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Carceri, 59 suicidi e sovraffollamento

Su questa situazione che è un’emergenza abbiamo intervistato Rita Bernardini, Presidente di “Nessuno Tocchi Caino

59 suicidi dall’inizio del 2022: questi i tragici numeri delle carceri italiane, circa 1 ogni 4 giorni. Una cifra terribile che ha già superato in 8 mesi il totale dei detenuti che si sono tolti la vita nel 2021. Problemi strutturali di sovraffollamento, e non solo, continuano ad affliggere il sistema penitenziario del nostro Paese, ma poco è stato fatto negli ultimi anni per migliorare le condizioni di vita di chi è recluso, fino ad arrivare a quella che possiamo definire un’emergenza.

Ne abbiamo parlato con Rita Bernardini, deputata radicale nella XVI legislatura (2008-2013) e Presidente dell’associazione Nessuno Tocchi Caino, da decenni in prima linea sul fronte della difesa dei diritti dei detenuti.

Sappiamo che le condizioni degli istituti di pena in Italia non sono affatto buone e da inizio anno abbiamo assistito ad un numero enorme di suicidi. Quali sono attualmente le maggiori problematiche?

Dal 1° gennaio al 28 agosto 2022, 59 persone si sono tolte la vita nelle nostre carceri, due in più di quante si sono suicidate nell’intero 2021. I suicidi in cella sono 16 volte di più che nella società libera e io credo che molto dipenda dal fatto che lo Stato non rispetta né i principi costituzionali e convenzionali europei, né le leggi in vigore. Quest’anno poi c’è un sovrappiù di disperazione dovuto ai mancati interventi legislativi che tutti si aspettavano dopo due anni di pandemia che sono stati terribili per chi è stato ed è detenuto.

Quali sono i cambiamenti che auspichi per uscire da questa emergenza?

Io credo che sia più che giustificato un intervento d’urgenza, un decreto-legge, volto a ridurre il sovraffollamento. È vero che il Governo Draghi è in ordinaria amministrazione, ma è anche vero che il fenomeno suicidario in carcere non conosceva da tempo questa escalation: solo nel mese di agosto sono stati 18 i detenuti che si sono uccisi. Poi ci sono altri interventi che possono essere messi in atto senza modifiche legislative, come l’incremento delle telefonate e delle videochiamate per aiutare i detenuti a superare momenti di sconforto, e i trasferimenti richiesti dai reclusi per stare più vicini alla propria famiglia o per motivi di studio e di lavoro.

A volte si sente dire che “anche gli agenti penitenziari sono detenuti”, intendendo che la condizione in cui si trovano ad operare non è di certo rosea. Qual è la situazione?

È così vero che Marco Pannella parlava di “comunità penitenziaria”, espressione che con piacere ho sentito usare anche dal nuovo Presidente del DAP Carlo Renoldi. L’agente di polizia penitenziaria è l’unica figura professionale che all’interno del carcere sta a contatto con la popolazione detenuta 24 ore su 24. Sull’agente si scaricano tutte le tensioni quotidiane di un’organizzazione da sempre male impostata per le finalità che dovrebbe avere la detenzione. Se in carcere non ci sono, o ci sono in modo vergognosamente insufficienti, direttori, psicologi, educatori, assistenti sociali, mediatori culturali, medici, infermieri, insegnanti, a chi si rivolge il detenuto se non all’agente che giorno e notte è nel reparto e può rispondergli? Questo stress lavorativo grava molto sulla vita dell’agente. Non dimentichiamo che in media, ogni anno, si tolgono la vita 12 appartenenti al corpo della polizia penitenziaria.

Il lavoro di educatori e psicologi è fondamentale per andare nella direzione della rieducazione. Si riscontrano criticità su questo tema? Ce ne sono a sufficienza per la popolazione carceraria?

Criticità? Siamo letteralmente allo sfacelo. Nella già carente pianta organica dei Funzionari giuridico-pedagogici (così si chiamano da un po’ di tempo gli educatori), l’amministrazione ne assegna molti di meno dei previsti. 999 è la pianta organica, meno di 750 sono quelli assegnati e ancora di meno quelli effettivamente in servizio. Lei capisce che seguire uno per uno i detenuti, come prescrive il nostro Ordinamento penitenziario, è praticamente impossibile. Nelle visite che facciamo nelle carceri tutti i detenuti si lamentano e sono numerosi coloro che l’educatore non l’hanno mai visto.  

Sembra che la ministra Cartabia sia abbastanza sensibile riguardo il tema carcere, la sua riforma della giustizia prevede la possibilità di allargare il ricorso alle misure alternative. Vista la situazione politica attuale, pensi ci sarà tempo (e volontà) di portarla a termine prima delle elezioni politiche?

Sarebbe un disastro se non si riuscisse, anche perché con il suo intervento la Ministra Cartabia ha risolto quel fenomeno dei “liberi sospesi”, cioè coloro che rimangono in attesa, spesso anche per anni, che il magistrato di sorveglianza decida se mandarli in carcere o assegnare loro una misura alternativa. Lo sa quanti sono in Italia? Tra gli 80.000 e i 100.000. Con la riforma Cartabia, per le pene sotto i 4 anni, sarà direttamente il giudice della cognizione a decidere, senza attendere i lunghi tempi della magistratura di Sorveglianza. Inoltre, la riforma Cartabia estende ai reati che prevedono pene fino a 6 anni l’istituto della messa alla prova (oggi sono 4). La messa alla prova ha già dimostrato di ridurre notevolmente il fenomeno della recidiva.

Ci sono formazioni politiche che fanno della sicurezza la loro bandiera e proprio in nome di questa chiedono pene maggiori e maggiore “certezza della pena”. Cosa ne pensi di questo binomio?

Per prima cosa, occorre chiarire che “certezza della pena” non significa “certezza del carcere”. La nostra Costituzione, all’articolo 27 parla di pene, al plurale per significare che le pene possono essere di tanti tipi. In secondo luogo, occorrerebbe parlare anche di “certezza della prova” perché molti finiscono in carcere ingiustamente tanto che lo Stato è costretto a risarcirne almeno mille all’anno per “ingiusta detenzione”. Per non parlare dell’abuso che viene fatto della custodia cautelare, che dovrebbe essere praticata con molta cautela e in casi veramente pericolosi per la collettività. In Italia abbiamo il record negativo del 30% dei detenuti in attesa di giudizio a fronte di una media europea di poco superiore al 20%.

I partiti che si presenteranno alle prossime elezioni, per la grande maggioranza non parlano del tema carcere, cosa ne pensi? Un tema che non fa guadagnare voti?

Non fa guadagnare voti perché il carcere è divenuto la panacea per l’apparente soluzione dei problemi gravissimi di disagio sociale. Ne parlano solo per dire “buttiamo via la chiave” in occasione dell’ultimo fatto di cronaca che ha destato scalpore. Ma chi troviamo in carcere? Soprattutto tossicodipendenti, malati psichiatrici, poverissimi e stranieri. Rinchiudendoli in carcere pensano di aver risolto quei problemi, senza riflettere sul fatto che con la reclusione i problemi si aggravano incrementando il tasso di recidiva.

L’opinione pubblica italiana non addetta ai lavori spesso non conosce le reali condizioni degli istituti di pena ed è ferma a luoghi comuni sulla detenzione. Cosa pensi dell’informazione italiana sul tema?

Questa domanda si collega alla precedente perché certe posizioni dei partiti e dei loro leader sono facilitate se non addirittura sollecitate da come viene rappresentata sui mass media la commissione di un reato e la detenzione. Ha mai ascoltato in un TG la notizia secondo cui in Italia siamo passati dai quasi 2.000 omicidi del 1991 ai 319 del 2019, calati ulteriormente nei due anni del lockdown dovuto al COVID? Certo, sono ancora troppi, ma a guardare un qualsiasi telegiornale sembra che ad ogni angolo delle strade ci sia un esercito di criminali pronto ad ucciderci o a stuprarci.

Mi piacerebbe sfidare, dati alla mano, uno di questi signori delle manette e del carcere sul terreno della “sicurezza” per la collettività. Perché il carcere è criminogeno. Il 75 % di coloro che scontano la pena nei nostri istituti penitenziari torna a delinquere una volta uscito, mentre il tasso si riduce drasticamente se si usufruisce di una misura alternativa.