All’ombra di Stellantis
1 Dicembre 2025
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1 Dicembre 2025

Ucraina, il fronte delle parole

Kiev o Kyïv?

Ce lo siamo chiesti tutti e tutte almeno una volta negli ultimi tre anni ormai. Sembra una scelta banale ma non lo è affatto.

Tra le richieste di Putin per porre fine al conflitto in Ucraina, che oramai va avanti incessantemente da quasi quattro anni, troviamo concessioni territoriali, garanzie di neutralità permanente dell’Ucraina rispetto alla NATO e altre richieste strategicamente rilevanti sul piano geopolitico e territoriale, quel piano sul quale siamo abituati a vedere e immaginare la guerra.

Ma tra tutte queste richieste, più o meno prevedibili, ne troviamo una che per i più passa silenziosamente inosservata ma che ha invece una valenza enorme: il Cremlino, già da agosto, dopo il vertice storico ma fallimentare in Alaska con Donald Trump, ha ribadito come punto irrinunciabile il ritorno del russo a lingua ufficiale in Ucraina.

Ma perché, mentre le risorse scarseggiano e gli uomini muoiono conquistando pochi metri di terreno, la lingua assume una importanza tale? Per diverse ragioni ma in primis perché essa non è solo uno strumento ma una vera e propria frontiera identitaria.

Le guerre non si combattono solo sul terreno

I conflitti sono composti da una moltitudine di elementi e livelli. Non si combattono solo con i carri armati e i missili ma alcune dimensioni, più silenziose e apparentemente meno spaventose – non per questo meno rilevanti – si consumano più silenziosamente. L’Ucraina e la Georgia questo lo sanno bene: accanto al fronte vero e proprio, fatto di trincee e droni, ve n’è un altro, fatto di parole e quindi di identità. E oggi, mentre le diplomazie internazionali si affannano attorno a discutibili piani di pace, non bisogna sottovalutare proprio questo secondo fronte.

La guerra non è mai solo geopolitica: è anche antropologica, ed è sempre una questione identitaria. Per chi la combatte, per chi la infligge e soprattutto per chi la subisce. Le parole hanno il potere di plasmare la realtà e in questo contesto è più vero che mai che le parole sono un’arma.

La lingua come radice identitaria

Per comprenderne il peso politico, bisogna fare un passo indietro al 1991. Quando Kyiv, proclamando la propria indipendenza, si trovò davanti a una frattura: milioni di ucraini erano culturalmente legati al Paese, ma parlavano la lingua che l’impero russo e poi quello sovietico avevano imposto per decenni. E questa dinamica è rimasta. 

Basti pensare che solo tra il 2018 e il 2021, l’Ucraina ha rafforzato le politiche linguistiche per promuovere l’uso dell’ucraino nell’istruzione, nella cultura e nei media varando vere e proprie leggi e promuovendo imponenti campagne politico-sociali. Campagne che Mosca ha interpretato, ovviamente, come un attacco diretto alla “sfera russa” nel Paese. Oggi, come nel 2018 e prima ancora come nel 1991, il fattore linguistico resta identitario e quindi geopolitico.

2022: la lingua diventa trincea

Prima della guerra, oltre il 40% degli ucraini usava il russo regolarmente in casa e più della metà del Paese era bilingue. 

Poi, il 24 febbraio 2022, qualcosa si è spezzato. L’invasione ha trasformato la lingua in un atto politico, e parlare ucraino è diventato — per molti — un gesto di autodeterminazione e resistenza.
I sondaggi lo confermano: oggi solo l’11–15% degli intervistati nei territori controllati da Kyiv dice di usare il russo nella vita domestica, mentre oltre il 70% parla principalmente o esclusivamente ucraino. È la società che reagisce, la popolazione che risponde all’aggressione ridefinendo se stessa, una parola alla volta.

E così la grande invasione russa cambia tutto. In pochi mesi, nei media, sui social, persino nella vita quotidiana, milioni di cittadini compiono un passaggio netto: dal russo all’ucraino. Sotto il fuoco nemico, anche la lingua diventa scudo, spazio di libertà.

Il nuovo piano di pace: cosa significa “pace” per una lingua?

Negli ultimi giorni, il dibattito internazionale è dominato dal nuovo piano di pace statunitense e dalle risposte, più o meno timide, delle parti in causa. Inizialmente formata da 28 punti, la prima versione del piano andava nettamente incontro a Mosca, poi ridotti a 19 sulla base dei rilievi europei, il piano che dovrebbe porre fine alla guerra in Ucraina continua a cambiare forma e ad alimentare la discussione.
Oggi Zelensky è volato a Parigi per incontrare Macron in una riunione definita “decisiva” dalle diplomazie europee. Il presidente ucraino ha chiesto che qualsiasi accordo includa garanzie concrete sulla sicurezza del Paese e un riequilibrio dei punti più controversi del piano statunitense, soprattutto quelli che toccano sovranità, integrità territoriale e, non a caso, i diritti culturali. 

Il ritorno del russo come lingua ufficiale?

Nelle bozze circolate e non ufficializzate, nei negoziati informali e nelle proiezioni delle parti, il tema linguistico affiora con insistenza.

Alcuni resoconti delle bozze trapelate del piano, citano esplicitamente la richiesta del riconoscimento del russo come lingua ufficiale di Kyev, al pari dell’ucraino. Ciò sembra essere ancora più vero nelle regioni occupate che, qualora venissero riconosciute come russe, adotterebbero ovviamente la lingua in questione come unica dall’amministrazione, ai media e ai testi scolastici. Se confermato, significherebbe istituzionalizzare uno squilibrio linguistico che rappresenterebbe una vittoria simbolica e culturale per la Russia.

Perché un bambino che oggi cresce a Mariupol con libri di storia riscritti in russo, con programmi scolastici russi e canali televisivi russi, non cambierà “nazionalità” a causa di quella linea di confine spostata ma lo farà perché cambierà memoria e identità. Ecco che la dimensione linguistica si rivela per ciò che in realtà è: uno strumento geopolitico.

Non è un caso che il primo atto amministrativo nei territori occupati non è (quasi) mai militare ma curriculare.

Errori occidentali

Uno degli errori più comuni nell’analisi occidentale del conflitto ucraino è, infatti, quello di confondere la lingua con la fedeltà politica. 
Putin, fin dall’inizio, ha evitato accuratamente di definire l’aggressione come tale, preferendo invece giustificarla evocando l’obbligo morale di “protezione delle popolazioni russe e russofone”. E in molti, in Europa, vi sono caduti: hanno creduto che chi parla russo si senta automaticamente più vicino a Mosca che a Kyiv, legittimando così una narrazione che trasforma una storia linguistica complessa in un alibi geopolitico.

Nel Donbass, come in Crimea e in Georgia nelle regioni separatiste dell’Ossezia del Sud e dell’Abkhazia che hanno portato alla guerra georgiana del 2008, la lingua è stata lo strumento principale per giustificare l’ingresso delle truppe: “difendere i russofoni” è diventato argomento diplomatico prima ancora che militare.

Per questo è importante che la clausola linguistica, nelle bozze circolate, venga riconosciuta per ciò che è: uno dei terreni della guerra.