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L’ombra dei peccati dei padri su giovani e lavoro

di Giuseppe Greco

La facilità con cui si accostano i due termini giovane e precario negli anni Duemila è disarmante. La costante ripetizione di queste due parole, ormai, è diventata una specie di cantilena rassegnata che si supera con una scrollata di spalle; in un collettivo che ci possiamo fare? che sottolinea circostanze casuali, inevitabili, che in realtà, però, non hanno nulla a che fare con eventi accidentali. Le colpe ci sono, ci sono i colpevoli e non sono i giovani né la loro supposta pigrizia, non fosse altro che per la carenza di tempo e di spazio, attivo e passivo, nei meccanismi decisionali della nostra società. I peccati dei padri, sono ricaduti, come si suole dire, sui figli.

Se il fenomeno più preoccupante, ad oggi, è la sacrificabilità istituzionalizzata delle donne lavoratrici (si è molto parlato, nelle prime settimane del nuovo anno, delle 312 mila che nel 2020 hanno perso il lavoro, al netto di 444mila unità totali), affatto in secondo piano deve passare il tasso di disoccupazione giovanile, che è tornato a sfiorare il 30%, relegandoci agli ultimi posti dell’area Euro. I due dati, riportati accuratamente dalle maggiori testate giornalistiche nazionali, si pongono su un medesimo piano, a tratti sovrapponendosi: il mese di dicembre è costato 101mila posti di lavoro, quasi interamente occupati da donne (una netta maggioranza) e giovani.

Non sorprende, quindi, che i settori più colpiti nell’annus horribilis che ci siamo lasciati alle spalle, siano proprio quello a più alta percentuale di occupazione giovanile: la ristorazione (che meriterebbe una lunga trattazione) la cultura (con annesse attività creative, artistiche e di intrattenimento) e lo sport. Più del 41% degli impiegati nei suddetti ambiti ha meno di 35 anni e, di questi, una fetta consistente ha un’occupazione a termine o è un lavoratore autonomo. Quasi il 60%, invece, ha un reddito mensile inferiore ai mille euro (di molto, in certo casi). Appare chiaro che nessun futuro appare solidamente edificabile, con questi presupposti, specialmente nel campo culturale, in cui il lavoro assume spesso forme di tirocini non pagati o sottopagati, con orari e mansioni svilenti che degradano anni di studi e fatica dei laureati, oltre che interi secoli di patrimonio culturale del paese.

Rosario De Luca, Presidente della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, ente da cui sono stati estrapolati i dati sopra riportati, in un’intervista rilasciata nello scorso autunno specificava che non si tratta di un problema contingente alle nefaste circostanze attuali: “il vero rischio è che le chiusure determinino disoccupazione strutturale che vada ad aggiungersi a quella già esistente prima del diffondersi della pandemia”.

Ovvio è che, pur non essendo storia esclusiva dei giorni di cui si discute (l’esplosione della gig economy degli ultimi anni e la crisi economica dovuta alla pandemia, sono solo la punta dell’iceberg), i dati non possono che confermare l’assenza effettiva di conseguenze migliorative scaturite delle misure dei governi Conte (Garanzia giovani e Decreto dignità, tra le altre, mirate specificamente all’occupazione giovanile e alla stabilizzazione del lavoro precario), che si sono limitate a tutelare le fasce già, tutto sommato, al sicuro, tralasciando in toto quelle più sofferenti e marginalizzate: partite Iva, autonomi e precari. La questione della protezione del lavoro marginale, sul quale tanti sono intervenuti proclamando imminenti politiche attive, si è cristallizzato, mostrando a pieno la sua sterilità, almeno fino ad oggi, nonostante il dibattito continui con frequenza giornaliera. I grandi capitali che il governo avrà a disposizione nei prossimi anni non sono tutti a fondo perduto e, nonostante le magnificazioni plebiscitarie del nuovo governo Draghi, arriverà il momento della restituzione che, presumibilmente, graverà quasi per intero sulle giovani e future generazioni (già minate degli strascichi delle crisi del 2008 e del 2012, non ancora assorbiti, a detta dello stesso Draghi, dal nostro apparato economico) e, già adesso, fa apparire tangibile la minaccia di una nuova stagione di politiche di austerità. 

Vi sono altri fattori che problematizzano il quadro, già compromesso, delle speranze lavorative dei giovani, e che bisogna ricordare. Il debito pubblico italiano si aggira stabilmente attorno ai 2.500 miliardi di euro, ed è in crescita costante, mentre il PIL aumenta troppo timidamente; il reddito pro-capite (PIL nominale pro-capite), metro di misura più affidabile per quanto riguarda il calcolo del benessere economico degli italiani, è in fase di discesa dal 2008, con riprese appena accennate solo nel biennio pre-covid, (e mostra alcune regioni tragicamente al di sotto della media nazionale, si veda, ad esempio, la Calabria) ed è accompagnato da un tasso di disoccupazione che mantiene stabilità preoccupanti. La deregolamentazione irresponsabile del mercato del lavoro, poi, ed il tentativo continuo di aggiramento delle leggi a tutela dei lavoratori minaccia seriamente l’impossibilità di risoluzione delle problematiche in discussione, evidenziando un adeguamento strutturale a queste tipologie di sfruttamento. 

La scadenza del blocco dei licenziamenti, inoltre, prevista alla fine di marzo e domandata insistentemente da Confindustria attraverso il suo attuale presidente, è imminente; molti sono i giovani a rischio concreto, essendo spesso i primi a pagare il prezzo dei tagli al personale che raramente prevedono politiche sane di ricambio generazionale.

Vien da sé che, dovendo in un modo o nell’altro sopravvivere, i giovani si rivolgano sempre più al sommerso: le statistiche del lavoro irregolare, che è rientrato fra i temi di discussione politica, dopo anni di semi-dimenticanza, sono tornate ad essere allarmanti. I numeri ci collocano tra i Paesi dell’Europa occidentale con il tasso più alto di occupazione in nero, ma la classifica sarebbe ben peggiore, di quanto è già, se si tenessero in considerazione solo le regioni meridionali.

È dalla fine del boom economico che s’accumula debito pubblico, che fra presunti nuovi boom e svolte economiche, s’accavallano crisi, stagnazioni e recessioni più o meno intense. Una generazione intera, ormai, è condannata a sopravvivere fra attese croniche di rinnovi contrattuali, calcoli al centesimo delle spese mensili, delle bollette pagate e da pagare; una generazione bistrattata e senza voce, con tasche vuote e opportunità negate, il cui futuro non può che apparire incerto. Si resta in attesa di capire, e vedere, soprattutto, quali saranno i programmi in merito del nuovo esecutivo e se potranno, o meno, porre un rimedio alle criticità sopra descritte, ormai radicate nel mondo del lavoro italiano, riportando al centro la questione dell’occupazione giovanile, femminile e meridionale.