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Parole tossiche, nasce l’infodemia da pandemia

Una Babele nelle nostre teste, in una società carente di HealthLiteracy

Inquinamento da parole, tossico, se non un vero e proprio contagio. Tanto che con la pandemia nasce la infodemia. È la lotta contro l’“infodemia” diventa una delle linee prioritarie nella gestione del Coronavirus. A dichiarare che è come una malattia “quell’abbondanza di informazioni, alcune accurate e altre no, che rendono difficile per le persone trovare fonti affidabili quando ne hanno bisogno” è proprio l’Organizzazione mondiale della Sanità (OMS, 2020). E l’Italia risulta un paziente con una forma acuta di infodemia, con una mole di notizie di ogni genere,  misinformazione e disinformazione1. Solo qualche esempio degli ultimi giorni. Il principale telegiornale serale di due giorni fa: la giornalista annuncia la decisione di Aifa di sospendere le somministrazioni del vaccino Astrazeneca, solo a scopo precauzionale, mentre il suo mezzo busto è incorniciato dal titolo: “Aifa: il vaccino è sicuro. State tranquilli”. Analogamente per la carta stampata, uno dei principali quotidiani nazionali titola “l’Emilia-Romagna ritira il vaccino Astrazeneca”, per scoprire poi nell’articolo che l’assessore regionale Donini rassicura sul vaccino e annuncia il ritiro delle eventuali fiale del lotto xy. Per finire con le “civette” dei quotidiani, i grandi fogli esposti fuori dalle edicole che annunciano la notizia principale: la stessa edicola ne espone due di due diversi quotidiani, appunto, e, a fronte dello stesso numero di contagi e di decessi, uno “strilla” un peggioramento e l’altro annuncia un miglioramento. 

Social

Poi, c’è tutta l’informazione veicolata dai social network. Il 70% di tutti gli articoli italiani monitorati nei primi mesi di pandemia facevano riferimento al Coronavirus; tra il 30 gennaio e il 3 maggio 2020 sono stati pubblicati oltre 2 milioni e 700 mila post in lingua italiana su Facebook su questo tema, per un totale di oltre 480 milioni di interazioni. L’Italia è stato il Paese con la più alta percentuale di persone che accedevano quotidianamente a notizie e informazioni sul virus (58%), superando Paesi come Corea, Giappone e Stati Uniti, mentre il tasso di disinformazione cresceva dal 5% di inizio gennaio al 46% di fine marzo (AGCOM, 2020)2.

Su un campione di contenuti falsi sul Covid-19, il 59% di questi si basa in una certa misura su informazioni vere che sono state manipolate, mentre il 38% è interamente inventato, i social media sono la fonte dell’88% della misinformazione circolante (Reuters Institute). “La misinformazione e la disinformazione si stanno diffondendo sempre di più attraverso i servizi di messaggistica come WhatsApp o Facebook Messenger, che non sono accessibili a osservatori esterni e a moderatori di contenuti e pertanto sono meno visibili e più difficili da contrastare all’origine. Questi risultati evidenziano il ruolo centrale che le aziende quali Facebook, Twitter e altre piattaforme social rivestono nell’affrontare il problema, come descritto nel policy brief dell’OCSE “Combating Covid-19 Disinformation on Online Platforms”(OCSE, 2020). Anche la portata reale della disinformazione è difficile da stimare, poiché alcune ricerche suggeriscono che le persone sono propense a condividere misinformazioni più di quanto non credano”3

Poi, c’è un’aggravante che spiega la situazione di particolare diffusione di infodemia in Italia: le lacune di base (sulla salute) del pubblico che dovrebbero far riflettere chi si occupa di sanità pubblica sulla continua necessità di una comunicazione, già in tempi ordinari. Nel rapporto medico-paziente, l’importanza della comunicazione si sta già apprezzando da diversi anni e, non a caso, le “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento” (n. 219 del 22 dicembre 2017) stabiliscono all’art. 8 che “Il tempo della comunicazione costituisce tempo di cura”, diversamente accade a livello collettivo e istituzionale: il lavoro resta ancora da fare.

HealthLiteracy

“I dati dell’Eurobarometer (European Commission 2014) ci indicano che 1 italiano su 2 ha un livello di alfabetizzazione sanitaria, altrimenti detta HealthLiteracy, problematica. Metà della popolazione quindi non dimostra di avere le capacità per affrontare una ricerca su temi di salute sul web e, soprattutto, per destreggiarsi tra i risultati della ricerca stessa, distinguendo fonti attendibili con contenuti inappuntabili, da siti meno nobili. Non a caso, nei corridoi di una geriatria o una medicina generale di un ospedale pubblico qualsiasi, non è raro imbattersi in quei cartelli in cui il personale medico invita sarcasticamente a diffidare del “dottor Google”. Siamo al quart’ultimo posto in Europa per questo tipo specifico di “ignoranza” e recenti pubblicazioni ci aiutano a comprendere la reale portata di questi dati4. Avere una maggiore cultura pubblica di tipo scientifico ci consentirebbe quantomeno di distinguere, anche come cittadini, concetti come quello di probabilità e quello di correlazione, così come una maggior HealthLiteracy ci permetterebbe un maggiore benessere anche sociale.

Tutto ciò in tempo di crisi e, soprattutto, di emergenza sanitaria può avere riflessi importanti anche sulla tenuta della coesione sociale. Vediamo perché. Già nell’ottobre 2019, nella speciale classifica mondiale stilata per misurare la capacità di prevenzione e controllo di una possibile pandemia, il “Global Health Security Index”, l’Italia occupa soltanto la trentunesima posizione. La maggiore criticità evidenziata dai ricercatori statunitensi riguarda l’unico indicatore in cui siamo ampiamente al di sotto della media (solo 22 punti su 100, su una media mondiale pari a 39,4): la “comunicazione del rischio alla popolazione”. Ed ecco qual è il grande pericolo: la percezione e l’accettabilità del rischio dipendono da fattori come l’equa distribuzione di eventuali conseguenze, la familiarità di comportamenti considerati rischiosi oppure l’illusione psicologica di poter controllare una determinata fonte di pericolo. Questo deficit del nostro Paese si è manifestato anche in particolari criticità nella comunicazione istituzionale sull’emergenza Coronavirus: “un’incomprensibile e controproducente enfasi “numerologica”, l’abuso metaforico (il virus come guerra), la mancata presentazione di una chiara prospettiva di uscita (quando? come?) dalla crisi, il cattivo coordinamento comunicativo tra centro e periferia. Quest’ultimo aspetto risulta essere particolarmente importante5.

1La misinformazione si ha quando informazioni false sono diffuse, ma senza l’intento di creare danno; la disinformazione quando informazioni false vengono diffuse consapevolmente, con l’intento di creare un danno. Poi, vi è anche la malinformazione: quando informazioni autentiche vengono diffuse con l’intento di creare un danno, spesso rendendo pubblico ciò che è stato progettato per rimanere nella sfera privata.

2A. Lovari – N. Righetti, La comunicazione pubblica della salute tra infodemia e fake news: il ruolo della pagina Facebook del Ministero della Salute nella sfida social al Covid-19. Disponibile su

mediascapesjournal.it ISSN: 2282-2542

3 Quale comunicazione pubblica ai tempi del Covid-19? Trasparenza e fiducia contro la disinformazione, a cura di E. Barbera, E. Tosco, Dors

4 Per esempio, i pazienti con un livello di alfabetizzazione congruo  abusano meno di farmaci e pronto soccorsi, aderiscono con maggiore consapevolezza e sicurezza ai protocolli terapeutici prescritti, vengono ricoverati meno di frequente e sono meno soggetti a nuovi ricoveri entro 30 giorni dalla precedente dimissione.

http://www.medicjournalcampus.it/fileadmin/MEDICS/archivio/vol_1_2_2018/numero_1_giu_2018/06_Conte.pdf

5http://www.bollettino.unict.it/articoli/comunicazione-e-gestione-delle-crisi