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È una prassi crudele, in tempi normali: se sono disabile e sono fortunato, fino ai 64 anni posso trascorrere la mia vita con amici e affetti che rappresentano una famiglia, formalmente si chiamano “progetti di vita individuale” e, che siano in appartamenti condivisi o in comunità, altro non sono la vita migliore possibile per chi la sta vivendo; poi, compiuti i 65 anni, si passa in casa di riposo per anziani. Scatta un automatismo e da disabili, anzi da semplici disabili verrebbe da dire, si diventa tecnicamente anziani non autosufficienti. Se il giorno prima ti svegliavi nel tuo letto, ti alzavi e preparavi la colazione per te e i tuoi amici, poi uscivi e ti prendevi cura del giardino, potando le rose, o andavi a lavorare e fino a sera ti occupavi di mille cose, il giorno dopo ti svegli tra persone che non conosci e ti collochi su una poltrona, e se ti va bene fai qualche laboratorio per costruire le palline di Natale. Tutto ciò in tempi normali, con il lockdown questa prassi diventa una chiusura a doppia mandata, non più solo crudele, ma intollerabile. È metà settembre di quest’anno quando accade ancora una volta, e in un piccolo Comune bolognese. Riguarda la vita e la felicità di S.D.E. Questa volta, dopo un po’ di proteste, si tampona la situazione con l’intervento di familiari, la sorella che è presente; altre volte si è ricorsi alla possibilità del Comune di residenza di concedere una deroga a questa scadenza di vita, poiché l’ente ha la responsabilità della realizzazione del progetto. Eppure la crudeltà formalmente rimane, non bastano una toppa o una proroga.
Ci spiegano che, per il sistema dei servizi, i 65 anni sono il limite anagrafico per il quale si passa da disabili ad anziani, con relativo cambio di strutture e servizi a disposizione. Inizialmente, questa era una consuetudine per scelte di welfare di livello regionale, ma con il tempo sono diventate la regola, radicandosi in una zona grigia, di ingarbugliamento e di confuso crocevia tra indirizzo politico e un’applicazione concreta (ed economica) più castrante e addirittura lesiva dei diritti fondamentali. Vediamo cosa è accaduto. La legge 328 del 2000 introduce i progetti di vita individuali senza porvi una fine. La stessa legge 112 del 2016 sul “Dopo di Noi” conferma la necessità di favorire forme di vita le migliori possibili, sottolineandolo anche con il Decreto ministeriale n. 45 del 2017: per le azioni contemplate dalla Legge in favore di persone “la cui disabilità non sia determinata dal naturale invecchiamento o da patologie connesse alla senilità, è assicurata continuità negli interventi e servizi erogati indipendentemente dal raggiungimento di qualsivoglia limite d’età”. Poi, però, si arriva agli strumenti più concreti, per esempio i fondi, quello Nazionale per la Non Autosufficienza e il Fondo per l’assistenza alle persone con disabilità rare prive del sostegno familiare: la fascia d’età per il riparto delle risorse destinate ai progetti di vita indipendente è come una tagliola che scatta ai 64 anni, appunto. E, analogamente, per il sistema convenzionato con le Asl.
Ed ecco che il risultato di questi cammino intrapreso, ma interrotto, è il seguente. In Italia, se hai più di 65 anni, fai parte di quei 14 milioni di persone che rappresentano poco meno di un quarto della popolazione; se poi rientri nel sottogruppo dei disabili, cioè un milione e mezzo, allora sei un anziano disabile qualunque. Sia che tu lo sia diventato per patologie intervenute dopo, con l’età (vedi demenze senili), sia che la disabilità faccia parte della tua vita da sempre: poco cambia, sei anziano non autosufficiente. E se non hai nessuno che ti tuteli dall’aver spento le tue candeline dei 65 anni, traslochi, con la tua valigina di una vita, direttamente in RSA (Residenza sanitaria assistita).
A tal riguardo o, meglio, contro questo automatismo, merita di essere menzionata la Regione Toscana che ha assunto un provvedimento che potrebbe essere adottato a livello nazionale o, nelle more di tale decisione, almeno dalle singole Regioni. Si tratta della legge regionale n. 60 del 18 ottobre 2017 “Disposizioni generali sui diritti e le politiche per le persone con disabilità”, che assicura progetti e servizi alla persona cancellando gli schemi legati all’età e del Regolamento della giunta regionale del 9 gennaio 2018 n.2/R.
E, soprattutto, c’è una forza inarrestabile. “Rivendico per mio figlio il diritto di invecchiare con dignità e ad avere risposte alle sue esigenze. Ho lottato ai tempi della scuola per una sua integrazione dalla prima elementare alla quinta superiore, con risultati non sempre soddisfacenti, ho trovato insegnanti e compagni che ricordo con affetto e altri che vorrei non avere mai conosciuto, poi è arrivata la maggiore età e il mondo del lavoro con tutti i problemi ma anche le soddisfazioni che sono ora la vita reale. Non lascerò che i sacrifici e gli sforzi fatti in questi anni per diventare grande cercando di avviare il suo progetto di vita sia vanificato da automatismi burocrati, da obsolete pratiche amministrative e della gestione dei servizi. Ho tempo ed energia per lottare affinché mio figlio possa conservare consuetudini e legami affettivi, esattamente come avviene per ciascuno di noi, una vita degna di essere vissuta”. È Patrizia Torchi, la madre di Leo che ad oggi risiede a Porto 15, cohousing pubblico di Bologna, uno dei primi in Italia, e lavora a Porta Pazienza che sforna pizze attraverso un progetto etico ed inclusivo.