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Ospedali e sale d’attesa, guida semiseria

Un lungo viaggio tra sedie a rotelle, cartelli e grondaie

Bologna – È quasi cinque anni che sono gradita ospite delle sale d’attesa degli ospedali. E ho sviluppato mentalmente una guida intergalattica per pazienti e familiari. In particolare, i miei viaggi si sono svolti a Bologna e provincia.

Quartier generale è il policlinico Sant’Orsola-Malpighi che unisce il nome di una santa, la patrona delle maestre che si dice fosse anche una donna bellissima, a quello di un medico appassionato di microscopio ottico, di rane e di maiali. La speranza, perciò, qui abbonda già a cominciare dal nome.

Il parcheggio

Innanzitutto, chi vive nelle sale d’attesa del policlinico diventa subito estimatore di chi manovra la sbarra d’accesso, dal viale. Il paziente classico fatica sempre a camminare, ma puntualmente il suo sforzo non è certificato da contrassegno. Diventa perciò indispensabile l’umana comprensione del manovratore che, per fortuna, abbonda. A tal punto che, poi, non si ha cuore di disobbedirgli, quando ci invita ad uscire subito con l’auto, dopo aver accompagnato il paziente. A questo punto comincia il girovagare per la città fino a rassegnarsi a quel parcheggio chiamato Sant’Orsola che di misericordioso ha davvero poco, essendo tra i più cari della città. Per di più, è incastonato in modo tale che se non passi da lì, sei in contravvenzione. Non è dell’ospedale, perciò ogni volta che si ripete questo rituale obbligato ci si domanda: perché una rigogliosa città della salute non ha un bel parcheggino sereno? Poi, c’è il rientro per riprendere il paziente: dal parcheggio devi circumnavigare di nuovo la città per tornare alla sbarra e domandare cortesemente la medesima cosa che puntualmente viene concessa. E così ripartono i ringraziamenti a queste anime pie.

Il tour delle tac

Tutto ciò accade praticamente sempre. 

Per esempio, quando si va a fare la tac al padiglione 5, etichettato come “Nuove Patologie” (quali saranno?), ma per tutti è noto come il padiglione della fontana. Sala d’attesa con vetrate colorate, belle. E veniamo così al tour delle tac che costituiscono una rete a parte. Oltre al padiglione 5 con tac extra-lusso, si va al padiglione 2 (Malpighi di via Palagi) o in quello di via Albertoni, entrambi ambienti color giallo-grigio con cui ben si mimetizzano le ansie e, quindi, i volti dei pazienti. Le sale d’attesa? In una, a intrattenerti è un monitor che passa incessantemente parrucche, dentiere e apparecchi acustici. Nell’altra chiamano il paziente anche per patologia: “chi è il tumore alla prostata?”, in barba alle quintalate di privacy che firmiamo e che ci domandiamo sempre in quale misterioso archivio gigantesco vengano poi custodite. Il grand tour tac si estende anche in provincia, Bentivoglio e Bazzano. Bene il primo, rapidi. Ottimo il secondo in cui, oltre a gentilezza, c‘è chi si assume anche la responsabilità aggiuntiva di firmare un modulo per conto terzi. Questo è uno dei gesti che, in sala d’attesa da cinque anni, ci ha fatti davvero sobbalzare sulla sedia, per il felice stupore.

Le carrozzine

E adesso veniamo alle altre protagoniste indiscusse delle nostre attese: le carrozzine incatenate, a disposizione dei pazienti. Si trovano agli ingressi degli ospedali, liberate dalle catene solo in cambio della nostra identità. Anche quelle di ultima generazione, “geolocalizzate” sul retro schienale, sono anarchiche. Le ruote non si girano, se non dalla parte in cui decidono di andare. Gli appalti per le sedie, chissà, si vinceranno anche in base a requisiti come la capacità di ribellione delle rotelle o le forze occulte che si impossessano delle sedie.

Le grondaie

Ma lasciamo le tac e le carrozzine perché la nostra guida instant book, in realtà, si occupa più di attesa. E l’attesa porta a fare gli incantati veri, ai vetri. Dalle finestre si diventa profondi conoscitori delle pareti esterne. Delle grondaie. Pare che tutte le grondaie dei padiglioni siano munite o rotte. Otturate o lacerate. I rigoni neri che solcano gli edifici ce lo mostrano, e i muri disincrostati lo confermano. Chissà perché, in fondo tetti e pluviali sono la testa degli edifici, come i sotterranei i piedi e le finestre gli occhi.

Distributori di merendine

Altra passione di chi attende diventa inevitabilmente quella per le macchinette, i distributori automatici. Sempre più all’avanguardia, meravigliose e certamente più amiche di quanto siano i bar interni in cui un bel panino farcito di salume costa intorno ai sei euro. Eppure anche le macchinette, prima di diventare proprio amiche per la pelle, dovrebbero un attimo riscaldarsi. Il tarallino pugliese esce a 10 gradi se sei fortunato, freddo gelato come la Sprite, lo stesso per i cracker, freddi come la coca-cola servita ghiacciata sulla spiaggia di Rimini. 

Le parole difficili parlate dai cartelli

Infine, c’è la miriade di cartelli che ci avverte, spiega, intima, raccomanda. Spesso con parole difficili da comprendere. Dal “non bussare” sulle porte che induce a domandarsi come ci si può annunciare fino alle “sale di followup”. Sono davvero tanti i cartelli, alcuni risalgono al secolo scorso, come quelli con il divieto di fumo o con disposizioni normative in cui praticamente si citano i regi decreti. Un bel tour di bonifica per ripulire i muri che parlano linguaggi antichi o troppo artificiosamente moderni da risultare incomprensibili sarebbe salutare, anche se il divertimento per chi frequenta sale d’attesa – lo confessiamo – sarebbe fortemente ridotto.