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L’Iran visto con gli occhi degli iraniani

Al via la nostra inchiesta sull’Iran attraverso il racconto di Iraniani e iraniane.
Si comincia con Silvia Cegalin che ha documentato le proteste svoltesi in Italia. La altre due puntate sono a cura di Paolo Trapani e Dania Ceragioli e saranno pubblicate nei giorni prossimi.


Il grido di libertà per l’Iran è giunto in Italia

Nel momento in cui scrivo questo articolo siamo al 48esimo giorno di proteste in Iran, iniziate il 16 settembre dopo la morte di Mahsa Amini, e non c’è repressione, atto di forza o intimidazione che possa arrestare il flusso di iraniane e iraniani che scendono per le strade delle città dell’Iran, e del mondo, per protestare contro il regime islamico e rivendicare il diritto alla libertà.

Una canzone iraniana dice: «Respira così. Canta che la città diventi una canzone. Che questa patria diventi una patria».

E sabato 29 ottobre i centri storici di molte città di Italia (ad esempio Padova), Europa e del mondo hanno parlato e cantato in persiano, trasformandosi in spazi dove il grido alla libertà si è tramutato in un abbraccio collettivo formato da persone che si tenevano per mano. Una catena umana per rivendicare il diritto alla libertà, e Human chain across the globe. The Link to the Revolution in Iran, era proprio il titolo dato a questa manifestazione. 

Una manifestazione organizzata da PS752justice, organizzazione senza scopo di lucro, indipendente e senza legami con partiti o movimenti politici; e che rappresenta le famiglie di 140 vittime del volo PS752 abbattuto da parte del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Iraniane (IRGC). L’associazione attraverso proteste pubbliche diffuse in tutto il mondo (come ad esempio quella del 29 ottobre) chiedendo che sia fatta giustizia, commemorando le vittime, per non far dimenticare quanto avvenuto nei cieli iraniani quel’8 gennaio 2020.

Cosa successe al volo PS752 l’8 gennaio 2020

Prima di narrare la manifestazione avvenuta a Padova, è doveroso ritornare a quell’8 gennaio 2020 quando il volo PS752 fu abbattuto, perché se il sit-in del 29 ottobre è potuto avvenire è stato sopratutto grazie a questa organizzazione.

Poco dopo il decollo, avvenuto con un’ora di ritardo, il Boeing 737-800 dell’Ukraine International Airlines che volava lungo la rotta da Teheran a Kiev è stato abbattuto dal Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche (IRGC), uccidendo tutti i 176 passeggeri e l’equipaggio a bordo. Un disastro nell’immediato apparso strano e con le autorità iraniane che hanno negato di essere coinvolte nella distruzione dell’aereo. 

A incrementare ancora di più i sospetti altre inquietanti circostanze: le scatole nere, secondo dichiarazioni di Ali Abedzadeh – direttore dell’Organizzazione dell’aviazione civile iraniana, si presentavano danneggiate, e, ad esempio, come riporta il report risultato delle indagini effettuate dall’associazione PS752justice, i dispositivi e gli effetti personali dei passeggeri erano andati distrutti. 

Ma la conclusione di indagini di varie agenzie di intelligence del mondo occidentale e del pubblico iraniano hanno rivelato che l’aereo era stato colpito da due missili terra-aria. L’11 gennaio 2020, il governo iraniano ha ammesso che l’IRGC aveva preso di mira il volo 752 dopo averlo erroneamente identificato come un missile da crociera americano in quanto sembrava dirigersi verso un “centro militare sensibile” dell’IRGC, motivo per cui venne scambiato per bersaglio ostile.  L’organizzazione per l’aviazione civile iraniana, come anche lo studio già citato, hanno contestato questa ipotesi, sostenendo che l’aereo ha sempre viaggiato sulla rotta corretta e non vi era alcuna deviazione di volo provata.

Ricordiamo che 5 giorni prima dell’abbattimento dell’aereo era avvenuto l’assassinio di Qasem Soleimani, aumentando la tensione tra Stati Uniti e Iran. A seguito delle dichiarazioni del IRGC in Iran sono scoppiate proteste contro Ali Khamenei e il regime.

Una catena umana per l’Iran

È pomeriggio, sono quasi le cinque quando arrivo davanti a Palazzo Moroni a Padova, ci sono già molte le persone radunate, gradualmente chi è presente si prende per mano formando un cerchio, una catena umana, larghissima quanto l’intera piazza circostante. Le iraniane e gli iraniani sono tantissimi e sempre con la mano degli altri stretta nella propria si iniziano a intonare frasi e canzoni in persiano, ma anche in inglese e in italiano.

Progressivamente arrivano altri manifestanti e i cori via via crescono, si canta alla libertà, contro le dittature e contro le imposizioni del regime islamico; si canta per Mahsa e per tutte le donne iraniane, invocando la frase “Zan, zendegi, azadi” ( زن زندگی آزادی – Donna, vita, libertà).

Per le strade della città scorrono le canzoni in persiano divenute simbolo della rivoluzione iraniana, tra cui Baraye (برای ) Soroode Zan (Woman’s Anthem, سرودِ زن ) e poi anche la nostra Bella Ciao.  

«Le proteste che stanno avvenendo in Iran sono la continuazione di un clima che da anni è teso e stanco del regime» mi dice un signore iraniano venuto da Verona apposta per la manifestazione, con un altro gruppo di ragazzi iraniani. «La morte di Mahsa è stata la scintilla che ha acceso la miccia». 

Non è l’unico a pensarla così, sono in tanti a ripetermi che il popolo iraniano è esausto di subire le repressioni imposte dal governo, che da anni limita e reprime con la violenza le libertà individuali degli iraniani che (almeno tutti quelli/e con cui ho parlato io) non si identificano con il sistema autoritario islamico. 

«A causa del blocco di internet sento la mia famiglia solo una volta al giorno e per massimo un’ora» mi dice una ragazza. Anche per chi è in Italia resta alta la preoccupazione verso ciò che sta avvenendo nel loro paese.

Ricordiamo che in queste settimane il clima di tensione è salita, le proteste non intendono fermarsi e la soppressione sta diventando più dura. In queste settimane i servizi per la sicurezza iraniani entrano nelle scuola chiedendo alle studentesse di cantare l’inno di propaganda “Hello Commander” in lode del sovrano iraniano Ali Khamenei, le ragazze che si rifiutano vengono picchiate a morte.

Mentre una ragazza iraniana che incontro mi ricorda dell’attentato di Shiraz. Come si legge dalla notizia diffusa da Iran International «l’ISIS si è assunto la responsabilità dell’attacco di mercoledì a un santuario a Shiraz, ma molti iraniani non sono convinti che il regime non vi abbia preso parte, dicendo che è uno scenario per reprimere più duramente i manifestanti». Un attentato, questo, dunque che può servire come pretesto per silenziare ancora di più le voci di dissenso. 

Con gli iraniani/e che incontro (non esclusivamente alla manifestazione) e con cui parlo emerge spesso quella data 1979: un anno che cambiò radicalmente i costumi e i modi di vivere in Iran, quando le donne prima della salita al potere dell’Ayatollah Ruhollah Khomeini, che trasformò la monarchia del paese in una repubblica islamica sciita, erano libere di vestirsi come volevano. Non sono poche le immagini che ritraggono le donne negli anni 60/70’ con minigonne e i capelli sciolti, immagini che se si pensa ai fotogrammi dell’incarcerazione di Mahsa e delle altre ragazze ritenute “da rieducare” dimostrano quanto il paese sia cambiato.

Un ragazzo mi dice «lo hijab non lo vuole nessuno, né maschi né femmine», effettivamente di ragazze iraniane che portano lo hijab ne ho incontrate pochissime, e ovviamente la loro scelta non è certo imposta dal regime, ed è proprio qui che la libertà di espressione si dimostra: dal decidere cosa fare o non fare, autonomamente senza costrizioni esterne.

A questo punto è necessario fare una precisazione (che mi chiedono di fare gli stessi iraniani): in generale, specialmente in Italia, si fa confusione tra cultura araba e persiana, parlando addirittura di primavera araba in riferimento alle attuali proteste in Iran, questo è un errore, sarebbe più giusto, visto che sono due culture distinte e non condividono neanche la medesima lingua, definire questa lotta come rivoluzione iraniana.

La rivoluzione iraniana è in atto e chissà che non succeda come intona la canzone: «che questa patria diventi una patria».