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Battaglia di Lepanto, storia di un calabrese che divenne capitan pascià

Nella settimana in cui ricorrono i 450 anni dalla battaglia di Lepanto, vogliamo ricordare gli aneddoti legati alla storia, poco conosciuta, di un giovane calabrese, Gian Dionigi Galeni. Che, dalla Calabria, arrivò alla guida della flotta turca, in quella contrapposizione che vide due grandi imperi scontrarsi: quello cristiano della Lega Santa e quello turco-ottomano. 

Poco meno di cinquecento anni fa, Gian Dionigi Galeni è un fratello tra i tanti fratelli di una lunga prole. Suo papà, Birno Galeni fa, dalla tenera età, il pescatore. Sua mamma, Pippa de Cicco, la contadina. Gian Dionigi è cresciuto con l’abitudine di specchiarsi in quel frammento di Mediterraneo che è il golfo calabrese di Squillace. Della Calabria, per la precisione, il suo paese si chiama Le Castella: un piccolo borgo marittimo sorto in epoca greco-romana, di pesca e di agricoltura. La vita di Gian Dionigi Galeni ha il gusto dell’ordinario, della pace domestica, con vista sul mare. Da grande, avrebbe fatto il sacerdote, pur senza saper né leggere e né scrivere. 

L’arrivo dei corsari turchi a Le Castella

Se un evento non avesse sparigliato le carte del destino, anche quel 29 aprile del 1536 sarebbe scivolato via, ciclico e anonimo. Gian Dionigi ha solo 16 anni, quel giorno. È in campagna, a strappare erba, quando, dall’orizzonte marino del golfo calabrese, vede avvicinarsi alla costa, distinte, trenta navi. A capo della flottiglia c’è niente meno che Ariadeno Barbarossa, nome italico con cui tutti ricordano il famigerato corsaro di Mitilene e comandante supremo della flotta militare turca, Khair Al-Dīn. Nessuno è preparato al suo agguato: la notizia della sua morte, dopo uno scontro a fuoco a Tunisi contro gli spagnoli, aveva decretato ampi festeggiamenti in tutto il meridione d’Italia. Eppure, sopravvissuto al fuoco, alla fuga e al deserto, il comandante Barbarossa era lì, vivo e vegeto, davanti alle coste calabresi. 

In quelle 48 ore di scontro contro i turchi ottomani, il giovane Gian Dionigi non solo assiste alla morte del padre, trucidato dai turchi ottomani del Barbarossa. Ma guarda morire anche numerosi compaesani. Privo di scelta e in catene, viene trasportato su una nave nemica a Costantinopoli, insieme a molte e molti altri giovani come lui. Arrivato a destinazione e senza più radici, Galeni è ormai uno schiavo alla mercè di ricchi compratori. 

Adesso Gian Dionigi è, per tutti, “Uccialì”. Secondo molti commentatori, il nome significa “Alì il tignoso”. Gli stenti lo avevano, infatti, indebolito nel fisico: era afflitto, su tutto il corpo, dalla tigna. Un ricco corsaro, Giafer, lo vede e lo compra, a poco prezzo. 

Nella casa del facoltoso compratore, Gian Dionigi riprende le forze. Si occupa di una delle tre galeotte del signore, diventa un ottimo rematore. Giafer lo promuove, infine, al remo di tribordo a prua. Insieme a lui, ci sono altri due italiani, schiavi acquistati come lui. In tutto, erano in tre: un calabrese, un napoletano e un siciliano.

La conversione all’Islam

Ma il novello Uccialì si ammala ancora; questa volta, gravemente. Giafer non lo abbandona: si sente affezionato alla pragmaticità del ragazzo, alla sua schiettezza di giovane che ha poco vissuto ma che, già a 17 anni, tanto poco ha da perdere. Il padrone di casa lo mette sotto la preziosa protezione della moglie, che lo cura con dedizione. Il trattamento di favore, però, a lungo andare, non piace agli altri due “coinquilini” italiani. Inizia un momento turbolento nella vita di Gian Dionigi, di sospetto e di dispetti reciproci, tra lui e i suoi connazionali. Che culmina tragicamente nell’omicidio di uno dei tre ex amici. A uccidere è proprio Galeni. Su questo, la legge del tempo è chiara: uno schiavo che uccide un altro schiavo deve essere punito, a sua volta, con la morte. 

Ma fatta è la legge che trovato è l’inganno. Gian Dionigi ha, in realtà, ancora una possibilità di salvarsi: convertirsi all’Islam. L’omicidio sarebbe, in questo modo, di una fattispecie differente: il ragazzo caduto nella tragica vicenda sarebbe stato, secondo la prospettiva del tempo, un infedele cristiano morto per mano di un fedele dell’inviolabile legge di Allāh, in un “accorato tentativo di conversione”. 

Galeni non ci pensa due volte: si converte e userà, d’ora in poi, il turbante. E lui ne è contento: dopotutto, potrà coprire anche i segni della malattia che lo aveva reso del tutto calvo. Il suo nome “istituzionale” sarà davvero Uccialì, “Alì il tignoso”. 

Non c’è più traccia di quel ragazzo calabrese che si specchiava nel mare attendendo l’ora dell’abito talare. Con grande sintesi, lo studioso Gustavo Valente (la cui ricostruzione della storia di Galeni è riproposta dal dizionario biografico online dell’enciclopedia Treccani), spiegò così la condizione di molti che, come Gian Dionigi, si convertivano, per questioni di opportunità varia, all’Islam: «Una pinacoteca di ceffi quella dei celebri rinnegati, ma anche – nel tragitto dal reale all’immaginario – di protagonisti vittoriosi».

Ed è proprio vero che, dopo la conversione, quella di Uccialì fu una vita di successi. 

La battaglia di Lepanto (7 ottobre 1571)

Dopo aver sposato Baracauda, figlia dell’ormai suo ex padrone Giafer, Galeni inizia la sua carriera di uomo nuovo e libero. Insieme al cognato, si dedica da subito alla redditizia attività corsara. Entra a pieno titolo nella flotta turca e porta avanti campagne in tutto il Mediterraneo. Diventa, in breve tempo, pascià di Tripoli e capo politico carismatico (bey) di Algeri. La studiosa spagnola Angela Rodicio dirà a tal proposito (l’informazione è riportata da Francesco Vescio, che se n’è occupato, per il quotidiano Il Lamentino.it) che Ucciallì «conosceva ogni palmo di quella costa, su entrambi i lati dell’Adriatico, dalle rive dell’Italia meridionale a quelle della Dalmazia, del Montenegro e dell’Albania». Ben presto diventò il più grande ammiraglio della potenza navale ottomana.

E così, di successo in prestigio, giungiamo al fatidico 7 ottobre di 450 anni fa. Uccialì è al comando del Corno sinistro della flotta navale turca nelle acque greche di Lepanto e tra poco avrà luogo una delle più importanti battaglie navali che la storia ricordi. E che coinvolge, allo stretto del porto di Lepanto, quasi 200 mila uomini. Schierate contro sono pronte le forze alleate nella Lega Santa della Repubblica veneziana e genovese, la Spagna di Filippo II, lo stato pontificio di Pio V e i ducati di Savoia, Urbino, con il Granducato di Toscana e l’Ordine di Malta. 

Nata dalla rivendicazione turca dell’isola di Cipro, allora lontano possedimento veneziano, quella battaglia segnò il riposizionamento degli equilibri dei due imperi nel Mediterraneo. Dopo Lepanto, infatti, si ebbe la netta sensazione di aver dato un freno deciso all’espansionismo dell’impero turco. Ma gli uomini dei due grandi imperi, ottomano e cristiano, che lontani dai teatri di guerra si erano incontrati, tra i banchi dei mercati, nelle rocambolesche conversioni religiose, plasmarono per sempre il mondo del futuro, nonostante quelle 24 ore di fuoco incrociato. 

Il post Lepanto

Ma Uccialì sopravvive anche a questa battaglia. Ed è l’unico, tra i comandanti delle tre ali principali della flotta navale turca, ad aver salva la vita. Riesce addirittura a fare numerosi prigionieri tra le file della flotta spagnola. Tra questi cade anche un giovanissimo soldato di nome Miguel de Cervantes: rischiando, in quei momenti, la morte e perdendo anche l’uso della mano sinistra. Se fosse caduto nella prigionia non avrebbe mai firmato una delle opere letterarie più importanti che siano mai state scritte al mondo: il Don Quijote de la Mancha

Dopo aver tentato invano di ricostruire la flotta turca per ritentare un’impresa contro gli spagnoli, Galeni si ritira nel suo palazzo che si affaccia su uno specchio del Bosforo, a Tophane, un sobborgo di Costantinopoli. La vita di Gian Dionigi Galeni riprende il gusto dell’ordinario, della pace domestica, con vista sul mare. A Istanbul c’è ancora una moschea a suo nome, costruita grazie al suo evergetismo.

La leggenda vuole che, in vecchiaia, Gian Dionigi ritorni, a bordo di una nave, in Calabria. E proprio nel paese dov’è nato, a Le Castella, per riabbracciare la madre: riprendere il filo delle proprie radici, un filo sospeso. 

Conclusioni

Di questa storia vecchia 450 anni non sappiamo dire cosa sia leggenda, cosa sia racconto, cosa sia verità. Ci pare lo stesso importante, anche nel caso questa biografia di Gian Dionigi Galeni/Uccialì fosse, almeno in parte, frutto di una finzione letteraria o di aneddotica popolare. Infatti, indica comunque lo sforzo di costruire un racconto in cui convivano due visioni del mondo che, sebbene con le loro distinzioni, siano anime di un’unica straordinaria storia.