, fornisce armamenti e recentemente ha cancellato un debito di 27 milioni di dollari. 

Nello scenario congolese, la Corea del Nord è attiva soprattutto nel settore delle armi. La fabbrica di munizioni di Likasi è stata costruita da ditte di Pyongyang. Le unità speciali dell’esercito e la guardia presidenziale sono state addestrate ed equipaggiate da istruttori nordcoreani.

Molto più antichi sono i legami con la Russia, ben manifestati da quella che il Ministero della Pubblica istruzione del Cremlino classica come terza migliore Università dell’intera federazione, situata in un quartiere meridionale di Mosca e che si chiama “Università dell’Amicizia dei Popoli Patrice Lumumba”, in onore del leader congolese, protagonista dell’indipendenza del Paese e assassinato pochi mesi dopo. 

L’abbraccio di Putin si fa sentire anche e soprattutto nel cuore dell’Africa, in quel Gabon che quest’estate ha visto la caduta del regime familistico dei Bongo, ininterrottamente al potere dal 1967 e che in sede Onu è stato uno dei quattro Paesi a non aver condannato, tramite la risoluzione dello scorso Ottobre, le annessioni illegittime delle regioni ucraine all’interno dei confini russi. 

Qui foreste, boschi e aree naturali coprono la quasi totalità del territorio, rendendolo un ambiente bucolico, dove pure in realtà le ricchezze del sottosuolo abbondano. 

Lo sa bene la Cina, la quale attraverso il consorzio Cmec gode da quasi vent’anni dei diritti esclusivi sulla miniera di ferro nella regione di Bélinga, da cui sempre ditte cinesi stanno facendo partire una linea ferroviaria di oltre cinquecento chilometri che collegherà il sito estrattivo al porto di Santa Clara sull’Oceano Atlantico. 

Gli investimenti di Pechino nella ex-roccaforte dei Bongo hanno interessato anche una diga idroelettrica e moderni stadi e impianti sportivi, che hanno permesso al Gabon di ospitare le edizioni 2012 e 2017 della Coppa d’Africa, la massima competizione calcistica del continente per le rappresentative nazionali. 

Il Gabon pullula di investitori indiani, soprattutto da quando è stato attivato l’ente di promozione bilaterale Gabon-India Business Council. Gli scambi fra i due Paesi si concentrano nei settori farmaceutico, agricolo, manifatturiero e del legname. 

Quartier generale del potere di Putin in Africa è senza dubbio la Repubblica Centrafricana, dove utilizza la compagnia Wagner per attività ibride e per il lavoro sporco che l’esercito regolare non potrebbe compiere. Il contingente di mercenari russi controlla vaste zone del territorio, presidia caserme e aeroporti, funge da guardia del corpo del Presidente Touaderà, per il quale svolge anche vere e proprie operazioni militari contro i movimenti ribelli. 

In Repubblica Centrafricana, i Wagner producono addirittura una birra, la Ti l’Or e per salvaguardare quote di mercato del proprio prodotto, hanno addirittura messo a fuoco uno stabilimento della concorrente francese Mocaf.

I mercenari svolgono soprattutto funzioni di sorveglianza sulle miniere d’oro presenti nel Paese, spesso prese di mira da gruppi di ribelli che sabotano le attività estrattive. 

In un rimpallo di accuse,  i Wagner sono stati accusati proprio da uno di questi gruppi di eversivi di esser stati gli artefici di un agguato del 19 Marzo 2023, in una miniera d’oro, in cui hanno perso la vita nove cittadini cinesi, che gestivano proprio quel sito. 

L’evento provocò grande sgomento ai piani alti di Pechino, sebbene la solidarietà delle popolazione locale fu immediatamente manifestata, attraverso cortei e striscioni eloquenti che esprimevano tutto l’affetto sia per la Cina, sia per la Wagner e per Putin.

Il mercato dell’oro centrafricano è saldamente nelle mani della donna d’affari cinese Zhao Baomei, con licenze esclusive sulla aree di Yaloké, Bambari e ai confini con il Camerun. 

Una imprenditrice talmente influente e legata al potere locale, che un missionario straniero dopo aver denunciato alle istituzioni l’inquinamento provocato dalle sue aziende è finito in cella. 

La leadership russa in Repubblica Centrafricana viene utilizzata da Putin per sviluppare relazioni con il vicino Ciad, nel Sahel, uno degli ultimi Stati africani non ancora avvicinata dal Cremlino, come testimonia un recente viaggio proprio in quel Paese, di una delegazione di diplomatici di Mosca guidata dal Ministro degli Esteri del Presidente Touaderà.