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Toponomastica femminile, Clelia Romano Pellicano: ora Reggio Calabria le intitola una strada

La femminista e influencer dell’Ottocento si batteva per i diritti delle donne dalla locride all’Europa

«Ricordatevi voi donne d’ogni razza, d’ogni paese – da quelli dove splende il sole di mezzanotte a quelli in cui brilla la Croce del Sud – qui convenute nella comune aspirazione alla libertà, all’uguaglianza, strette da un nodo di cui il voto è il simbolo, ricordatevi che il nostro compito non avrà termine se non quando tutte le donne del mondo civilizzato saranno sempre monde dalla taccia di incapacità, d’inferiorità di cui leggi e costumi l’hanno bollate finora!».

Queste sono le parole pronunciate da Clelia Romano Pellicano, scrittrice, giornalista e pioniera del femminismo in Italia nella seconda metà dell’800, nel saluto inaugurale al Congresso Internazionale femminile, nato nel 1902, con la partecipazione di delegate da tutto il mondo, dall’Europa all’Australia alla Nuova Zelanda, fino ai Paesi africani. 

Toponomastica femminile, è necessario riequilibrare

Due giorni fa le è stata intitolata una strada a Reggio Calabria. Alla cerimonia, insieme al presidente della Commissione Toponomastica, Domenico Cappellano, e alle attiviste dell’associazione Soroptimist, era presente l’assessora alla Parità di genere, Angela Martino, che si è detta «molto contenta di presenziare ad un’iniziativa dedicata ad una femminista ante litteram,  convinta europeista, una visionaria per l’epoca in cui è nata e vissuta». «È, quindi, importante un’azione in tal senso perché abbiamo il dovere di riequilibrare le intitolazioni fra i generi», ha aggiunto l’assessora Martino.

Sulla toponomastica femminile ci sono anche diversi movimenti di opinione organizzati per lo più attraverso i social, nonché un’associazione nata ad hoc: “Toponomastica femminile” che si è costituita dieci anni fa e la cui presidente è la docente Maria Pia Ercolini. Nell’ultimo censimento pubblicato le vie intitolate alle donne risultavano 4 su 100, e per lo più dedicate a madonne e sante. Anche città come Roma e Bologna presentavano percentuali al di sotto del 4%. Per esempio, a Milano su 4.250 strade (censimento 2019), 2.538 sono dedicate a uomini e solo 141 a donne, di cui 20 a Madonne, 23 a sante, martiri e beate, 4 a suore e benefattrici, 27 a letterate, umaniste, solo due a scienziate (Marie Curie e Gaetana Agnesi), 14 a donne dello spettacolo e 7 ad artiste, 35 a figure storiche e politiche, 3 a imprenditrici, artigiane, 2 a figure mitologiche e letterarie, 2 a figure sportive, 2 a nomi femminili non identificati quali toponimi legati a tradizioni locali.

Chi era Clelia Romano Pellicano

Clelia Romano Pellicano nasce nel 1873, figlia del barone Giandomenico Romano e Pierina Avezzana, figlia del leggendario generale garibaldino Giuseppe Avezzana. Si sposa con il marchese calabrese Francesco Maria Pellicano, dell’illustre casato di Gioiosa Ionica. La giovane coppia si trasferisce presso le residenze del marchese nella locride, dove Clelia apprende della condizione della donna in Calabria. Nel 1909 perde il marito Francesco Maria, ciò la costringe ad occuparsi da sola dei sette figli e a tutelare il patrimonio di famiglia, dell’azienda agricola e dell’industria della seta. Crea nuove attività, utilizzando il fondo boschivo a Prateria (a San Pietro di Caridà nella locride) dove nasce l’azienda S.p.a. Calabro forestale, che contribuisce allo sviluppo di quel territorio.

Le iniziative di Clelia Romano Pellicano

Clelia Pellicano è stata una pioniera del femminismo in Italia ma anche in Europa. Convinta europeista, sfruttò la sua posizione privilegiata e le sue conoscenze, partecipando a conferenze femministe e a battaglie per i diritti al voto delle donne, dei diritti delle donne all’istruzione, puntando all’affermazione di una dimensione extradomestica delle donne e alla rivendicazione del ruolo femminile nella stampa dell’epoca. Svolse il mestiere di giornalista, cosa molto rara per una donna in quell’epoca, fu corrispondente della rivista mensile “Nuova Antologia” di Firenze, nella sede romana, nella quale vi partecipavano importanti scrittori dell’epoca come Pirandello, Verga, De Amicis, Grazia Deledda. Sulla rivista pubblicò un’interessante indagine sulle donne illustri nella storia di Reggio Calabria e un’inchiesta sulle industrie e le operaie del capoluogo calabrese, che venne pubblicata nel 1907, (Donne e industrie nella Provincia di Reggio Calabria, Roma, “Nuova Antologia“, 1907). Riportiamo in nota qualche passo descrittivo della bachicoltura1. Nella stessa rivista, portò alla luce attraverso le sue inchieste i meccanismi di potere in Calabria, il ruolo del clero, e la condizione femminile dell’epoca.

Nel 1910, scrisse la prefazione del libro La legge e la donna di Carlo Gallini, opera che ambiva a sollecitare il parlamento italiano ad ammettere le donne al voto. Nel 1914 aveva partecipato al congresso per rivendicare i diritti sociopolitici delle donne, a Roma, per richiedere una migliore retribuzione del lavoro femminile al pari degli uomini.

I suoi primi racconti vennero pubblicati nella rivista “Flegrea” con lo pseudonimo di Jane Grey, seguirono raccolte e novelle come Gorgo, Verso il destino romanzo che raccontava fatti e personaggi appartenenti a vari ceti sociali, di cui si sono perse le copie, Coppie del 1900 e La vita in due del 1908, romanzi audaci dove si raccontavano le difficoltà del matrimonio, i problemi sentimentali, le incomprensioni e i rapporti con i figli, con le cattiverie, ingiustizie e ipocrisie della società contadina. Nel 1908 pubblicò Novelle Calabresi, la sua opera più importante. Novelle Calabresi è stato riedito dalla Arnaldo Forni Editore di Bologna nel 1987. Resta a tutt’oggi un libro da leggere, per ironia, leggerezza e – allo stesso tempo – impegno.

1Ecco lo stralcio da una delle sue indagini che comprende interessanti descrizioni sulla bachicoltura, per secoli, in Calabria, svolta dalle donne in privato: «L’allevatrice, durante le quattro fasi grecamente dette ziija, arteri, trito, casarro, (le quattro ‘spoglie’ il cui intervallo è segnato dal letargo), cioè dal momento in cui il seme ha sentito i primi tepori del fuoco (quando non è una vampata che lo brucia addirittura!), fino a che i bozzoli d’oro non vengono distaccati dal bosco, durante quei quaranta giorni ogni casetta colonica è tramutata in una bacheria. Ma non è facile penetrarvi! La massaia mette ogni astuzia nel sottrarre la ‘nutricata’ agli sguardi indiscreti, perché ogni occhio invidioso le è fatale… Se si riesce a penetrare nella casetta, ch’è il più delle volte un tugurio, si è subito colpiti dal particolare odore del ‘flugello’ e dal rumore come di minutissima pioggia ch’esso fa brucando la foglia del gelso. Graticci ovunque: sulla finestra, sulla tavola, sulle sedie, finanzo il letto ha un baldacchino di cannizze, dove sopra uno strato verde formicolano i vermi bruni, giallognoli, dorati, secondo le età».

La bachicultura di carattere artigianale pubblica si svolgeva a Villa San Giovanni: «Dall’impercettibile seme, al bozzolo ambrato e lanuginoso, dal bozzolo alla stoffa più fine, tutto passa attraverso un esercito di macchine che si completano l’un l’altra. La serichiera, la stufa, il cocconiere, la filatura, l’incannatorio, l’ovale, la cardatura, la tintoria. Centotrentadue donne (oltre quelle adibite al trasporto del legname ed alla pulizia dei forni) trovano in quelle filande lavoro e mercede. Nel camerone attiguo alla serichiera (una serichiera enorme, capace di contenere in due piani centocinquanta enormi graticci) sessanta operaie sono intente alla selezione del bozzolo; e chine sulle grandi tavole che ciascuna ha davanti a sé, con due canestre ai lati, tuffano rapidamente le mani nella soffice messe bionda; gettano in una cesta lo scarto, nell’altra il bozzolo scelto, che viene poi distribuito alle maestre della filatura. Due sono i metodi adatti per la filatura, quella alla Piemontese, e l’altra detta alla S. Giovanni. Nulla di più simpatico del colpo d’occhio che offre al visitatore la filatura alla Piemontese: un corridoio lungo più di 500 palmi dove, a destra e a sinistra, s’allineano 60 mangani, guarnito ciascuno di due naspi, sì che quando l’uno di essi è pieno, si sospende alla tettoia per dar tempo alla seta d’asciugarsi, e si rimpiazza con l’altro. Ciò sotto la sorveglianza di fanciulle quasi tutte giovanissime e graziose, mentre la maestra, seduta innanzi al fornello, è intenta al lavoro… Allorché i mangani sono tutti in attività si hanno circa 70 libbre di seta al giorno; ogni maestra, tirando dai naspi due fili di seta in una volta, riesce a farne per una libbra e più… Nulla manca: dai telai per le stoffe a quelli per le calze; dai grandi serbatoi che somministrano l’acqua, alle caldaie dove la seta vien messa a mollo affinché perda la gomma; dalla stufa alla tedesca, alla tintoria: tintoria alla cui direzione occorrerebbe un chimico valente perché quest’arte non continui ad essere, com’è stata finora, monopolio di pochi artisti, e quasi un segreto di cui essi sono gelosi custodi. Se il governo se ne interessasse un poco”.