La geopolitica di Trump: materie prime, non ideali

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La geopolitica di Trump: materie prime, non ideali

L’amministrazione Trump ha pubblicato la sua National Security Strategy: non un documento programmatico qualunque ma il documento nel quale è racchiusa la visione del mondo del Presidente e che indica la strada che sarà percorsa dagli Stati Uniti nei prossimi anni. In questo specifico caso è anche qualcosa di più: un manifesto di rottura. Donald Trump ha deciso di dare un taglio netto, chirurgico, ai fili che hanno retto quello stesso ordine liberale costruito dagli Stati Uniti negli ultimi ottant’anni. E ha deciso di farlo trasformando la geopolitica in una lunga lista della spesa fatta di materie prime e capacità industriale. Gli alleati diventano fornitori, i trattati preventivi.

Le precedenti strategie presidenziali differivano certamente nei toni e nei punti ma condividevano tutte la stessa cornice: l’idea di un’America garante di valori universali, alleata delle grandi democrazie e contraria ai regimi illiberali. Questa volta cambia tutto: lessico, logica, orizzonte.

Nel documento non viene fatto cenno a potenze autocratiche o regimi illiberali, a valori democratici o a un ordine globale universale; la parola chiave cui tutto ruota attorno è “sovereignty”ovvero la volontà assoluta di perseguire i propri interessi materiali senza vincoli ideologici e con un unico obiettivo: massimizzare i vantaggi economici per un’autodeterminazione economica non vincolata da un sistema di valori.


La geopolitica trumpiana è quindi ridefinita in modo pragmatico e numerico come una vera e propria “strategia delle materie prime”. Per la prima volta, la grande potenza americana basa ed esplicita il proprio approccio al potere su ciò che il mondo produce e possiede e quindi, su ciò che il mondo può offrire o meno. Gli alleati diventano partner economici valutati in termini fornitura potenziale e gli antagonisti storici diventano rivali con cui “mantenere un rapporto economico vantaggioso”.

L’Ucraina non è più un conflitto da vincere ma da chiudere, l’Europa non è più un amico imprescindibile ma un costo e un mercato, la Cina non è più una minaccia ideologica ma un competitor economico, il Medio Oriente non più un’area da plasmare per la sicurezza globale, ma un problema da gestire a basso costo che oramai quasi niente ha da offrire a Washington.

Donald Trump rilegge il mondo come una gigantesca cartina geografica dove a essere messe in evidenza non sono le città e i confini ma i giacimenti, i corridoi logistici e le risorse da assicurare all’industria americana e da sottrarre ai rivali.

L’America Latina: fabbrica

Il subcontinente è visto come l’estensione naturale dell’economia americana: miniera e fabbrica a nord con cui sviluppare partnership solide per accaparrarsi le risorse che Brasile, Cile, Perù, Argentina hanno da offrire e strappando questa “periferia produttiva statunitense” alla Cina che ha sempre più influenza nella regione. Il documento ordina di “identificare risorse strategiche” cui questi Paesi sono ricchi (come litio, rame, terre rare) e proteggere i corridoi industriali americani.

Africa: addio aiuti, benvenute risorse

Il Continente smette di essere teatro di missioni umanitarie o stabilizzatrici troppo costose e poco remunerative. L’ideologia viene chiusa in qualche stanzino della Casa Bianca e viene fatto spazio a risorse e mercati. Energia, minerali critici, infrastrutture: la Casa Bianca vuole partner “capaci, affidabili, aperti agli investimenti americani”. L’obiettivo è chiaro: consolidare la presenza americana e ridurre quella cinese e russa.

Medio Oriente: la regione che non serve più

Il Medio Oriente rappresenta, assieme all’Europa, il principale punto di rottura.
Gli USA sono, testualmente, “di nuovo esportatori netti di energia” e dunque il Golfo a cosa serve più?

La regione perde così il suo ruolo centrale nella politica estera americana che si preoccupa ora solo di stabilizzare quel tanto che basta da non creare problemi. La protezione di Israele e il contenimento dell’Iran ovviamente restano, il resto può aspettare.

Europa: variabile dipendente

Lo storico e naturale alleato è ora descritta come “civilization at risk”, una civiltà in declino. La sezione del documento dedicata al vecchio Continente è sicuramente quella più ideologicamente tagliente. Lo studio ovale descrive Bruxelles & Co parlando di: declino economico, crisi demografica, dipendenza da energia e armi, instabilità politica, perdita di identità e chi più ne ha più ne metta.

Il rapporto transatlantico che ha dominato per decenni viene ribaltato. L’Europa non è niente di più che un partner commerciale anche piuttosto fastidioso. Non più un pilastro ma un mercato. Il cambiamento di paradigma è evidente in tutto il documento.

La dicotomia tanto cara agli Stati Uniti tra democrazia e autoritarismo, caposaldo di ottant’anni di politica estera americana, scompare totalmente. Che Donald Trump non fosse proprio il Robin Hood del ventunesimo secolo era abbastanza chiaro ma che arrivasse a un cambio così radicale della strategia di sicurezza americana no.

Tra i rischi principali di questo cambiamento c’è l’indebolimento delle coalizioni storiche, prima fra tutte quella occidentale, la legittimazione implicita dei regimi illiberali e la riduzione del ruolo globale degli Stati Uniti almeno in ottica di ordine internazionale. Un nuovo, duro, realismo economico che segna una frattura profonda con il passato.

La dottrina è chiara: non idee ma risorse.

Per Washington contano i valori, ma quelli dei mercati, con la massima attenzione a non confonderli con quelli politici.