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Le navi dei veleni, da De Grazia a Ilaria Alpi

di Salvatore Ventruto

«Ventidue anni, sei legislature, sette commissioni parlamentari e diverse indagini della magistratura sono i numeri che mostrano il peso della vicenda, ma anche la difficoltà di pervenire a conclusioni univoche sull’intero fenomeno».

La vicenda è quella delle navi che negli anni ’80 e ’90 sono state fatte affondare nel Mediterraneo o erano dirette verso i Paesi del Nord Africa per smaltire illecitamente rifiuti tossici e radioattivi e questo che avete appena letto è uno dei passaggi più significativi inseriti dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti nella sua relazione conclusiva del febbraio 2018.

Gli interrogativi, ancora oggi, sono molti, nonostante la grande mole di documenti e atti desecretati dalle passate commissioni parlamentari d’inchiesta. Per questo all’inizio dell’attuale legislatura, nel giugno 2018, era stata presentata da alcuni parlamentari del M5S una proposta di legge che intendeva istituire una commissione ad hoc. La proposta non è stata però mai discussa e così il desiderio di vederci più chiaro, ribadito in più occasioni, è rimasto utopia.

Eppure, l’ultima commissione parlamentare aveva suggerito una linea di inchiesta ben precisa sostenendo che la vicenda, per meglio essere compresa, doveva essere inserita in un contesto molto più ampio: quello dello smaltimento illecito transnazionale di rifiuti. Rifiuti radioattivi, o comunque tossici,  destinati soprattutto in Africa, e che provenivano dalle grandi industrie italiane del Nord, ma anche da altri Paesi europei. «La centralità geografica e strategica dell’Italia nel mare Mediterraneo – si legge nella relazione finale – ha caratterizzato il ruolo del nostro Paese all’interno di un network sicuramente europeo perché è indubbio che molti dei protagonisti di questa vicenda provenissero da altre nazioni, con i nostri porti che hanno svolto un ruolo chiave nella copertura dell’ultimo tratto di un traffico complesso».

«Gli anni ’80 e ’90 – si legge ancora nel documento parlamentare – sono stati l’epoca d’oro dei viaggi dei rifiuti pericolosi italiani ed europei verso i Paesi extra UE, soprattutto nel Nord Africa». La fragilità della loro democrazia e le guerre civili in corso, facevano di questi Paesi un terreno fertile per la falsificazione dei documenti di tracciabilità dei rifiuti, aprendo considerevoli falle nel sistema dei controlli. Veniva messo a punto, di fatto, un vero e proprio know how criminale, “utile” anche per il traffico d’armi, che sarebbe stato utilizzato negli anni a venire soprattutto a danno delle regioni del sud Italia, con la compiacenza e, in alcuni casi, perfino collusione di politici e amministratori locali.

Linx, Jolly Rosso, Rigel, Radhost sono i nomi di alcune delle carrette del mare che facevano la spola tra la Somalia e l’Italia per tornare, quasi sempre dopo aver percorso rotte improbabili, a Mogadiscio col loro carico di rifiuti da smaltire illegalmente. Rotte che prevedevano una fermata quasi obbligatoria: Beirut. Molti fili della vicenda portano nella capitale libanese, a cominciare da quelli della Radhost, che con un carico di rifiuti italiani attracca a Beirut il 21 settembre 1987. Le sue sorti si intrecciano con un’altra “carretta del mare”, la Rigel, considerata la “madre” delle navi utilizzate per l’affondamento dei rifiuti. Se da un lato il processo accerterà la natura dolosa dell’affondamento di quest’ultima, avvenuto proprio il 21 settembre 1987 al largo di Capo Spartivento, in provincia di Reggio Calabria e la relativa truffa ai danni della compagnia assicurativa, dall’altro non prenderà neanche minimamente in considerazione il possibile movente del carico di rifiuti tossici e pericolosi. Nel corso delle indagini alcuni periti trovarono tracce del passaggio della Rigel in Libano, al porto di Ras Seelata, circa dieci miglia a nord di Beirut. E tra gli obiettivi delle nuove indagini, chieste dall’ultima commissione d’inchiesta, avrebbe dovuto esserci quello «di capire meglio i vari collegamenti con la capitale libanese».

Dell’affondamento della Rigel e del presunto traffico illecito di rifiuti pericolosi di natura transnazionale se ne occupò Natale De Grazia, ufficiale della Marina Militare in servizio presso la capitaneria di porto di Reggio Calabria, morto il 13 dicembre 1995 in circostanze ancora da chiarire. Il capitano De Grazia fece parte del pool investigativo coordinato dal sostituto procuratore di Reggio Calabria, Francesco Neri, e nel corso dell’inchiesta incappò nell’imprenditore Giorgio Comerio. Durante la perquisizione dell’abitazione di quest’ultimo a Garlasco, nel pavese, furono acquisiti elementi rilevanti: in primis – come si legge nella relazione illustrativa della proposta di legge depositata nel 2018 – la sua agenda, dove sulla pagina corrispondente proprio al 21 settembre 1987, giorno dell’affondamento della Rigel, era riportata l’annotazione “lost the ship”, indizio che sarebbe stato successivamente confermato dalle informazioni acquisite da De Grazia dai registri Lloyds di Londra; in secundis la documentazione attinente alla Oceanic Disposal Management (ODM), società per lo smaltimento delle scorie nucleari che aveva fondato, nonché al progetto Dodos, che prendeva origine proprio dal programma di inabissamento dei rifiuti radioattivi. In pratica – si legge ancora nella relazione – tutta la documentazione sequestrata all’imprenditore Giorgio Comerio «portava a ritenere che lo stesso si occupasse dell’acquisto delle navi per il loro successivo utilizzo a fini illeciti». Nel corso della perquisizione fu rinvenuto anche un intero fascicolo sulla Somalia nel quale, a detta di quanto riferito da un collega di De Grazia, sarebbero stati trovati anche materiali riguardanti la morte di Ilaria Alpi, la giornalista del Tg3 uccisa in un agguato a Mogadiscio, assieme al collega Miran Hrovatin, il 20 marzo 1994. In una audizione nel 2010 il maresciallo Moschitta riferisce di un documento fornito dal SISMI che mostrava Giorgio Comerio «come colui che aveva ospitato in un appartamento, non so se di sua proprietà, a Montecarlo Licio Gelli».

Il perimetro, quindi, in cui si mosse il capitano De Grazia era talmente vasto, complesso e pieno di insidie da giustificare i tanti interrogativi che rendono, ancora oggi, misteriosa la sua morte.  A tal proposito – come riporta la relazione finale dell’ultima commissione d’inchiesta – il pentito di ‘ndrangheta Francesco Fonti, deceduto nel 2012, riferì dell’ipotesi, poggiante sul sentito dire, che la criminalità calabrese avesse trattato con i servizi segreti per lo smaltimento illecito di rifiuti e che il capitano fosse stato eliminato perché stava per scoprire qualcosa che non sarebbe mai dovuto emergere. I commissari però hanno solo accennato a questo scenario senza prenderlo «seriamente in considerazione».

Da un accertamento presso i Lloyds di Londra è emerso che dal 1987 al 1993 sono state ben 23 le navi affondate nei mari antistanti le coste calabresi. Tra queste anche la Cunski, che “viene inabissata”, carica di rifiuti tossici, al largo di Cetraro, in provincia di Cosenza. La Cunski, circa dieci anni fa, fu oggetto di un vero e proprio scontro tra l’allora procuratore di Paola, Bruno Giordano, da una parte, e il Ministero dell’Ambiente e la Marina Militare, dall’altra, con i secondi che si distinsero per uno spirito non particolarmente collaborativo nell’ambito delle attività di verifica che furono intraprese. Per loro, la nave che giaceva sul fondale non era il Cunski ma un piroscafo della prima guerra mondiale, il Catania, ipotesi che fu smentita dal ritrovamento da parte del giornalista Gianni Lannes di un documento del Lloyd di Londra in cui si stabiliva che la nave da guerra Catania era stata affondata il 4 agosto 1943 nel porto di Napoli.

La vicenda della Cunski, dalla quale prende spunto l’ultima proposta di inchiesta parlamentare,  impone una seria riflessione sulla efficacia degli accertamenti compiuti in questi anni dallo Stato, nonché sulla sua reale volontà di fare chiarezza su una delle vicende più oscure e controverse della storia repubblicana. Morti sospette, depistaggi, reticenze, testimonianze giudicate frettolosamente inattendibili, scarso spirito di collaborazione tra inquirenti e istituzioni, sono stati il dominus in questa storia, a prescindere dalla dimensione nazionale (al largo della Calabria) o internazionale (al di là del Mediterraneo) dei traffici illeciti e delle modalità con le quali i rifiuti tossici e radioattivi venivano smaltiti. Perché molte sono le contraddizioni e le domande, puntualmente senza risposta, che arrivano anche in Somalia, gettando pesanti ombre sulla missione militare italiana di inizio anni ‘90 in quel Paese. Le stesse ombre sulle quali stavano lavorando anche Ilaria Alpi e Miran Hrovatin? A questa domanda proveremo a rispondere in un secondo momento.