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Cibo, l’emergenza guerra rischia di farci importare prodotti vietati

di Salvatore Baldari

Dissipata nel fragore delle bombe che si riversano sulle città ucraine, è passata sotto traccia sui media, dedicati maggiormente alle conseguenze energetiche, la notizia che l’Unione Europea è pronta, in via emergenziale, ad importare cibo da Stati Uniti, Argentina e Canada.

I Paesi citati, sono fra i leader mondiali nella produzione di organismi geneticamente modificati che, invece, sono regolamentati molto rigidamente in Europa.

Ma, al di là degli Ogm, le differenze sostanziali si evidenziano anche sull’utilizzo degli antibiotici negli allevamenti e, più in generale, nell’approccio al cosiddetto principio di precauzione. In pratica, se in Europa non è consentito immettere nel mercato qualcosa di cui non si è certi che non sia nocivo, Oltreoceano vale l’opposto, ovvero tutto si può commercializzare purché non dimostri di essere dannoso.

Sono state anche queste incertezze sulla sicurezza alimentare ad aver fatto arenare, da qualche anno, il negoziato sull’accordo di libero scambio fra i due continenti, conosciuto come Ttip, Trattato transatlantico per il commercio e gli investimenti.

Il dibattito sugli Ogm resta intanto aperto.

Da un lato vi sono i sostenitori, secondo cui gli OGM contribuirebbero alla salvaguardia di alcune specie in via d’estinzione, allo sviluppo dell’agricoltura in aree disagiate del mondo e alla riduzione di pesticidi.

Chi si oppone, ne solleva dubbi sui rischi per l’ambiente e la salute.

Una contrapposizione, troppo spesso dai connotati ideologici e mediatici in cui l’unica sconfitta potrebbe, alla fine, rivelarsi soprattutto la conoscenza umana.

Alcuni anni fa la dottoressa Chiara Tonelli dell’Università di Milano, che era riuscita a produrre una varietà di pomodoro in grado di crescere con il 30% d’acqua in meno, aveva espresso i propri timori per politiche restrittive nell’ambito nella ricerca sull’ingegneria genetica. Delle preoccupazioni condivise dall’intera comunità scientifica perché importanti scoperte potrebbero essere strozzate.

Era stato l’agronomo americano Norman Borlaug, premio Nobel per la pace nel 1970, ad avviare la Rivoluzione Verde, con l’ibridazione del grano per aumentare la resa e respingere i parassiti, eliminando un gene che rese lo stelo del grano più nano così da occupare meno spazio e sopportare più chicchi.

Lo stesso Borlaug definì gli oppositori della genetica in agricoltura: «membri delle élite che hanno abbastanza denaro da non doversi preoccupare di come procurarsi il prossimo pasto».

Nelle ultime settimane, stanno venendo al pettine i nodi della rinuncia alla genetica che, al di là di come la si pensi, ha senza dubbio generato una notevole dipendenza delle importazioni.

Una soggezione che, amplificata dalla guerra, ha provocato aumenti sproporzionati  del prezzo.

La minaccia di una drammatica crisi alimentare, figlia della inadeguata resilienza dei nostri sistemi, rischia di divorare decenni di politiche protettive comunitarie e di spalancare le porte a prodotti di ogni tipo, altro che Ogm.

Il tutto con il paradosso che emerge dai dati della bilancia commerciale: importazione e utilizzo di enormi quantità di organismi geneticamente modificati, a fronte del divieto di coltivazione.

Nell’ambito dei mangimi, ad esempio, importiamo quanto invece vietiamo di coltivare, ovvero 85% di soia e mais ogm per il nostro bestiame, e di produrre ad alcuni dei nostri marchi più noti nel mondo.

Importazioni che fanno il giro del mondo su container o carghi al gasolio, alla faccia dei sostenitori del chilometro zero e della transizione ecologica.

Eppure, le valutazioni scientifiche moderne sugli Ogm escludono la loro pericolosità per la salute e per l’ambiente. Curioso citare uno fra gli oppositori più esposti, Marck Lynes della Cornell University di New York, il quale nel 2018 ha scritto un libro in cui si legge: “la campagna anti-ogm l’abbiamo stravinta. Purtroppo era sbagliata”.

Favorire l’innovazione genetica in agricoltura ne aumenterebbe la resa e ridurrebbe il consumo di pesticidi, energia e acqua.

Potrebbe essere un contributo per andare incontro alle sfide della malnutrizione e al tempo stesso, del consumo di suolo, evitando di smantellare boschi.

Del resto, si tratta di quanto da secoli si è fatto in agricoltura.

Studiare piante e terreni, per apportarne modifiche affinché potessero aumentarne le varietà e la resistenza a parassiti ed intemperie.

Occorre sempre ricordare che il pomodoro, la mela, la fragola  in origine non erano così come oggi le vediamo e le mangiamo. E, allo stesso modo, il bestiame ha migliorato la qualità delle carni, con razze incrociate. È stato l’ingegno e il lavoro umano a dare una nuova forma alla natura.

Salvaguardare la salute umana e ambientale resta l’obbiettivo comune, ma occorre riuscire a conciliarlo con il progresso della conoscenza, senza fomentare pregiudizi.

Nessuna scoperta dovrebbe farci paura, ma solo il suo uso strumentale a beneficio di pochi.