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Siamo tutti Videosorvegliati

La privacy dei cittadini in bilico tra riconoscimento facciale e videosorveglianza

di Silvia Cegalin

Il 6 Ottobre 2021 la sorveglianza di massa in Europa ha subito un forte rallentamento. Sono stati 377 i deputati che hanno votato in favore di una risoluzione che chiedeva alla Commissione Europea di vietare il controllo pubblico attraverso i sistemi di videosorveglianza biometrica e la creazione e l’utilizzo di banche di dati private. 248 invece sono stati i voti contrari e 62 gli astenuti.

Un’importante svolta che, come espresso nel comunicato stampa diffuso dal Parlamento Europeo,  ha posto come priorità quella di proteggere la privacy dei cittadini e tutelare i loro dati personali, specialmente qualora tali strumentazioni venissero usate dalle Forze dell’ordine.

Le motivazioni che hanno portato a questa decisione è scaturita dal timore da parte dei deputati che l’utilizzo della biometria (ossia di software che permettono il riconoscimento facciale) favorisca la discriminazione sociale. Timore generato dal fatto che in passato i sistemi di identificazione basati sull’intelligenza artificiale hanno registrato errori e la tendenza a riconoscere in modo poco preciso  soggetti appartenenti a minoranze etniche e persone LGBTI. Per questo motivo, dietro al calcolo e alla selezione degli algoritmi, è sempre necessaria e inderogabile la supervisione umana, in modo da evitare che qualche categoria sociale venga sfavorita dalle decisioni derivanti dalla macchina.

Non a caso i deputati chiedono: «Quando si utilizzano queste tecnologie i diritti fondamentali devono essere sempre rispettati, gli algoritmi dovrebbero inoltre essere trasparenti, tracciabili e sufficientemente documentati. Ove possibile, le autorità pubbliche dovrebbero anche utilizzare software open source per essere più trasparenti» (traduzione mia).

Tuttavia, come ha notato la studiosa Safiya Noble nel libro Algorithms of Oppression: How Search Engines Reinforce Racism (2018), la questione degli algoritmi è più complessa di quello che si possa pensare: perché le medesime persone che monitorano e sviluppano gli algoritmi sono spesso di sesso maschile, bianchi e di classe media; succede quindi che gli stessi sistemi algoritmici non siano progettati in modo neutrale, ma contengano, ove presenti, i pregiudizi degli sviluppatori.

La decisione della Commissione Europea appare perciò preventiva per evitare un utilizzo della biometria che in qualche modo danneggi una parte della popolazione.

Laumento della videosorveglianza in Italia

Se da un lato la sorveglianza in Europa e, quindi, anche in Italia, tramite sistemi biometrici è stata frenata, il controllo mediante la videosorveglianza sta, al contrario, aumentando di anno in anno.

Se in Italia nel 2020 alla videosorveglianza sono stati destinati 17 milioni di euro con l’obiettivo di incrementare le telecamere dei 287 Comuni vincenti la graduatoria del bando avviato dal Ministero dell’Interno, necessario per ricevere i finanziamenti per i nuovi impianti di videosorveglianza, le risorse statali previste per la videosorveglianza nel biennio 2021/2022 è pari rispettivamente a 27 e 36 milioni di euro.

Come si legge nella graduatoria tra i Comuni più importanti ammessi al finanziamento compaiono Torino, Parma, Lecce, Novara, Padova, Massa e Modena.

Mentre tra i Comuni che hanno investito di più in telecamere troviamo Firenze che dal 2019 al 2020 ha aggiunto 190 telecamere, arrivando così a fine 2020 ad avere 1240 videocamere situate nelle aree considerate più sensibili.

Curioso invece è il caso di Solesino, un piccolo comune di circa 7000 abitanti nella provincia di Padova, che ha installato 150 telecamere, in pratica una per ogni 46 abitanti.

Numeri che, dopotutto, non stupiscono visto che il controllo tramite videocamere è attualmente il metodo preferito dalle autorità e dalle Forze dell’ordine per limitare e contenere la criminalità. La scelta dei Comuni che sono stati selezionati per il finanziamento infatti registrano un livello di delinquenza elevata e/o diffusa.

Sorveglianza e criminalità sono, di conseguenza, due componenti intrinseche una all’altra, perché seguendo la logica: dove c’è più controllo c’è meno possibilità di compiere un reato.

Eppure, stando alle statistiche pubblicate dal Censis ad Aprile 2021 ma riferitesi al 2020, si evince che rispetto all’anno precedente c’è stato un calo dei reati del 18,9%, che equivale a 435.055 reati in meno. Ricordiamo però che il 2020 è stato l’anno del lockdown e delle restrizioni, situazioni contingenti che non vanno sottovalutate.

Comunque, indipendentemente dal fattore covid-19, questo trend positivo è stato anche confermato negli anni scorsi. Nonostante ciò il Censis ha rilevato che benché il crimine (escluso per il cybercrime) cali, la paura degli italiani cresce: «per due terzi degli italiani la paura di rimanere vittima di reato è rimasta la stessa e per il 28,6% è cresciuta». Conseguenza diretta del fatto che si ha una percezione distorta sul tema sicurezza, il 34,0% di chi ha meno di 34 anni infatti pensa che la criminalità sia in crescita.

Ed è a questo punto che qualcuno potrebbe obiettare: perché, considerati i dati, se i reati sono in diminuzione la videosorveglianza aumenta?

Un argomento, questo, che divide da sempre i cittadini: tra chi chiede più sicurezza e afferma che i crimini diminuiscono proprio grazie all’incremento delle telecamere, e chi ritiene che queste misure di controllo siano esagerate.

Non dimentichiamoci, tuttavia, che la videosorveglianza, se usata tempestivamente e garantendo tutti i criteri di privacy e tutele ai cittadini, ha e sta aiutando le forze dell’ordine in indagini in casi di scomparsa, e reati come aggressioni, rapine o delitti, e questo è un aspetto che non può essere messo in secondo piano.

Pare evidente, dunque, che in una società complessa come la nostra sia inimmaginabile rinunciare ai sistemi di controllo, ciò che va potenziato è l’informazione ai cittadini circa questi sistemi e un costante monitoraggio di come e di chi gestisce i dati onde evitare abusi o controlli non autorizzati.

La Regolamentazione tra trattamento dei dati e diritto alla privacy

Proprio perché la videosorveglianza cattura luoghi pubblici e/o privati e i movimenti dei cittadini, è soggetta – sia dalle leggi italiane sia dal Regolamento europeo – a un’ampia regolamentazione riguardante la privacy e la protezione dei dati personali.

Come stabilito dal Garante per la protezione dei dati personali, l’attività di videosorveglianza va effettuata nel rispetto del principio di minimizzazione dei dati, ciò significa che vanno riprese e registrate esclusivamente le immagini giudicate necessarie, eliminando le informazioni ritenute superflue. È essenziale dunque valutare il posizionamento delle telecamere e il loro angolo visuale. Per i soggetti privati è vietato inquadrare aree pubbliche o le case e gli ingressi poste nel vicinato, e se queste regole non dovessero essere rispettate il soggetto rischia un’imputazione per reato di interferenze illecite nella vita privati.

La conservazione delle riprese inoltre, salvo richieste specifiche, deve rispettare una tempistica che non deve superare le 24 ore, mentre per gli istituti bancari e la sorveglianza finalizzata alla pubblica sicurezza il tempo di conservazione può essere esteso fino a 7 giorni; mentre la presa in visione delle registrazioni in suolo pubblico è vietata a soggetti terzi, esclusa ovviamente l’autorità giudiziaria e la polizia.

Un’altra misura fondamentale da attuare è l’esposizione di avvisi che indichino la presenza degli impianti di videosorveglianza (così com’era predisposto nell’art.13 del Codice privacy abrogato dal successivo D. Lgs. 101/2018 nel 2018).

Oltre alle norme già citate, per la tutela della privacy e la gestione dei dati si fa riferimento alla Valutazione di impatto sulla protezione dei dati (DPIA- Data Protection Impact Assessment) procedimento previsto dall’articolo35 del Regolamento UE/2016/679 (RGDP).

Infine un altro dei principali requisiti chiave per la preservazione della privacy dei cittadini è garantire che i dati raccolti non siano utilizzati per scopi terzi, come ad esempio ricerche di mercato, finalità pubblicitarie o analisi comportamentali o di condotta.

Se, come constatato fino ad ora, il principio della privacy è messo al centro delle varie e molte regolamentazioni, lo spettro di un’invasione nella vita privata delle persone si rischia di avere, non tanto con la videosorveglianza, ma con la sua forma più evoluta: ossia la telecamera dotata di sistemi software per il riconoscimento facciale. Una sorveglianza che al momento sta attirando le città di Como, Torino e Udine.

Sull’argomento si è anche espresso il nostro Garante della privacy che ad Aprile ha emanato un comunicato in cui ha espresso dubbi verso il sistema di riconoscimento SARI Real Time, dichiarando: «Il sistema, oltre ad essere privo di una base giuridica che legittimi il trattamento automatizzato dei dati biometrici per il riconoscimento facciale a fini di sicurezza, realizzerebbe per come è progettato una forma di sorveglianza indiscriminata/di massa».

Si attendono comunque nuovi sviluppi, augurandoci che nonostante le decisioni che verranno prese il tema della privacy sarà sempre considerato una priorità irrinunciabile.