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Il Paese delle frane non si cura

Più del 90% dei Comuni italiani è a rischio idrogeologico, eppure non riusciamo a spendere i fondi a disposizione, a causa di procedure inadeguate. Vediamo perché.


Il rischio idrogeologico in Italia: duecento vittime

Il 16 settembre le Marche sono state colpite da un’ondata di maltempo che in poche ore si è trasformata in catastrofe. L’ennesima in Italia. Dall’inizio del nuovo millennio, frane e alluvioni, nel nostro Paese hanno ucciso oltre duecento persone.Il rapporto Ispra descrive una situazione preoccupante.

Il 91,1% dei Comuni italiani è catalogato “a rischio idrogeologico”, eppure abbiamo il primato europeo di territorio urbanizzato, il 7,65% a fronte del 4,3%. Negli ultimi quindici anni, l’82,8% delle frane censite in Europa sono state registrate in Italia.

Su circa 7 mila chilometri di autostrade, le aree franose sono almeno settecento e sui 16.700 chilometri di rete ferroviaria sono duemila.

Le frane in Italia

Il clima che cambia si abbatte sull’Italia con forza e i danni che provoca sono costantemente in crescita. E più si aspetta, più aumentano i danni. L’Ance, associazione nazionale costruttori edili, ha stimato che frane e alluvioni sono costate alle casse dello Stato 3,5 miliardi all’anno, dal 1944. Secondo il capo della Protezione civile, Angelo Borrelli, il conto del maltempo può salire a 7 miliardi ogni anno.

La spesa per la manutenzione del territorio

Conosciamo i punti a rischio e le soluzioni, tuttavia continuano le esondazioni del Seveso, del Bisagno, dell’Arno e potremmo andare avanti per tutta la pagina. Sono state individuate 10.320 opere e 33,3 miliardi per mettere in sicurezza il Paese, interventi di manutenzione delle strade, sugli argini dei fiumi, per l’edilizia scolastica, le reti fognarie e depuratori, il sisma bonus, il piano invasi e acquedotti. Eppure negli ultimi due decenni anni ne stati spesi sei. Un sistema inefficace, denunciato dalla Corte dei Conti secondo cui «le risorse effettivamente erogate alle Regioni a partire dal 2017 rappresentano solo il 19,9 per cento dei 100 milioni di euro in dotazione» al Fondo Progettazione.
Ideato nel 2015, quel fondo serve per progettare le opere pubbliche anti dissesto, ma solo il delle opere potenziali era accompagnato da un progetto concreto. Una prassi questa che, per la Corte dei Conti, ha generato solo un «mera raccolta di richieste di progetti e di risorse, talvolta non omogenee, senza addivenire ad una vera e propria programmazione strategica del settore».

“Italia Sicura”, il programma per la messa in sicurezza 

Proprio fino al 2015 non esisteva un minimo di programmazione nella spesa per dissesto idrogeologico. Migliaia di uffici a contendersi le competenze, fra Regioni, Province metropolitane, enti locali, enti scientifici, Autorità, Provveditorati alle opere pubbliche, Genio civile, Consorzi di bonifica, aziende idriche, concessionari.

In quell’anno il Governo Renzi partorisce «Italia Sicura», il primo piano per la messa in sicurezza del Paese, creando una struttura di missione ad hoc, in grado di liberare i cantieri da intoppi burocratici e rendendo i Presidenti delle Regioni “commissari straordinari” contro il dissesto idrogeologico.

Fondi che non si spendono per lungaggini burocratiche

Nel 2018, il governo Conte, riporta le competenze al ministero dell’Ambiente e «Italia Sicura» diventa «ProteggItalia», riconducendo tutto nei binari farraginosi delle procedure ordinarie. Come raccontato da Milena Gabanelli in un suo Dataroom, dal 2015 sono stati spesi solo 2,9 e ci sono Regioni come Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Friuli, Molise, Sardegna, Trentino e Veneto che non hanno speso nemmeno il 20% di quanto previsto.

Secondo l’Agenzia per la coesione territoriale, dal 2007 a oggi le regioni Italiane hanno speso solo 340 milioni, degli 1,6 miliardi concessi da Bruxelles, tramite i fondi dedicati a progetto contro il dissesto idrogeologico.

(https://www.agenziacoesione.gov.it/dossier_tematici/dissesto-idrogeologico/)

Le ragioni di questa difficoltà a realizzare delle opere così vitali, sono da riscontrare in procedure inadeguate, revisioni di progetti approvati e procedure di gara non svolte, scarso monitoraggio, assenza di comunicazione tra enti, spesso in competizione tra loro. Occorre prima rendicontare i fondi in un piano triennale di opere pubbliche, poi aspettare che le Regioni li chiedano e, infine, lasciare ai Comuni il compito di redigere i progetti specifici.Tra il programmare e il progettare possono trascorrere diversi mesi.

Se si considera, che il 69% dei Comuni italiani ha meno di cinquemila abitanti, è facile dedurre come non tutte le amministrazioni possono vantare geometri e tecnici in grado di seguire gli iter richiesti e, quando i progetti arrivano al Ministero, occorre ripartire da zero. Quando il progetto coinvolge più enti, spesso e volentieri non riescono a mettersi d’accordo. A ciò si aggiungono il groviglio di leggi e le fasi burocratiche, con tutti i pareri vincolanti.

Fondi pluriennali per le opere: se fossero anticipati? 

Una vecchia storia tutta italiana ‹‹i soldi ci sono ma non si riescono a spendere›› mai come in questo caso può significare tante tragedie umane, in diverse località. Occorre dare una svolta decisa, anche ricorrendo a metodi non convenzionali. Anticipare, ad esempio, la spesa dei fondi pluriennali stanziati per le opere, quindi previsti ma oggi non disponibili, potrebbe essere un modo per mettere in moto un sistema di prestiti ponte, in grado comunque di generare gettito fiscale. Continuare a gestire le risorse al ritmo attuale, non farà altro che farne diminuire l’utilità. E, rincorrendo i danni del maltempo, ne serviranno sempre più o faremo prima ad aspettare che butti tutto giù, per ricostruire direttamente da capo.