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Africa, terra di business

La Russia è il primo esportatore di armi in terra africana, garantendo il 40% delle forniture totali sul continente.

Il futuro del mondo non potrà prescindere dall’Africa. E l’Africa non aspetterà a lungo.

È questo lo spirito che ha animato il forum del G20 di inizio settembre, tenutosi a Nuova Delhi, in cui è stato stabilito che d’ora in poi l’Unione Africana siederà al tavolo delle discussioni come membro permanente, al pari delle venti economie più importanti del pianeta.

I 55 Stati del Continente africano

Di fatto, con l’aggiunta dell’organizzazione che comprende i 55 Stati del continente africano, il G20 si trasforma in G21 e, nel frattempo, la diplomazia italiana ha già fatto sapere di voler estendere questo stesso status al prossimo G7 che si terrà proprio in Italia, fra gli ulivi pugliesi di Borgo Egnazia.

Un segnale di forte immedesimazione nelle dinamiche del cosiddetto Sud Globale, in un’ottica di contenimento delle moine attrattive esercitate dal gruppo Brics (non a caso Cina e Russia non erano presenti a Nuova Delhi con i loro principali vertici istituzionali).

Le ragioni sono anche squisitamente economiche, con la recente istituzione dell’area di libero scambio fra i Paesi del continente che promette di fungere da volano per lo sviluppo dei commerci e delle opportunità imprenditoriali.  

Sarebbe ingenuo, tuttavia, pensare all’Africa come un blocco unico, come spesso accade purtroppo. Alla vastità del territorio, per convenzione rimpicciolito sulle cartine geografiche che siamo abituati a vedere, corrispondono una varietà enorme di etnie, religioni, paesaggi, condizioni sociali.

Nuove forme di imperialismo 

L’appiattimento della narrazione occidentale sulla dimensione unica della miseria, della fame, delle guerre, delle migrazioni ci porta ormai a considerare inverosimile ogni buona notizia proveniente da quella parte del mondo, perché contraddice gli stereotipi con cui siamo cresciuti e cui ci siamo assuefatti.

Per gran parte dell’opinione pubblica occidentale l’Africa ha senso solo se può generare compassione e complessi di colpa per gli sciagurati decenni della stagione colonialista, durante cui i nostri antenati ne sfruttarono risorse naturali e umane, disegnarono i confini fra gli Stati a proprio piacimento.

Una posizione molto comoda, su cui si sono adagiate anche le classi dirigenti che, troppo prese ad assecondare l’opera di autoflagellazione, si sono perse di vista quanto stava accadendo al di là del Mediterraneo.

I leader africani, abili a sfruttare i nostri rimorsi e le rivalità fra le varie potenze globali, hanno aperto le porte a conquistatori nuovi nelle facce, ma antichi nei loro propositi di dominio imperialista, pronti a riempire i vuoti lasciati dall’Occidente, per dare il via ad una nuova spartizione dell’Africa.

Cina e Russia in Africa

Cina, Russia, Turchia, Paesi del Golfo sono i player che vogliono fare dell’Africa la sede della contro-globalizzazione e il laboratorio del sentimento anti-occidentale.

Avevamo sfiorato questo tema già ai tempi della prima risoluzione dell’Onu sull’invasione del Cremlino nel territorio ucraino, con la promessa di un futuro approfondimento.

Questo anno e mezzo trascorso da quell’articolo è servito a consolidare le dinamiche che si stavano prospettando davanti a noi.

Le autorità locali africane, oltre alle risorse economiche, pesano la forza delle armi degli attori in campo, praticando una fredda realpolitik che magistralmente sanno accostare a invocazioni umanitarie.

La Russia esportatrice di armi in Africa

La Russia è il primo esportatore di armi in terra africana, garantendo il 40% delle forniture totali sul continente, senza considerare il traffico illegale di cui non si conoscono i numeri.

Le milizie di Putin sono massicciamente presenti nella Libia orientale, dove sta anche trattando il controllo dei porti di Bengasi e Tobruk che, insieme alla base navale siriana di Tartus, le permetterebbe una presenza importante nelle acque del Mediterraneo.

La Wagner

La vocazione militarista del Cremlino in Africa si è diffusa, poi nell’ultimo decennio, attraverso le incursioni securitarie della ormai arcinota compagnia Wagner, oggi orfana del suo leader Prigozhin, ma ancora centrale nel suo ruolo di esportazione degli interessi russi nel continente. Spesso invocati direttamente dell’autorità locali per garantire la sicurezza e l’ordine nei propri territori, i mercenari della Wagner hanno in mano il traffico di armi, dei flussi migratori, delle estrazioni minerarie.

La Turchia in Africa

La politica di guadagnare consenso, soddisfacendo la richiesta di armamenti, l’ha ben implementata la Turchia, che in un solo anno, fra il 2020 e il 2021 ha quintuplicato l’export di strumentazioni belliche in Africa e il trend sta continuando, attestandosi su standard ormai altissimi, come testimonia il recentissimo pacchetto di forniture consegnato il 20 settembre, al Gambia.

Un paradosso che si materializza nel fatto, che Erdogan è partner militare sia del Gambia che del Senegal, due Paesi in guerra fra loro per il controllo della regione di Casamance.  

La Cina ha impiantato la sua prima ed unica base militare estera al mondo, proprio in Africa, in Gibuti, in uno snodo cruciale per i traffici marittimi, attraverso il Mar Rosso.

I Paesi del Golfo e l’Africa

I Paesi del Golfo proiettano le proprie rivalità interne, nell’attivismo in Africa.

Gli Emirati Arabi sono i finanziatori dell’Accademia Militare del G5 Sahel nella città di Nouakchott, in Mauritania e, sempre in quello Stato stanno installando una base aerea. Mauritania che nel 2019 aveva anche siglato un accordo di cooperazione militare con l’Arabia Saudita. Il Qatar dispiega forze di interposizione per il pattugliamento di un’area contesa fra Eritrea e Gibuti.

Alla penetrazione di armi ed equipaggiamenti bellici di questi attori internazionali, corrisponde il disimpegno progressivo delle potenze occidentali.

La Francia, emblema di questo processo, conserva circa quattromila soldati, dispiegati fra Senegal, Costa d’Avorio, Niger, Gabon e Gibuti. Entro la fine di quest’anno, però, il contingente schierato in Niger abbandonerà il Paese, a seguito del golpe militare di questa estate. 

La presenza dell’Italia in Africa

Proprio nel teatro nigerino è stata protagonista l’Italia, che attraverso il trecento-ventiduesimo reggimento dei paracaduti aveva addestrato l’esercito locale, come già qualche mese fa avevamo ricordato.

I fallimenti delle recentissime operazioni Takuba in Mali e Barkhane in Ciad per stabilizzare l’area e contenere l’espansione dell’estremismo islamico, hanno definitivamente messo a nudo il trauma militare transalpino nel continente.

L’Italia, oltre alla missione in Niger, partecipa a tutte le altre attività in coordinamento con gli Alleati internazionali, su tutti l’AfriCom, il commando statunitense, articolato in ventisette basi di terra, di cui undici permanenti e sedici di contenimento. Tuttavia, già dai tempi dell’amministrazione Obama, gli States hanno deciso di alleggerire la propria presenza nel Mediterraneo, orientandosi maggiormente verso il quadrante dell’Indo-Pacifico. 

Gli USA in Africa

In controtendenza tuttavia con il processo avviato dai suoi due predecessori, Biden ha deliberato il ritorno delle truppe a stelle e strisce nel Corno d’Africa, più nello specifico in Somalia, dove i terroristi di Al-Shabaab stanno spargendo morte e distruzione. Le derive in Kenya ed Etiopia hanno portato alla sospensione della collaborazione militare e finanziaria con quei Paesi, costringendo gli apparati americani a dover ripensare i programmi di aiuto e l’organizzazione delle linee di comando.

La presenza militare, come dicevamo in apertura, apre spesso le porte alle relazioni commerciali e alle infiltrazioni nei tessuti produttivi locali.

L’interscambio commerciale Usa-Africa valeva 113 miliardi di dollari nel 2010 ed è crollato a 44 miliardi di dollari nel 2020. Sarebbe sufficiente questo dato per dipingere meglio la situazione che assume ancora più rilevanza se confrontato con i 200 miliardi di dollari dell’interscambio Cina-Africa.

Ma, di tutto questo, ci occuperemo nel prossimo articolo, anche alla luce dei nuovi disordini in Medio-Oriente.