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Sanità, non fa bene alla salute: la “torta” privata sempre più grande e lo “spezzatino” regionale

di Giuseppe Greco


Il Sistema Sanitario Nazionale è uno dei principali successi della storia repubblicana nel campo dei diritti sociali. L’era pandemica ha sollevato, però, più di qualche domanda sulla sua effettiva efficienza; l’analisi dei dati sulla gestione dell’emergenza sanitaria, infatti, ha messo in risalto enormi differenze, tra regione e regione, nei risultati ottenuti nel contenimento dell’emergenza e nella gestione del piano vaccinale. D’altronde, che il SSN non abbia eguale dinamismo sul territorio nazionale è noto ormai anche agli individui meno informati; specialmente in quelle regioni in cui il pubblico attraversa, da troppi anni, una crisi radicale che pare irrisolvibile.

La storia della nostra sanità 

Il Sistema Sanitario Nazionale ha ormai più di 40 anni, e, durante il corso della sua storia, è stato soggetto a numerose critiche, teorizzazioni e riforme che lo hanno profondamente espanso e trasformato. Nasce nel ‘78 con l’obiettivo di rendere la sanità un bene universalmente fruibile, ma la sua conformazione nazionale inizia ad essere, fin dall’inizio, materia di dibattito parlamentare fra le parti politiche e già dagli anni ottanta le regioni sono chiamate a ricoprire, in esso, un ruolo fondamentale. La legge delega 23 ottobre 1992, n. 421, trasforma le strutture pubbliche da USL (Unità Sanitarie Locali) in ASL (Aziende Sanitarie Locali); la riorganizzazione pone, di fatto, le ASL in concorrenza tra loro, facendo penetrare nella sanità pubblica logiche proprie delle aziende private. La questione specificamente sanitaria deve, da questo momento, tenere conto, oltreché della qualità del servizio erogato, anche dei costi, del binomio domanda-offerta e dell’andamento del mercato di settore.

Il secondo governo Berlusconi approva, poi, nell’ottobre del 2001, la riforma del titolo V della Costituzione. La riforma conclude un lungo progetto indirizzato al decentramento amministrativo e legislativo avviato con la Legge Bassanini del ‘97, e amplia ulteriormente le competenze locali e, conseguentemente, lo spazio destinato al privato in settori concepiti su concetti di equità e universalismo. La riforma avrebbe dovuto ottenere un rafforzamento ulteriore grazie alla Devolution, bocciata in sede referendaria, non senza, però, lasciare strascichi capaci di giungere fino a noi (si pensi all’attuale ed incalzante dibattito sull’autonomia differenziata regionale).

Dal 2001, sono gli accordi e i rapporti tra Stato e Regioni diventano, a tutti gli effetti, lo strumento con cui si definisce ed organizza l’assistenza pubblica. Allo Stato tocca predisporre il PSN (Piano sanitario nazionale) e stabilire i Lea (Livelli essenziali di assistenza), tenendo conto delle opinioni delle regioni; a queste ultime, invece, spetta l’organizzazione e la pianificazione dei servizi sul territorio, lasciando alle Asl il compito di fornire materialmente i servizi.

L’attuale Sistema sanitario, quindi, è radicalmente diverso rispetto a quanto fosse agli albori. Oggi è opportuno parlare di un’ibridazione tra sistema pubblico, o Beveridge, e privato.

Tra accreditamento dei privati, i Lea e i fondi sanitari: l’ibridazione del sistema

Lo scopo principale del SSN è quello di garantire i Lea a tutta la popolazione; di questo, si occupa la sanità pubblica e quella privata che con esso collabora, in funzione integrativa. Per poter cooperare con il SSN, i privati devono essere accreditati, garantire, cioè, certi standard di sicurezza e qualità, prima di poter stipulare accordi valevoli con le regioni. Ed è proprio qui che si inserisce uno dei principali motivi delle differenziazioni nei risultati ottenuti con l’ibridazione del sistema sanitario: sono le leggi regionali, infatti, che regolamentano i rapporti coi privati e vigilano sul loro operato. In un articolo apparso sull’ Internazionale nel dicembre 2020, la giornalista Laura Melissari riporta un estratto del report Osservatorio sulla sanità privata della Bocconi; in esso si legge: “in seguito alle riforme del SSN, iniziate negli anni novanta, le aziende sanitarie private hanno visto una significativa modificazione del proprio ruolo che, da integrativo rispetto agli erogatori pubblici e regolato da convenzioni, è diventato più concorrenziale e governato dai sistemi regionali di accreditamento e di finanziamento. A seguito del processo di regionalizzazione, peraltro, il ruolo attuale e prospettico del privato accreditato risulta significativamente differente da regione a regione”. Alla questione “frazionamento”, si aggiunge un altro importante, ed ambiguo, elemento ad esso collegato: i “fondi sanitari”, forme di finanziamento nate come integrative del SSN. Essi dovrebbero garantire una maggiore disponibilità e qualità di servizi e prestazioni sanitarie, ma sono sempre più frequentemente destinati ad enti non esattamente affini all’attività di integrazione, quanto più a quella di profitto. Si tolgono, così, finanziamenti vitali alla sanità pubblica, elargendo risorse a realtà che dovrebbero, con essa, cooperare, ma si rivelano, nei fatti, concorrenti.

La spesa sanitaria pubblica e privata

Appare evidente che la sanità privata abbia un peso sempre maggiore nell’organizzazione e nella distribuzione dei servizi, ma anche, e soprattutto, nelle spese. Non sarebbe sbagliato, per quanto non augurabile, ipotizzare che la sanità italiana possa diventare un sistema a maggioranza privato, marginalizzando, fino ad immobilizzare del tutto, un pubblico già in palese difficoltà. Stando al IX Rapporto RBM-Censis, infatti, dal 2010 al 2017 gli istituti pubblici sono passati a rappresentare il 51,8% del totale dei posti letto, più del 3% in meno della percentuale di partenza (54%); mentre quelli privati sono passati dal 46 al 48,2. Dal medesimo rapporto emerge un altro dato significativo: negli anni più recenti, almeno 20 milioni di italiani si sono rivolti alla sanità privata.

Le ragioni, ovviamente, sono molteplici, e variano di regione in regione. Si potrebbero annoverare le interminabili liste di attesa, l’inefficienza di alcune strutture ridotte a scheletri fatiscenti dai tagli indiscriminati degli ultimi anni, la carenza di operatori sanitari e le lunghe distanze necessarie, in alcune zone della penisola, per raggiungere la struttura sanitaria più vicina; ma il primo fattore da prendere in considerazione, il più esemplificativo per una corretta esegesi della situazione attuale, è l’analisi della spesa pubblica in campo sanitario e dei finanziamenti ad esso destinati. Dal 2005 al 2018 la spesa pubblica sanitaria italiana è salita solo dello 0,2% annuo (la media UE è l’1,5%), vale a dire 115 milioni di euro. Dall’altra parte, invece, la crescita della spesa sanitaria privata si attesta al 7%, superando i 37 miliardi di euro. Nel 2019 l’Italia ha destinato alla spesa sanitaria l’8,7 per cento del PIL, secondo i dati Ocse, mentre vi sono Stati europei (Francia e Germania e Paesi nordici, ad esempio) che hanno superato l’11%.

Da quanto dedotto dal rapporto Censis già citato, possiamo concludere, senza sorpresa, che la crescente ibridazione crea disuguaglianze e disservizi. Viste le complicazioni e la carenza di investimenti, si assiste ad un costante aumento dei tempi per l’accesso alle strutture pubbliche e una proporzionale crescita della spesa dei cittadini nel più rapido privato, nelle cui casse versano, in media, intorno ai 600 euro annui cadauno. Sono sempre più i membri delle classi popolari, inoltre, che, per i motivi sopra elencati, si vedono costretti a rivolgersi alla sanità a pagamento, complice, probabilmente, anche una crescente abitudinarietà alla riclassificazione dei servizi sanitari come beni di consumo. Tali spese pesano negativamente sul budget familiare e individuale, se si pensa che il prezzo di una singola visita può raggiungere prezzi esorbitanti, e c’è chi arriva a rinunciare a prestazioni mediche di cui avrebbe diritto assoluto e bisogno immediato.

Il Censis individua il motivo dell’avanzata della sanità privata nel “federalismo sanitario che ha favorito disuguaglianze territoriali sempre più marcate”; si legge, infatti: “nelle regioni del nordest la spesa sanitaria privata assolve prevalentemente a una funzione integrativa del Servizio sanitario nazionale. Nelle regioni del centro sud invece la spesa sanitaria privata risponde a due bisogni fondamentali: la riduzione delle liste di attesa per i ricoveri e la gestione delle lungodegenze in assenza di una adeguata assistenza territoriale”. La funzione integrativa al SSN quasi non esiste nelle regioni ad economia lenta, dato che ai privati spetta, oramai, il compito di sopperire la preoccupante assenza di presidi pubblici efficienti e funzionanti, in cambio di ingenti profitti.

Sanità in Calabria e in Lombardia 

Il frutto dell’istituzionalizzazione del privato e della parcellizzazione nella sanità ha avuto i suoi effetti più tragici in questo biennio, specialmente in Lombardia ed in Calabria. Per quanto riguarda quest’ultima, la catastrofe era prevedibile, vista l’inefficienza della classe dirigente, che, amministrazione dopo amministrazione, si è confermata incapace di risollevare la regione, ormai “storicamente” fanalino di coda in materia di sanità e distribuzione dei servizi pubblici (abbiamo svolto un’inchiesta sul campo proprio su questo tema).

La questione lombarda, invece, necessita di una trattazione differente. Gli amministratori, nel periodo precedente l’esplosione pandemica, osannavano la propria organizzazione sanitaria, incoronandola a modello futuribile necessario, incentivati dallo status di regione più ricca e sviluppata d’Italia e forti di un’economia tra le migliori in Europa. La situazione cambia, però, drasticamente durante la prima ondata, è lì che il Covid-19 colpisce più duramente. Le cose, nel febbraio 2021, non erano ancora migliorate: il CFR (case fatality rate o tasso di letalità) era fra i più alti al mondo (5,7%), il doppio della media nazionale. E non è un caso che ciò sia accaduto in una regione in cui, come riportano Rosa Pavanello e Rossella De Falco, in un recente articolo apparso su Il manifesto, la privatizzazione della sanità raggiunge il 40% del totale. Le conseguenti difficoltà organizzative, dovute alla parcellizzazione e allo scarso coordinamento, hanno portato a pessime scelte sull’utilizzo delle strutture (pubbliche e private), nonché a notevoli ritardi nei tracciamenti dei contatti a rischio, influendo consistentemente nel catastrofico dilagare del contagio. 

Non può non essere colpevolizzato chi, trattando la sanità come strumento di benessere individuale, e non collettivo, ha costantemente depotenziato i settori meno remunerativi, come testimonia il report dell’organizzazione internazionale Global Initiative for Economic, Social and Cultural Rights, che si occupa, tra le altre cose, proprio del caso lombardo. Viene naturale augurarsi una maggiore centralità e solidità del SSN attraverso un rilancio del settore pubblico, vista anche la crescita esponenziale dei nuovi poveri nell’ultimo anno; speranza, però, disattesa, stando alle notizie giunte il 21 maggio scorso dal Global Health Summit, durante il G20: i leader mondiali hanno concentrato i loro sforzi sul rafforzamento della sinergia fra settore pubblico e privato, dimenticando di inserire in agenda i sistemi sanitari pubblici, ormai, a quanto pare, ritenuti obsoleti.