Rocco Chinnici, chi era l’ideatore del pool antimafia

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Rocco Chinnici, chi era l’ideatore del pool antimafia

A quarant’anni dalla sua uccisione abbiamo intervistato Giovanni Chinnici, il figlio del giudice maestro di Falcone e Borsellino.

La ricerca della verità, la cultura del lavoro e della legalità, la dedizione verso la propria professione e la consapevolezza che il proprio sacrificio non sarebbe stato vano. Sono stati questi i fari che hanno guidato Rocco Chinnici nel suo operato volto a sradicare il male della mafia da un Paese quale l’Italia che, ancora oggi, sembra non comprenderne appieno la gravità e i pericoli scaturiti dalla sua sottovalutazione. Il giudice Chinnici, il cui impulso alla guida dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo diede una svolta decisiva nella lotta alla mafia preparando il terreno a quello che sarebbe passato alla storia come il ‘’Maxiprocesso di Palermo’’ iniziato il 10 febbraio del 1986, invece, ne era ben conscio e sin da quando venne nominato magistrato il 31 marzo 1953 davanti alla corte del tribunale di Trapani ha adoperato ogni singolo mezzo in suo possesso per sconfiggere la criminalità organizzata, pagando con la sua stessa vita il 29 luglio 1983 il proprio lavoro coraggioso e tenace.

“Trecento giorni di sole: la vita di mio padre Rocco, un giudice scomodo’’

Coraggio e tenacia: due termini dal significato profondo che traspaiono appieno dal libro ‘’Trecento giorni di sole: la vita di mio padre Rocco, un giudice scomodo’’, opera scritta da Giovanni Chinnici uno dei tre figli dell’ideatore del Pool Antimafia, il più piccolo di casa – prima di lui nacquero Caterina ed Elvira – pubblicato lo scorso 11 aprile da Mondadori, a distanza di quarant’anni esatti dall’attentato di via Pipitone a Palermo che strappò alla propria famiglia, alle otto del mattino di una mattina estiva apparentemente come le altre, un uomo dai valori solidi e dalla spiccata determinazione, oltre che un magistrato di indubbio spessore. Una morte cruenta e barbara, decisa dai cugini Ignazio e Nino Salvo e il cui esecutore materiale fu Antonio Madonia che azionò il telecomando che determinò l’esplosione proprio davanti a dove Chinnici viveva con i propri cari. Una esplosione quasi irreale ma che, tristemente, era quanto di più vero potesse esserci e che causò la morte anche di Mario Trapassi, Salvatore Bartolotta e Stefano Li Sacchi. Giovanni Chinnici ha 59 anni, uno in più di quanti ne avesse il padre quando venne ucciso, e rievoca con naturalezza e massima precisione un momento di estremo dolore che ha cambiato radicalmente la sua esistenza, così come i tanti istanti lieti e le piccolezze della vita quotidiana trascorsi con suo padre, in quei settemila centoquarantasette giorni che hanno vissuto insieme prima della sua morte. Pochi, troppo pochi, come dice lui stesso nella premessa del suo libro, ma quanto di più prezioso ci sia per andare avanti nel proprio cammino con la consapevolezza che quanto realizzato dal proprio padre rappresenta una lezione di immenso valore per tutti coloro che sanno cogliere l’importanza dell’onestà e, in particolare, per i più giovani. I giovani che Rocco Chinnici amava tanto e che rappresentano la risorsa più preziosa contro Cosa Nostra e chiunque cerchi di sopraffare il prossimo con la violenza e l’intimidazione.

Giovanni Chinnici quando ha preso la decisione di scrivere il libro?

«La scelta di scrivere il libro è frutto di un ragionamento molto attento. Ero già da qualche anno in contatto con la Mondadori, mi era stata fatta la proposta di scrivere un libro che raccontasse la storia di mio padre. Prima di accettare, chiaramente, volevo essere certo di ciò che stavo facendo e volevo prendermi tutto il tempo necessario per adempiere a questo impegno al meglio. Sicuramente, la ricorrenza dei quarant’anni dalla morte di mio padre mi ha dato la spinta per mettermi all’opera».

Ci sono stati momenti complessi nella fase di realizzazione del libro?

«Forse solo nel momento iniziale ma poi scrivendo di giorno in giorno mi sono accorto di non avere alcuna difficoltà, anzi: i ricordi mi hanno guidato, è stato tutto molto spontaneo. Certo, non sono mancati gli istanti in cui mi sono posto alcune domande mentre andavo avanti nel raccontare quelle vicende ma è un aspetto inevitabile con cui fare i conti».

A quali istanti fa riferimento?

«Proprio alla fine del processo di elaborazione, ormai a stesura praticamente ultimata, ho avuto qualche titubanza sulla descrizione della morte di mio padre. Temevo di essere troppo crudo nel descrivere un momento così tanto drammatico dove la ferocia della mafia è emersa in tutta la sua forza».

Alla fine del gennaio 2018 è uscito su Rai1 il film su suo padre, con protagonista Sergio Castellitto, intitolato ‘’È così lieve il tuo bacio sulla fronte’’ con la regia di Michele Soavi. Come è stato guardare la pellicola e che giudizio ha in merito?

«Il mio è un giudizio indubbiamente positivo, abbiamo visto la sceneggiatura in anteprima e si è rivelata fedele a ciò che era mio padre e a ciò che era la nostra vita familiare. Certo, c’è qualche piccola imprecisione ma viene giustificata da esigenze narrative tipiche di ogni lavoro televisivo o cinematografico».

Ad esempio?

«C’è una scena in cui mio padre viene raffigurato mentre piange dopo la morte del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Papà non pianse mai nella sua vita, era un uomo molto tenace e dalla grande fierezza, chiaramente era figlio dei suoi tempi e di un periodo storico molto diverso da quello che ho vissuto io o che vivono adesso i più giovani».

A proposito dei giovani: suo padre fu il maestro di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, qual era il loro rapporto?

«Un rapporto di totale fiducia e di grandissima stima reciproca, oltre che di grande affetto. Il primo ricordo che ho di Giovanni Falcone risale al 1980, ero un adolescente e ricordo Giovanni arrivare a casa nostra per un pranzo domenicale. Chiaramente erano due rapporti diversi, per un insieme di motivi: il rapporto che papà aveva con Giovanni era più individuale nel senso che coinvolgeva principalmente loro due, mentre con Paolo il legame si era esteso anche alle rispettive famiglie, avendo lo stesso Paolo tre figli. Era una amicizia nel vero senso della parola familiare, ho tanti bei ricordi della famiglia Borsellino e mi sarebbe piaciuto inserire nel mio libro qualche aneddoto di quei giorni».

Che giudizio aveva suo padre della politica?

«Papà era un uomo e un professionista assolutamente indipendente, questo è stato il suo caposaldo. Era totalmente dedito al suo lavoro e alla sua famiglia, non tollerava interferenze della politica e ha sempre sostenuto fermamente nella sua vita la necessità di una totale indipendenza dalle sfere della politica. Mio padre era un democratico, per lui la democrazia era un valore concreto e fondamentale, le sue idee non si rispecchiavano in un partito politico specifico. Sicuramente, però, ebbe una vicinanza e una visione d’insieme comune con l’Onorevole Pio La Torre del PCI con cui collaborarono attivamente nel momento in cui Pio La Torre stava scrivendo il disegno di legge che poi prese il suo nome e per il quale mio padre fornì materiale e un supporto di grande rilevanza».

Lei Giovanni, proprio come sua sorella Caterina, è laureato in Giurisprudenza e svolge la professione di avvocato. Quale fu la reazione di suo padre quando scelse questo percorso universitario?

«La mia fu una scelta poco decisa, seppur la passione comunque non mancasse. Era normale chiaramente, avevo diciotto anni e a quell’età si procede per tentativi, è giusto che sia così, un giovane ha bisogno di tempo per poter trovare la propria direzione, è un processo che richiede tempo. Detto ciò, mio padre fu molto contento della mia decisione, per lui era fondamentale che noi figli, ma in generale ciascuna persona, svolgesse il proprio compito al meglio e con la massima correttezza».

Quali erano le passioni di suo padre?

«Mio padre aveva due grandi passioni ovvero il suo lavoro e la sua famiglia. Sono stati i punti cardini della sua vita, a cui non è mai venuto meno nonostante negli anni la situazione si facesse sempre più delicata e le rinunce fossero tante, dettate dai pericoli a cui era esposto con il proprio lavoro. Nonostante ciò, mio padre non ha mai fatto pesare su di noi le difficoltà dettate dal proprio operato, anzi: sapeva essere sempre rassicurante e pronto a dare sostegno a noi figli e a nostra madre Agata Passalacqua».

Cosa amava suo padre oltre al lavoro e alla famiglia?

«Amava profondamente la letteratura e la musica classica e, in particolare, la campagna. Mio padre veniva dalla campagna, ricordo i fine settimana nella casa di via La Masa a Misilmeri di cui mio padre era originario ma anche le estati nella casa di campagna di San Ciro, in cui ci trasferivamo sempre il primo giorno di agosto, oppure le giornate insieme al fratello di papà ovvero lo zio Giusto, la cui abitazione si trovava nella contrada Caccamisi nel mezzo del Piano Stoppa, un piccolo altopiano sopra Misilmeri circondato da montagnette. Per papà andare in campagna non era semplicemente ritagliarsi un momento di svago e di riposo, ma rappresentava qualcosa di molto più significativo: era proprio come tornare alle origini. Adorava la campagna, aveva con la terra un rapporto viscerale».

Qual è l’insegnamento più importante che le ha trasmesso suo padre?

«Il valore dell’indipendenza, sotto tutti i punti di vista. La sua linea guida è diventata anche la mia. Oltre ciò, direi indubbiamente anche il valore della libertà e l’amore per essa, oltre alla passione incrollabile per il proprio lavoro e il coraggio di prendere delle decisioni e fare delle scelte importanti, senza pensare ai patemi d’animo che da esse potrebbero inevitabilmente nascere».

Come definirebbe suo padre?

«Papà era un uomo rigoroso, nell’accezione migliore del termine. Ha sempre preteso il massimo da sé, svolgendo il proprio ruolo con indefesso impegno e scrupolosità. Un impegno che non verrà mai dimenticato e che rappresenta una delle pagine più significative della lotta alla mafia».