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Al supermercato, tra prosciutti che non parlano olandese e pandori da decreto.

La nostra spesa prenatalizia tra etichette che raccontano di geopolitica e rincari virali

In questo momento, viviamo in un rapporto quasi simbiotico con i generi alimentari, trofei di giornate ingabbiate e quasi oro, incenso e mirra di questo Natale, nelle nostre “capanne” domestiche. Vale perciò la pena di conoscerli meglio, anche alla luce di diversi fattori: i nuovi provvedimenti assunti in questi mesi nel settore alimentare, gli aumenti dei prezzi degli stessi beni alimentari (da +2,7% di settembre a +3,5% di ottobre, Istat) e la maggiore attenzione alla tracciabilità emersa prepotentemente come effetto post-Covid. In particolare, il primo rapporto Enpaia-Censis sul valore dell’agricoltura per l’economia e la società italiana post-Covid-19 fotografa un maggior ricorso ai discount (+18%) e agli ipermercati (+3%), ma soprattutto un 89% degli italiani che acquisterà di più alimenti la cui etichetta rende evidente l’origine, ingredienti e lavorazione: paradossalmente di più i redditi bassi (94,6%), oltre a millennial (86,7%) e laureati (86,3%).

ALLA CORTE DI SUA MAESTÀ LA PASTA, SI INCORONA IL RE SALAME

Tra gli effetti pandemia, c’è anche questo: un po’ di tregua per pasta, riso e pomodoro in salsa italiana. È stato prorogato a fine 2021 l’obbligo tipicamente italiano di indicare in etichetta la provenienza della materia prima, quando invece lo scorso aprile sarebbe dovuto entrare in vigore il Regolamento europeo 775 del 2018, a maglie molto più larghe, in quanto limita questo obbligo. La scelta di temporeggiare nasce dai due Ministeri più direttamente interessati, Agricoltura ed Economia, e non a caso: potrebbe essere espressione di quella volontà sovranista che issa la bandiera della qualità migliore (cosa peraltro sempre da dimostrare), ma di certo è una valida strategia economica di valorizzazione del prodotto italiano nel mercato internazionale, puntando anche sulla trasparenza, sull’etichetta che parla chiaro. Tutto ciò tra i venti incrociati di dazi e protezionismi vari. Non a caso, è di metà novembre anche il decreto su salami e cugini vari: da ora in poi per salumi, prosciutti e insaccati (vedi i würstel) andrà indicato il luogo di nascita, di allevamento e di macellazione dei suini. È un decreto che potrebbe avere come sottotitolo: “recinto più alto per i maiali olandesi”, visto che da questi non si potranno più ricavare prosciutti e salumi etichettati come italiani.

Per tornare alla pasta di grano duro, fino almeno al Natale 2021, quando ne acquisteremo un pacco, sul retro, in caratteri non inferiori al centimetro abbondante, troveremo due indicazioni: il Paese di coltivazione del grano e quello di molitura. Se acquistiamo riso, il pacco deve riportare tre informazioni: Paese di coltivazione del riso, Paese di lavorazione, Paese di confezionamento. Se le tre fasi avvengono in Italia si possono riassumere in “Origine del riso: Italia”. Sulle confezioni di pomodoro, sughi e salse, vanno indicati Paese di coltivazione e Paese di trasformazione. Solo se entrambe le operazioni avvengono in Italia, la dicitura utilizzata può essere Origine del pomodoro: Italia. Diversamente, se avvengono in più Paesi, può essere: Paesi Ue, Ue e non Ue, e non Ue. 

BOLOGNA – Ed ecco che ora può partire il nostro giro al supermercato, semivuoto all’ora di pranzo del 2 dicembre. L’intera corsia della pasta è, in effetti, una meraviglia, con un’esplosione della nicchia degli integrali, con tutte le paste melting pot di cereali, verificatasi soprattutto in questi mesi di lockdown. Solo nel primo semestre di quest’anno i consumi di pasta sono cresciuti dell’8% in quantità e del 13,5% in valore; nella grande distribuzione le vendite hanno raggiunto i 461 milioni di euro, di questi quasi il 25% è rappresentato da quella 100% italiana.

Cominciamo a guardare il retro delle confezioni, sotto e sopra, di lato, e troviamo diligentemente indicate le indicazioni del luogo di origine e di molitura del grano o, quando non prevale il cereale d’Italia, scatta la più generica etichetta: Paesi Ue, Paesi non Ue o Paesi Ue e non. Queste indicazione si trovano soprattutto nella fascia di prezzo più bassa, tra le tre che abbiamo individuato: 0,36 euro o 0,39 per mezzo chilogrammo di pasta, anche in formati fantasiosi. Prezzi davvero bassi, se si considera che la Borsa merci di Foggia non quota nemmeno 30 euro a quintale il grande duro (l’ultimo raccolto ha visto persino un crollo di circa 20 euro alla tonnellata sul prezzo pagato ai produttori). E si confermano inspiegabilmente bassi anche se si esce dal confine del grano italiano che non risulta essere neanche il più costoso, come attesta la Borsa di Chicago, una delle più importanti al mondo nell’ambito delle materie prime alimentari, che fa registrare quotazioni ben più alte e persino aumentate del +7/8% durante i mesi di lockdown. La fascia di prezzo media che troviamo a scaffale si attesta, invece, sui 60-70 centesimi per mezzo chilogrammo e vanta già il suo bel 100% grano italiano scritto in grande. Dimensione del carattere che aumenta e compare nella faccia del pacco e, comunque, in bella vista nella fascia dagli 0,80 euro in su.

Molto più semplice la lettura dello scaffale del riso per quanto riguarda l’origine, poiché si tratta di un prodotto che fa dei propri tipi (quattro, definiti in base alla forma e dimensione del chicco: comune originario, semifino, fino e super fino), ma soprattutto delle tantissime varietà – arborio, vialone, baldo, carnaroli e tante altre -, il proprio tratto distintivo.

Se semplicissima è l’etichetta del riso, molto più ampio è il ventaglio delle fasce di prezzo a scaffale, da 1,40 a 11,10 euro al chilogrammo.

Poi, spostandoci un po’, ci distraiamo con gli olii di oliva che sono il prodotto che in assoluto ha il numero maggiori di regole e di rigidità, per quanto riguarda l‘etichettatura. Probabilmente proporzionate alle possibilità di truffe e sofisticazioni tentate. Basti pensare che la sola Guida pratica all’etichettatura, realizzata dal Ministero delle Politiche agricole e aggiornata con i decreti legislativi 2017, supera il centinaio di pagine. Di sicuro, in etichetta va indicato quanto segue: denominazione di vendita, la designazione dell’origine (solo per l’extra vergine ed il vergine), l’informazione sulla categoria di olio, la quantità netta, il termine minimo di conservazione, le condizioni particolari di conservazione, il nome o la ragione sociale e l’indirizzo del responsabile commerciale del prodotto, il lotto, una dichiarazione nutrizionale, la campagna di raccolta se ricorrono determinate condizioni (solo per l’extra vergine ed il vergine) e la sede dello stabilimento di confezionamento.

Nella corsia del supermercato ne troviamo una bellissima mostra. Affascinanti anche le confezioni, persino rivestite d’oro. Si va dai 2,69 euro per gli olii di oliva (non extravergine) ai minimi per l’extravergine che si attestano tra i 3,59 e i 3,99 euro. Naturalmente la fascia di prezzo più bassa indica come origine: Unione Europea. Poi, si passa in fascia media, tra i 7 e gli 8 euro, e compare l’origine italiana ben stampigliata. Per arrivare alla fascia massima (non dop) che prevede 16,50 euro (confezione da 750 ml).

Ci spostiamo, ci sarebbe tanto da vedere sui nèttari di frutta e prodotti da forno vari, ma i bancali di pandori e panettoni hanno la meglio. Non a caso hanno meritato, insieme a colomba, savoiardi e amaretti, un decreto tutto per loro, in vigore dal 2005: una legge ad hoc per queste cinque prelibatezze. “La denominazione «panettone» è riservata al prodotto dolciario da forno a pasta morbida, ottenuto per fermentazione naturale da pasta acida, di forma a base rotonda con crosta superiore screpolata e tagliata in modo caratteristico, di struttura soffice ad alveolatura allungata e aroma tipico di lievitazione a pasta acida. L’impasto del panettone contiene i seguenti ingredienti: farina di frumento; zucchero; uova di gallina di categoria «A» o tuorlo d’uovo, o entrambi, in quantità tali da garantire non meno del quattro per cento in tuorlo; materia grassa butirrica, in quantità non inferiore al sedici per cento; uvetta e scorze di agrumi canditi, in quantità non inferiore al venti per cento; lievito naturale costituito da pasta acida; sale”. È facoltà del produttore aggiungere anche altri pochissimi ingredienti diligentemente indicati nello stesso articolo di legge. Il panettone va anche prodotto secondo il procedimento previsto nell’allegato del Decreto, stessa cosa per il pandoro. Poi, appunto, c’è anche il pandoro “decretato”. “Il prodotto dolciario da forno a pasta morbida, ottenuto per fermentazione naturale da pasta acida di forma a tronco di cono con sezione a stella ottagonale e con superficie esterna non crostosa, una struttura soffice e setosa ad alveolatura minuta ed uniforme ed aroma caratteristico di burro e vaniglia. Sono ammessi i diminutivi per le piccole pezzature: “pandorino” e “panettoncino”. Se il panettone non contiene uvetta o scorza di agrumi canditi, va tassativamente indicato nella denominazione di vendita. Il ventaglio dei prezzi va dai 3 euro ai 12. 

Mentre siamo in fila alla cassa, fissiamo il chilogrammo di pane acquistato dal cliente che ci precede, 3,99 euro, e ci chiediamo come sia possibile che tutti i buonissimi ingredienti, prescritti da decreto ministeriale, forniscano una bontà di stella ottagonale dalla struttura soffice e setosa ad alveolatura minuta – una descrizione che è pura poesia – che costa 3,69 euro, meno di un chilogrammo di pane, il più comune dei comuni. 

Grazie al lettore L.F. che con una sollecitazione ha stimolato una sorta di inchiesta da asporto, un breve delivery, in tempo di restrizioni, dalla nostra redazione (e supermercato vicinissimo) a casa vostra.