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Barometro dell’odio, la colonnina segna rosso profondo

Chi è l’odiatore seriale?

di Coraline Gangai

Quante volte ci sarà capitato di leggere sotto alcuni post frasi razziste e violente? Forse talmente tante che abbiamo perso il conto. Ma chi sono e soprattutto cosa spinge queste persone a commentare post o articoli di giornale con frasi estremamente violente e che incitano all’odio?

Nel linguaggio quotidiano questi soggetti prendono il nome di ‘odiatori seriali’, ossia coloro che scrivono commenti negativi sulle categorie più fragili della società, appellandosi a idee politiche estremiste o, peggio ancora, a fake news, luoghi comuni e stereotipi. Da un anno a questa parte, con l’avvento della pandemia, il fenomeno sembra essersi accentuato ulteriormente, come segnala il Barometro dell’odio: intolleranza pandemica, la ricerca firmata Amnesty Italia che ha misurato l’impatto che le ripercussioni della pandemia sui diritti economici, sociali e culturali hanno avuto sulla discriminazione online.

Identikit dell’odiatore seriale

Si tratta di un termine molto utilizzato sui social e che, a poco a poco, è entrato nel nostro vocabolario. Per poter fare l’identikit di un odiatore seriale dobbiamo tenere conto, come prima cosa, del fatto che non rientri in una categoria di soggetti ben precisa: può essere un uomo o una donna, un giovane o un adulto, lavoratore o disoccupato, ecc… Ad accomunare questi soggetti è ciò che si trova alla radice della parola stessa: l’odio, espresso attraverso frasi scritte dal tono e dalla caratterizzazione violenta.

Oltre alla violenza, i commenti dell’hater fungono anche da contenitore di luoghi comuni che vanno dal classico “gli stranieri vengono nel nostro paese per rubarci il lavoro”, “vivono in Italia a spese nostre”, “arrivano sui barconi ma hanno i cellulari” e tanti altri. Solitamente i soggetti presi di mira sono quelli considerati più fragili: non solo migranti ed emarginati, ma anche donne, omosessuali, e altri.

L’odiatore si muove principalmente sul terreno dei social network, in particolare Facebook e Twitter, dove nei commenti sfodera la sua cattiveria o la sua (finta) conoscenza delle tematiche più varie.

Con questi soggetti risulta praticamente impossibile instaurare un dialogo costruttivo, in quanto non c’è modo di poter portare la comunicazione su un binario neutro. Conoscono e tengono in considerazione solo le proprie idee e non sono aperti al confronto. Questo perché, nella maggior parte dei casi, non conoscono l’argomento di cui stanno parlando, hanno un grado di istruzione molto basso (un segnale è dato dal lessico sgrammaticato riscontrabile nel modo in cui scrivono i commenti e che denota una scarsa conoscenza della grammatica italiana), si informano con notizie di superficie, ossia non approfondendole, si servono di fake news per avvalorare le loro tesi e utilizzano stereotipi e pregiudizi come sostegno alle loro affermazioni.

Il Barometro dell’odio: la ricerca di Amnesty

Il Barometro dell’odio: intolleranza pandemica è un progetto nato nel 2018 da un’idea di Amnesty International con l’obiettivo di monitorare il livello di discriminazione e hate speech nel dibattito online, combinando all’uso degli algoritmi il coinvolgimento degli attivisti su tutto il territorio italiano.

Le tendenze rilevate sono state due: l’amplificazione intersezionale dei discorsi d’odio rispetto ad alcune categorie sociali fragili e l’estensione degli attacchi anche verso soggetti fino a quel momento mediaticamente poco visibili, come detenuti o personale sanitario. L’edizione del 2021 ha coinvolto oltre 80 attivisti che in 16 settimane, dal 15 giugno al 30 settembre 2020, hanno raccolto 177.000 post e tweet pubblicati dagli autori delle pagine/profili pubblici (44.000 da Facebook, 133.000 da Twitter) e monitorato 22 milioni di commenti (13 milioni da Facebook, 9 milioni da Twitter) raccolti e pubblicati su pagine/profili pubblici relativi al mondo della politica, sindacale, dell’informazione, del welfare.

Il campione di ricerca ha incluso e osservato 36.269 contenuti unici, raccolti da Twitter e Facebook sulla base di un campione di pagine e profili pubblici, con l’obiettivo di analizzare l’impatto della pandemia sui diritti economici, sociali e culturali e la sua influenza sull’odio online. Indubbiamente un anno e mezzo di pandemia ha messo a dura prova la popolazione mondiale. Il livello di intolleranza e di rabbia è aumentato a dismisura, così come la frustrazione di non poter più condurre la vita di prima e avere contatti umani.

L’odio rilevato nei commenti ha raggiunto numeri così elevati da generare riflessioni importanti. Si tratta di un odio generalizzato e che assume forme diverse: xenofobo e razzista, sessista, omobitransfobico, islamofobo, antisemita, antiziganista (termine che indica il pregiudizio e l’odio generalizzato verso i popoli Sinti e altri gruppi) e classista. Seppur l’una diversa dall’altra, hanno tutte una cosa in comune: il fatto di essere soggetti fragili ed emarginati dalla società. Per alcune categorie poi, l’avvento del Covid-19 non ha fatto altro che peggiorare le già precarie condizioni, sia economiche che sociali.

Come riporta Amnesty: “1 commento su 10 è offensivo, discriminatorio e/o classificabile come hate speech, mentre oltre 1 su 100 incita all’odio, alla discriminazione o alla violenza. Dall’analisi è emerso che i soli discorsi d’odio sono aumentati del 40%”.

Dai dati emerge quindi quella che potrebbe essere definita una radicalizzazione dell’odio in rete, che ha radici ben più lontane dell’avvento del Covid-19 e profonde.

Diritti economici, culturali e sociali (Desc)

L’odio in rete c’è sempre stato ma la pandemia, associata alla crisi economica e sociale, sembra aver alimentato ancor di più questo odio generalizzato e immotivato rivolto a soggetti emarginati, utilizzati come capro espiatorio e associati ai “mali del Paese”.

Ciascuno dei contenuti analizzato è stato classificato in base al tema, all’accezione, all’assenza/presenza di problematicità, al grado di problematicità, alla tipologia di bersaglio, all’eventuale gruppo vulnerabile a cui ricondurre il bersaglio e all’ambito a cui fa riferimento l’odio. Come si legge nel report: “I diritti economici, sociali e culturali sono l’argomento più presente tra i contenuti analizzati e compaiono in quasi un terzo di essi, sia tra i post/tweet che tra i commenti. Gli altri ambiti oggetto di indagine, legati anch’essi ai diritti umani, risultano poco trattati. L’immigrazione continua a essere il più presente per entrambe le categorie di contenuti (post/tweet e commenti, rispettivamente col 7,1% e l’8%), seguito da donne e diritti di genere (3,5% e 1,9%) e dal mondo della solidarietà (1,5% e 1,1%). Seguono con un’incidenza che non arriva all’1% (unica eccezione il tema lgbti, ma solo tra i post/tweet) lgbti, disabilità, minoranze religiose e rom”. Dall’analisi emerge inoltre che “circa 10 commenti su 100 che hanno per tema i Desc sono offensivi e/o discriminatori o hate speech, 1 su 100 è hate speech. Sul podio dei commenti problematici troviamo “minoranze religiose” (55,6%), “rom” (47,6%) e “immigrazione” (42,1%); su quello dell’hate speech a variare è solo l’ordine: rom (14,1%), minoranze religiose (12,7%) e “immigrazione” (7,9%) ”.

Le sfere a cui l’odio è riferibile che si incontrano più spesso, e che possono essere slegate dai temi sopra elencati, sono: razzismo e xenofobia, più presenti nel caso di post/tweet e commenti problematici. Guardando invece ai soli discorsi di odio, nel caso dei post/tweet l’odio resta

 circoscritto entro alcune sfere: l’islamofobia (46%), sessismo (31,3%), antiziganismo (23,1%), antisemitismo (20,1%), razzismo (7,9%). Nel caso dei commenti, invece, l’odio è più trasversale: islamofobo (21%), razzista (19,6%), antiziganista (19%), antisemita (16,6%), omobitransfobico (14,5%).

Misoginia

Tra le categorie più odiate nel 2020 troviamo anche le donne, con una percentuale di commenti negativi che si attesta intorno al 49,91%.

Alla misoginia e al body shaming, oggi si affianca un’altra forma d’odio: quella che intattacca la sfera professionale delle donne, accusate di far carriera soltanto grazie al proprio corpo e non per meriti o competenze personali.

Politici, testate, sindacati ed enti

Tra i profili presi in esame dal report sono stati inclusi anche personaggi politici, testate giornalistiche, organizzazioni sindacali e rappresentanti dei lavoratori ed enti legati al welfare. Da un campione iniziale di 184 pagine/profili si è arrivati, dopo un monitoraggio di quattro settimane, a selezionare i 38 con maggiore attività tra post/tweet pubblicati e commenti e risposte ricevuti. Delle persone campionate, 22 sono politici (metà uomini, metà donne), 8 testate giornalistiche, 4 tra organizzazioni e rappresentanti del mondo del lavoro e 4 relativi al welfare. Come è emerso dallo studio: “Il peso maggiore è quello di politici e testate. Tuttavia la distribuzione dei commenti e delle risposte, nel caso dei politici, ha una peculiarità che la rende eccezionalmente disomogenea. Il 40,5% dei commenti e delle risposte degli utenti ai loro post/tweet è generato dalle due prime pagine/profili pubblici per attività registrata; includendo il terzo degli esponenti politici di questa “classifica” si raggiunge il 51,6%. Tutti e tre rappresentano partiti di destra”.

Uno strumento utile all’analisi è stato quello introdotto recentemente da Facebook: le reaction ai commenti. Ognuna di queste viene associata ad un particolare sentimento. Gli utenti vi ricorrono per esprimere ciò che provano rispetto ad un determinato argomento/tema: “la risata, scelta prevalentemente come reazione a post di testate giornalistiche, ha una connotazione negativa, di scherno e indica una scarsa fiducia nell’informazione; lo stupore e la tristezza sono selezionati spesso in relazione agli enti pubblici che si occupano di welfare; cuore/like sono quelli più utilizzati in reazione ai post dei sindacati e dei rappresentanti del mondo del lavoro; infine la rabbia, che si trova con maggior incidenza tra le reazioni ai post dei politici”.

Ciò che emerge è che i post che generano maggiore incidenza di hate speech sono incentrati su temi quali immigrazione e minoranze religiose e sono pubblicati da politici (area di destra) e da testate giornalistiche, accusate nel periodo pandemico di generare ‘terrorismo mediatico’ e di diffondere il ‘regime del terrore’.

‘Oggi’, ‘lavoro’ e ‘governo’ al centro del dibattito odierno

Sono queste le tre parole intorno alle quali si genera un maggior dibattito ‘problematico’. Al primo posto nella classifica la parola governo, a cui gli italiani attribuiscono la panacea di tutti i mali, incolpandolo di scarsa competenza e vigilanza e di riservare un trattamento di favore a ‘loro’ (termine utilizzato per riferirsi a rifugiati e stranieri) e non a ‘noi’ (termine che indica gli italiani). Le altre due parole, oggi e lavoro, sono entrambe correlate al termine governo e presentano un’accezione negativa: la prima si riferisce alla difficoltà di vivere il presente, a causa delle scarse garanzie fornite dal governo, la seconda fa riferimento alle scarse prospettive lavorative, per i giovani ma non solo, e, ancora una volta, la responsabilità viene demandata al governo.

Xenofobia e razzismo

I migranti, oltre ad essere considerati gli untori per eccellenza, sono stati anche oggetto di stereotipi. L’UNHCR ha classificato quelli più comuni: “li accogliamo negli alberghi, che paghiamo a nostre spese”, “gli diamo 35 euro al giorno”, “arrivano sui barconi ma hanno cellulari e connessione a internet”, “invadono il nostro Paese e non apportano alcun beneficio”.

Con l’avvento del Covid-19 il fenomeno xenofobo e razzista si è intensificato ancor di più e, oltre ai migranti, le altre categorie che hanno subito forti discriminazioni sono state: i cinesi, accusati di aver prodotto il virus in laboratorio e averlo diffuso nel nostro paese e nel resto del mondo; gli operatori sanitari; i runner e i detenuti.

Il tema dell’immigrazione, oltre ad essere oggetto dell’hate speech più feroce, nel mondo giornalistico viene spesso trattato come dangerous speech, che potremmo considerare come una branca dell’odio online. Con questo termine si fa riferimento ai titoli allarmistici diffusi dalle testate giornalistiche associati ai temi dell’immigrazione e della diffusione del virus, di cui spesso vengono accusati i migranti. Questa pratica ormai diffusa non va sottovalutata perché spesso l’odio generato da questi temi, e dal modo in cui vengono trattati, può sfociare in una violenza non più solo verbale, ma anche fisica.

Come combattere l’odio e la discriminazione online

Ci sono diversi modi per farlo. I più comuni sono: la “segnalazione alle autorità competenti” e la “contro-narrazione”. Per quanto riguarda il primo, sarà sicuramente capitato a chiunque abbia un profilo social di imbattersi in commenti violenti o discriminatori. Qualcuno li ha ignorati, qualcun’altro ha deciso di rispondere.

Uno dei modi per cercare di combattere questo linguaggio violento è provare ad instaurare una comunicazione con l’autore, pubblicamente oppure in privato.

Qualora questo modo di agire non dovesse funzionare, si può procedere alla segnalazione dei commenti attraverso gli strumenti predisposti dai social media, e che permettono di indicare la natura della violazione, oppure, se ciò dovesse verificarsi in un gruppo o in una pagina privata, fare la segnalazione all’amministratore.

In ultimo, ma non per importanza, si può procedere sporgendo una denuncia, civile o penale, alla polizia postale o ad altre forze di sicurezza pubblica. Oltre a questi organi ne esiste un altro, come segnalato da Amnesty International, a cui è possibile rivolgersi: l’Ufficio nazionale anti-razzismo, un contact center gratuito e multilingue che fornisce alle vittime assistenza 24 ore su 24. Un’altra

soluzione, secondo Amnesty, è proporre visioni alternative, come la contro-narrazione. Ma in cosa consiste? “Per sradicare l’hate speech non basta sanzionarlo o dimostrare che sia falso. Bisogna offrire una contro-narrazione, ovvero una risposta diretta a uno specifico messaggio d’odio, che si rivolge a chi lo conosce, svelandone incoerenze e sottintesi per indebolirlo. La narrazione alternativa ha come fine ultimo quello di produrre cambiamenti a lungo termine, con campagne che promuovano punti di vista alternativi per smontare la prospettiva generale e proporne un’altra”.

Quando si decide di rispondere all’odiatore seriale è importante non commettere alcuni errori, come adottare il suo stesso linguaggio violento o cercare di fargli cambiare idea. Le contromosse da mettere in campo sono le seguenti: l’invito ad un confronto rispettoso e dai toni pacati e a trovare un punto d’incontro nella discussione, capire quali siano le fonti del nostro interlocutore e invitarlo a mantenere il punto fermo nella discussione, senza generalizzare.

Se da un lato c’è Amnesty, che con le sue azioni tenta quotidianamente di arginare questo fenomeno che sembra aver preso sempre più piede nella nostra società, soprattutto alla luce dei tempi bui in cui stiamo vivendo, dall’altra c’è la politica che, nonostante i suoi tentativi, non sembra riuscire nel compito. È quindi necessario che il governo investa in specifici programmi di educazione della cittadinanza alla relazione in rete.

Queste sono soltanto alcune delle soluzioni che possono essere adottate per risolvere, almeno in parte, il problema. Non c’è la certezza assoluta che funzionino, ma sono un modo per arginare il fenomeno e per far prendere coscienza alla collettività di quale sia la giusta via da percorrere per migliorare la società in cui viviamo.