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Perché i giovani lasciano l’Italia?

La storia di Alessandro, giovane direttore d’azienda che si dimette per andare a Sidney in cerca di una vita più avventurosa. Nel 2022 un emigrato italiano su tre, per un totale di trentuno mila, ha tra i 25 e i 34 anni.

Mentre il Governo continua a storcere il naso davanti alla migrazione in arrivo, è in corso dall‘Italia una vera e propria fuga di cervelli, sulla quale il clamore mediatico e politico è invece di gran lunga minore. I dati Istat, pubblicati nell‘ultimo rapporto “Migrazioni interne e internazionali della popolazione residente” risalente al 2022, segnalano infatti che un emigrato italiano su tre, per un totale di trentunomila solo nell’anno passato, ha tra i 25 e i 34 anni. Ben quattordicimila di questi sono in possesso di una laurea o di un titolo superiore. Il fenomeno ha i caratteri di un esodo continuo, soprattutto nel Mezzogiorno, dove le opportunità di un lavoro con una congrua retribuzione o di fare carriera risultano essere minori rispetto al resto dell’Italia. Dalle regioni meridionali, i giovani in questione si recano infatti al Centro Nord, oppure all’estero, verso cui rimane costante, al fine di arricchire il proprio bagaglio di esperienze, anche la migrazione dalle regioni del ricco Nord, quali Lombardia, Piemonte, Valle d’Aosta e Friuli.

La ricerca di un lavoro meglio retribuito e che garantisca una più alta qualità della vita è quasi sempre il fine ultimo di queste partenze che spesso diventano scelte di vita definitive. Si stima infatti che, tra il 2012 e il 2021, stando ai dati Istat, sia espatriato dall’Italia oltre un milione di residenti (di cui circa un quarto laureati), una buona parte dei quali proveniente dal Nord. Sono oltre trecentomila i giovani tra i 25 e i 34 anni emigrati nel decennio sopracitato e di essi oltre centoventimila sono laureati.

Alcuni di loro, tuttavia, non lasciano la terra natia per ricercare migliori condizioni economiche, ma perché talvolta, spuntare tutte le caselle imposte dalla società non garantisce la felicità. Non sempre una bella casa, la gestione di un’azienda e i più svariati benefit ad essa correlate sono abbastanza per ritenere la propria vita degna di essere vissuta. Si inizia allora a guardare altrove, sempre più lontano, mettendo in atto un quiet quitting non solo dal proprio lavoro, ma dalla vita abitudinaria e poco soddisfacente a cui si è abituati.

È ciò che ha fatto Alessandro Amadini, monzese classe 1989, in procinto di cominciare una nuova vita a Sydney, la cui storia si discosta dalla sopracitata ricerca di migliori condizioni economiche o di un lavoro più stabile. Dopo la laurea triennale e la magistrale in Ingegneria, ha raggiunto in una decina di anni ciò che per molti rimane un’aspirazione o il frutto di una fortunata concatenazione di eventi: il ruolo di Direttore Generale di una modesta azienda lombarda. Si è accorto però che la posizione di responsabilità e la buona retribuzione non fossero ciò che voleva per se stesso, senza prima aver sperimentato, girato il mondo, vissuto per davvero. Da qui la decisione di lasciare tutto e partire, a proposito della quale lo abbiamo intervistato.

A che punto era la tua carriera in Italia e quali sono i tuoi studi?

Il mio percorso di studi è stato molto lineare ed essenziale: non mi sono mai preso pause né per riflettere né per viaggiare. Al termine dei miei studi in Ingegneria, nell’arco di una settimana dalla laurea ho iniziato a lavorare in un’azienda di medie dimensioni e sono rimasto lì per più di otto anni. Il mio percorso è stato di crescita, ma mi mancava qualcosa, avevo un senso di insoddisfazione costante. È stato per questo motivo che all’inizio del 2022 ho cambiato azienda, rimanendo comunque nel settore che avevo imparato a conoscere. Anche questa seconda azienda è stata interessata, come la prima, da una serie di dimissioni e questo ha liberato una rapida via verso i suoi vertici. In breve ho assunto il ruolo di direttore operativo e verso metà del 2023 mi è stato chiesto se fossi disposto a diventare direttore generale.

Quando hai iniziato a pensare di volere “di più”, per te stesso?

Credo che tutti vogliamo di più per noi stessi, sempre di più, è questo che ci ha fatto uscire dalle caverne e diventare quello che siamo oggi. Il mio personale di più è cambiato nel corso degli anni: il titolo di studio, il lavoro, lo stipendio, la macchina, la casa, il ruolo di responsabilità e prestigio.

Quando ho cambiato lavoro credevo che coltivare ulteriormente e sviluppare questi aspetti mi avrebbe guarito da quell’insoddisfazione che mi attanagliava, ma in poco tempo ho invece capito che non era così: non era quella la strada giusta. È nata così nella mia mente l’idea di prendere un percorso diverso, diametralmente opposto: lasciare il lavoro, chiudere casa e andare il più lontano possibile, dove poter dare libero sfogo al mio impulso di sperimentare, scoprire e sbagliare, in altre parole rompere quel gesso in cui sentivo di essermi intrappolato. È stato un periodo difficile, perché  mi sentivo come una mosca intrappolata sulla carta appiccicosa: ogni volta che liberavo una zampetta verso il mio progetto, altre due affondavano in un mare di ma. Ma genitori e amici sono qui, ma hai un ottimo stipendio, ma hai un mutuo da pagare, ma sarai disoccupato, ma ti hanno messo nelle mani un’azienda, ma hai studiato tanto per arrivare qui, ma, ma, ma. Ciò che mi ha definitivamente liberato dalla trappola è stato il supporto di tante persone speciali, che hanno reso concreta la mia idea, in particolare Elisabetta, anche lei ingegnere, che partirà con me.

Ti spaventa non avere un lavoro ad aspettarti in Australia?

Mi sento più elettrizzato che spaventato. L’obiettivo di questa esperienza è l’esperienza stessa. Non sto fuggendo dall’Italia per cercare fortuna, mi sto prendendo una pausa da una vita troppo lineare e ormai non più in grado di emozionarmi come vorrei.

Hai delle aspettative legate alla tua partenza, a ciò che troverai o alla qualità della vita?

Ho vissuto e agito finora sulla base di un pacchetto di aspettative che la nostra società ci impone e progettando ogni cosa nei minimi dettagli. Ora, l’aspettativa con cui parto è aprire la mente il più possibile, superare i miei bias mentali e tornare a osservare ciò che mi circonda con occhi neutri e pronti a stupirsi. In questo, confido mi aiuteranno il Cammino di Santiago, che percorrerò in settembre e ottobre, e il mese che trascorrerò in Vietnam per poi arrivare finalmente a Sydney il 28 novembre.

C’è qualcosa del tuo percorso di studi o lavorativo che non rifaresti, se potessi tornare indietro?

Da una parte, sarei tentato di dire che cambierei tutto, ma questo lo dico ora, con la cognizione che ho oggi, della quale sono grato e soddisfatto. Quindi, considerando che il mio percorso mi ha permesso di arrivare mentalmente a questa scelta di vita ed economicamente a potermela permettere, non cambierei nulla.

Che cosa manca, secondo te, al mercato del lavoro italiano?

Preciso che la mia esperienza va un po’ in controtendenza: non parto perché mi manca il lavoro o perché voglio uno stipendio più alto, ma per desiderio di avventura. Secondo me, al mercato del lavoro italiano manca la lungimiranza. C’è una sensazione generalizzata di “stare a galla”. Non si può proporre a una generazione di giovani di belle speranze la prospettiva di stare a galla, perché appena vedranno altrove lungimiranza e prospettive coglieranno l’opportunità.