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Donne e Tecnologia: la discriminazione in slalom tra “cultura del fratello” e pregiudizio inconscio

di Silvia Cegalin 

«Voglio che tu alla fine arrivi a dirigere il Supporto Tecnico. Abbiamo bisogno di più donne in ruoli dirigenziali. Disse l’amministratore delegato. Non pensai di dire che, se voleva più donne in ruoli dirigenziali, forse avremmo dovuto cominciare ad assumere più donne. Non feci notare che, se anche ne avessimo assunte di più, c’erano elementi nella nostra cultura aziendale che probabilmente avrebbe messo le donne a disagio»1.

Questa frase, se non contestualizzata, purtroppo potrebbe valere per la maggior parte dei settori e, invece, ciò che meraviglia di più è che questo breve estratto proveniente da Uncanny valley di Anna Wiener, libro uscito nel 2020 in Italia con il titolo La valle oscura, tratta la discriminazione di genere all’interno della Silicon Valley e, più in generale, nel campo della tecnologia.

Se, infatti, la Silicon Valley è divenuta negli anni il simbolo dell’anticonformismo imprenditoriale grazie all’affermarsi di startup informatiche innovative dirette da una classe generazionale giovane, il fatto che al suo interno si presentino dinamiche comportamentali e ideologie discriminatorie fa sfumare l’immagine di avanguardia e progresso a cui spesso si associa la Silicon.

A conferma di questo parla il report di aprile realizzato dallo studio legale Fenwick & West che, nonostante i considerevoli miglioramenti rispetto agli anni passati, registra la presenza delle donne nelle posizioni esecutive all’interno delle aziende della Silicon non oltre il 21%, perché la tendenza principale rimane quella di assumere le donne per incarichi di assistenza o di segreteria, mentre i ruoli di governance e manageriali sono affidati agli uomini.

Il divario di genere nelle discipline e nei settori STEM (dall’inglese Science, Technology, Engineering and Mathematics) non è, come spesso si vuole far passare, la conseguenza di scelte casuali, al contrario è l’espressione pratica di una forma mentis che si è radicalizzata nella convinzione che il genere femminile sia inabile nello svolgere attività direttive, sopratutto se queste sono di natura informatica e tecnologica.

Pregiudizio inconscio e Brotopia: la discriminazione delle donne parte da qui

La causa della formazione di una mentalità maschile esclusivista e che in un certo senso ostacola le donne nel raggiungimento del successo e ad ottenere posizioni direttive, è identificabile in quel pregiudizio che prende il nome di unconscious bias (pregiudizio inconscio).

L’unconscious bias è un’insieme di idee che induce ad essere attirati, a preferire e a valutare positivamente gli individui simili a noi e che con noi condividono un determinato sistema valoriale, portando, di conseguenza, ad emarginare coloro che giudichiamo come diversi o lontani da noi; e, come si può facilmente dedurre, essendo gli ambienti tecnologici dominati dal genere maschile, appare evidente che vittime dei pregiudizi inconsci siano le donne.

All’interno dei settori tecnologici tuttavia non emerge “soltanto” questa struttura mentale altamente condizionante, ma anche una condotta comportamentale definita dalla giornalista Emily Chang con il termine brotopia, traducibile in italiano con “cultura del fratello”.

Cultura che si basa su un patto di fratellanza in cui gli uomini, seppur colleghi e talvolta competitor, fanno squadra tra loro, diventando complici e partecipanti attivi di un sistema in cui l’unico obiettivo è soddisfare le proprie aspirazioni di autorità, aspirazioni che, attenzione, non si realizzano soltanto all’interno degli ambienti lavorativi, ma che trovano spazio anche in un dopo lavoro rappresentato da feste dove le donne assumono un ruolo marginale e secondario.

Non a caso, per la Chang il binomio feste/lavoro rappresenta il sistema base da cui si genera la brotopia.

InBrotopia: Breaking Up the Boys’ Club of Silicon Valley del 2018, grazie alla raccolta di svariate testimonianze, la Chang fa affiorare la misoginia presente nella Silicon Valley, in quanto rintraccia meccanismi lavorativi e di selezione sessisti e manipolatori. Gli uomini della valle del silicio, prosegue la giornalista, hanno mascherato la loro apparenza da nerd, allontanandosi così dallo stereotipo che li vedeva associati a ragazzi timidi e asociali, per impersonare le sembianze di uomini d’affari sicuri, ricchi e hype (montati), tessitori di un gioco in cui sono loro a decidere regole.

La teoria della Chang trova conferma anche nei racconti di Anna Wiener che in La valle oscura espone, seppur in modo ironico e leggero, alcuni episodi di sessismo che l’hanno coinvolta in prima persona, come ad esempio quando alle cene aziendali la sua presenza sembrava “di troppo” o l’imbarazzo provato ogni qual volta le veniva affidato il ruolo di assistenza ai clienti in quanto donna.

La preoccupante situazione italiana

Se nei settori informatici/tecnologici, e non da ultimo nella Silicon Valley, affiora un divario di trattamento lavorativo tra il genere maschile e quello femminile, la situazione non migliora se dagli Stati Uniti d’America ci spostiamo in Europa, in particolar modo in Italia.

Lo scenario italiano risulta di per sé già complesso, in quanto nella nostra nazione la problematica della scarsa inclusione delle donne negli ambienti lavorativi persiste anche al di fuori del campo I-tech. A guidare le posizioni di governance infatti sono in prevalenza gli uomini che tendono, anche inconsciamente (vi ricordate l’unconscious bias?) a circondarsi e a stringere alleanze più facilmente con i maschi rispetto che con le donne.

Non a caso il tasso di occupazione femminile in Italia è al di sotto del 50%, una percentuale che è peggiorata a causa del covid-19, e che inquadra il nostro Paese come arretrato in termini di parità di genere. Ma ritornando al rapporto tra donne & tecnologia, la discriminazione di genere in Italia è confermata anche dai dati emersi dallo studio Il divario digitale di genere, pubblicato quest’anno e realizzato da Bocconi e Plan International con il supporto di Fondazione Unicredit. Da questa ricerca è infatti emerso che nelle discipline STEM l’Italia, su 28 Stati membri, si colloca al 25esimo posto, sopra solo a Grecia, Romania e Bulgaria.

Un dato che non può lasciare indifferenti.

Ma non è tutto, come si può leggere nella ricerca: «5 anni dopo aver ottenuto la laurea magistrale, i laureati maschi in STEM guadagnano il 23,6% in più delle loro colleghe femmine», a dispetto del fatto che «rispetto agli uomini, le donne ottengono la laurea STEM con un punteggio più alto ed in minor tempo, ed inoltre sono anche più propense ad aderire a programmi di scambio culturale per studenti e ad avere un’esperienza lavorativa mentre studiano».

Le statistiche possono confermarci che nel campo digitale le donne sono brave e competenti, ma ciò non serve per cambiare la realtà dei fatti che le vede vittime di trattamenti lavorativi svantaggiosi.

Oltre a ciò, dal report si evince che il gender gap si manifesta in maniera più forte durante i processi di selezione, e quindi di assunzione, e nel corso della formazione, in quanto i maggiori risultati nelle discipline STEM si attendono dai ragazzi, mentre le ragazze spesso rimediano attraverso un apprendimento da autodidatte, un po’ come succedeva in passato.

Se per l’istruzione c’è bisogno di un cambio radicale di prospettiva e un investimento di energie e mezzi che rimedino al più presto a questo gap formativo, creando, ad esempio, orientamenti in cui nessuno si senta escluso, per quanto riguarda le assunzioni una possibile soluzione al problema potrebbe essere quella di un blind recruitment (assunzione bendata).

Perché eliminando i dati identificativi dalle candidature si garantirebbe un’oggettività di scelta altrimenti difficile da ottenere, e oltretutto slegata da pregiudizi. Ovviamente tale metodologia non risolve totalmente il problema, per una completa integrazione delle donne all’interno del mondo STEM sarebbe opportuno cambiare non solo i procedimenti selettivi e le pratiche lavorative ma, prima di ogni altra cosa, mutare la mentalità culturale, eliminare le ideologie e combattere gli stereotipi.

Su questo fronte l’Italia ha ancora tanto da fare e da imparare e il percorso appare molto lungo, soprattutto perché i pregiudizi contro le donne si annidano anche dove non ce lo aspetteremmo.

Noto è il caso del fisico Alessandro Strumia che, invitato a una conferenza nel 2018 al CERN, si presentò con un discorso dal titolo Dati bibliometrici sulle questioni di genere nella teoria fondamentale, con l’intenzione di provare che se non c’erano abbastanza scienziate donne era perché, per ragioni genetiche, esse erano meno capaci dei loro colleghi maschi. Una dichiarazione che gli è costata l’accusa di sessismo e l’allontanamento dal CERN.

Strumia è l’esempio più famoso, ma quanti saranno gli studiosi che la pensano come lui ma che fanno restare latenti le loro idee?

Sebbene i campi STEM siano stati, e lo sono ancora, dominati del genere maschile, ciò non ha impedito comunque alle donne di dimostrare il livello delle loro capacità e il valore del loro contributo. È, tuttavia, importante ricordare che in passato molte invenzioni scoperte da donne furono divulgate come invenzioni maschili, le donne infatti nella tecnologia hanno da sempre ricoperto ruoli secondari e la loro presenza agli incontri pubblici era ridotta al minimo e poco gradita.

In merito vale la pena menzionare il lungo percorso di riconoscimento, durato quasi vent’anni, verso le sei donne dell’ENIAC (Kay Mauchley Antonelli, Jean Bartik, Betty Holberton, Marlyn Meltzer, Frances Spence e Ruth Teitelbaum) programmatrici di quello che è stato considerato il primo computer digitale. Il progetto fu concluso e reso pubblico nel 1946, ma il loro contributo fu oscurato, tant’è che non furono nemmeno invitate ai festeggiamenti ufficiali.

Fortunatamente nel 1997 “Le donne dell’ENIAC” vennero inserite nella Women in Technology Hall of Fame, ricevendo finalmente un premio e un riconoscimento internazionale.

Note:

Anna Wiener, La valle oscura, Adelphi, Milano, 2020, cit. p 76