Virus informatici, l’Italia è il terzo Paese più colpito al mondo
4 Giugno 2021Etxera! Nei Paesi Baschi trovano casa le vittime del terrorismo, inaugurato il centro nazionale
7 Giugno 2021Quel punto attonito del mondo si chiama “Rwanda 1994”
di Lorenza Cianci
La recente visita del presidente Macron in Rwanda, che ammette le schiaccianti responsabilità della Francia prima e durante il genocidio dei tutsi del 1994, è l’occasione per riflettere sull’inammissibile indifferenza su ciò che accadde in quei 100 giorni di massacro.
La mattina del 27 maggio 2021, in un minuscolo punto attonito del mondo è in arrivo un uomo in volo su un aereo di Stato. Ad attenderlo, un altro uomo. Quel minuscolo punto attonito del mondo è nel sobborgo di Gisozi, che si trova nel distretto di Gasabo, che è nella provincia di Kigali, che è la capitale della Repubblica del Rwanda. Uno Stato circondato da Stati, grandi laghi, colline. E che non vede il mare. Ad anticipare la visita di quell’uomo, in Rwanda, è stata la sua tastiera ufficiale, il suo tweet. Che dice: «Mentre decollo per Kigali, ho una profonda convinzione: nelle prossime ore, scriveremo insieme una nuova pagina nella nostra relazione con il Ruanda e l’Africa». Quell’uomo è il presidente della Repubblica francese, Emmanuel Jean-Michel Frédéric Macron. La destinazione ultima è una tribuna diplomatica, allestita proprio in quel minuscolo punto attonito che, su Tripadvisor, il famoso sito web di recensioni, ha ottenuto, per i visitatori in vacanza, cinque stelle. È il Kigali Memorial center, il Memoriale delle vittime di un genocidio che sterminò quasi un milione di persone. Uomini, donne e bambini, ruandesi, di etnia tutsi e hutu di parte politica moderata. Quella tribuna diplomatica, da dove Macron sta per parlare, ripeto, è nel Kigali Memorial Center. Inaugurato nel 2004, dieci anni dopo il genocidio dei tutsi, su un punto di terra ruandese dove sono state sepolte 250.000 vittime di genocidio. Perché la definizione di genocidio è questa, per il diritto internazionale: «una forma particolare di crimine contro l’umanità, caratterizzata dall’intenzione di commettere un certo atto allo scopo “distruggere in tutto o in parte un gruppo etnico, razziale, religioso”». Un intervistato, unico sopravvissuto della famiglia allo sterminio razziale, ha testimoniato che, quando va al Memorial, è perché vuole passare solo qualche minuto in compagnia dei suoi genitori. Quando va via dal Memorial, i genitori rimangono sotto la fetta di terra di quel minuscolo punto attonito del mondo: nelle foto appese, nei vestiti dell’epoca, esposti al ricordo di tutti, nel sogno che quel minuscolo punto attonito del mondo insegni qualcosa al futuro del resto del mondo.
Alle ore 11:07 del 27 maggio dal canale Twitter ufficiale del palazzo dell’Eliseo parte una diretta. Macron fa un discorso di 17 minuti e 23 secondi. Il succo delle sue dichiarazioni si concentra in un minuto e quarantanove e in queste esatte parole:
«Gli assassini che infestavano le paludi, le colline, le chiese, non avevano il volto della Francia. La Francia non era complice (…) Ma la Francia ha un ruolo, una storia e una responsabilità politica. La Francia non ha capito che volendo ostacolare un conflitto regionale o una guerra civile stava, di fatto, al fianco di un regime genocida (…)».
Ancora più importante la risposta del presidente rwandese, Paul Kagame, all’epoca del genocidio a capo del partito Fronte Patriottico Rwandese (FPR) contro cui erano impegnati anche i contingenti francesi. E in carica, come presidente della Repubblica del Rwanda, da inizio secolo. Le sue parole hanno veramente il sapore di uno spartiacque vivissimo nella storia del paese: «è un grande passo, dobbiamo accettarlo».
Ecco, quel minuto e quarantanove è stato relegato, nella stampa nazionale, a un ordinario articolo nella ordinaria pagina dedicata agli Esteri. Ed è stato definito, più o meno unanimemente, una tappa di un più che tortuoso cammino diplomatico tra due stati che, per 27 anni, si sono rinfacciati la morte a vicenda. Più ampia dissertazione hanno avuto sul web, piuttosto, le passate “gaffes” diplomatiche del leader di En Marche!, durante i precedenti voli esteri nel continente africano. Una, molto chiacchierata, è stata proprio quella in occasione di una precedente visita in Africa, la prima di Stato per Macron, nel 2017. Quando, nell’ex colonia francese Burkina Faso, rispose, agli studenti della capitale Ougadougou che volevano servizi universitari migliori, che «voi mi parlate come se fossi il vostro presidente», suscitando un moto di indignazione del presidente Roch Kaborè. Che, quasi all’istante, abbandonò la sala. La battuta di Macron fu questa, in risposta al gesto: «Ecco se ne va… ma no, resta qui… niente, è andato a riparare l’aria condizionata». Era andato in Burkina Faso con il proposito virtuoso di invitare l’ex colonia a superare la visione paternalistica della Francia.
Sui libri di storia però, non rimarranno, o almeno si spera, le “gaffes” di Macron. Rimarrà, piuttosto, quel minuto e quarantanove, quelle 181 parole che sembrano venute fuori da una macchina burocratica spremitrice lunga decenni. Infatti, l’occasione ufficiale della visita del presidente francese in Rwanda, il 27 maggio scorso, è venuta solo a conclusione del sontuoso lavoro di un gruppo di storici che hanno stilato una relazione, su invito della presidenza francese. Con lo scopo preciso di “analizzare il ruolo della Francia durante quel periodo e contribuire a una migliore conoscenza del genocidio dei tutsi”. Le rapport Duclert: così, viene chiamato sinteticamente, dal nome dello storico Vincent Duclert, che ha presieduto i lavori. La commissione, istituita il 5 aprile del 2019, ha scritto 1200 pagine, su quegli eventi. 1200 pagine, che sono un doloroso possesso perenne consegnato all’umanità di oggi e di domani. La conclusione della relazione è, senza mezzi termini, questa: la Francia non era complice, ma ha «schiaccianti responsabilità» nella conduzione delle operazioni in Rwanda, prima e durante il genocidio dei tutsi. Questo lavoro è stato permesso anche grazie alla desecretazione dei documenti del Presidente dell’epoca Francois Mitterand. Questo, rimarrà, suggellato, sui libri di storia.
I libri di storia. Mi voglio informare sul genocidio che colpì il Rwanda nel 1994, lo sterminio che riaccese una guerra civile, terminata e durata tre anni, dal 1990 al ’93. Su quei 100 giorni, dal 7 aprile al 15 luglio del ’94, che portarono all’uccisione di quasi un milione di persone tra tutsi e hutu moderati. Capire come mai, oggi, la Francia di Macron abbia ammesso delle «schiaccianti responsabilità» in merito. A partire dall’ottobre del 1990, ben tre anni prima il verificarsi di quell’escalation che portò a quello che, in modo riassuntivo, è stato definito «il crimine dei crimini contro l’umanità». Mi chiedo in particolare che ruolo abbia avuto l’ideologia colonialista europea alla base della giustificazione successiva di un massacro per l’eliminazione di un gruppo etnico specifico, in questo caso, i tutsi. Il Rwanda, infatti, fu colonia belga con gli accordi di fine prima guerra mondiale fino al 1962, quando ottenne, in modo formale, l’indipendenza.
Così, inizio la mia ricerca. Capisco che tutte queste domande esigono un libro. Mi immagino adolescente, senza idea di quel che in quel minuscolo punto attonito del mondo possa essere accaduto, se non per sentito dire a casa, a scuola, in tv. Mi procuro il mio libro del liceo. Una lettura didattica, per iniziare. Alla storia del Rwanda, e al genocidio, sono dedicate, per l’esattezza, dieci righe. Mi chiedo a questo punto quanto le/i teenagers della generazione Z conoscano di questa parte della storia dell’umanità, visto che, se mi rivedo adolescente, non ce n’è quasi traccia, nel mio libro di scuola. Allora, chiedo alle mie giovani conoscenze. La mia domanda è semplice: sapete qualcosa del genocidio del Rwanda? La maggior parte di loro mi dice che no, non ne ha mai sentito parlare. Viene fuori che qualcosa è arrivato alle loro orecchie da un rapper belga di nome Stromae, “maestro” in gergo verlan, nome d’arte di Paul Van Haver. Che ha scritto una canzone dal titolo Papaoutai. Tradotto: Papà, dove sei. Suo padre, un architetto tutsi, nato e cresciuto in Rwanda, cadde vittima del genocidio del 1994. Nel video-clip è un bambino che parla, gioca, si confronta, cresce con la sola madre chiedendosi dove sia nascosto suo papà. Solo la canzone di Stromae è arrivata alle orecchie delle mie giovani conoscenze. Le mie non sono statistiche, sia chiaro. Ma, più avanti, inizio a pensare che non siano nemmeno delle pure casualità. Esco e vado in libreria. Frequento due librerie, a Bologna. Sono convinta di trovare almeno un saggio dedicato, nella sezione “Storia dell’Africa”/”Africa”. Trovo solo un paragrafo all’interno di un libro che parla della storia, in generale, del continente. Le mie, sono ricerche approssimative. Eppure, tanti sono gli studiosi, i volti dei superstiti, tante sono le testimonianze di questo buio passato giovane che reperisco sul web, pronte a raccontarmi cosa sia accaduto. Se mi vedo adolescente, la mia ricerca, però, si ferma, confusa, ai primi passi di una ricerca ingestibile. Non va oltre. Chissà se sarò mai in grado, nella mia vita adulta, di riflettere su quel minuscolo punto attonito del mondo che sembra essere stato risucchiato nel limbo di un’indifferenza inammissibile. Chissà se sarò mai in grado di reperire quelle sontuose 1200 pagine del rapporto Duclert. E di capire l’importanza di quello che sembra un ordinario articolo su un’ordinaria pagina di Esteri che mi informa di quel 27 maggio 2021, di quel punto attonito del mondo che si chiama “Rwanda 1994”.