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Sahel, si scalda il cuore d’Africa


Continua il nostro approfondimento sulla geopolitica e le relazioni dell’Africa con gli altri Paesi e Continenti.

Alcuni dei caratteri soltanto evocati nell’analisi del contesto nordafricano sono esasperati nell’area cosiddetta del Sahel, in cui l’assenza di istituzioni e di servizi più basilari sono al tempo stesso causa ed effetto della spirale di drammi a cui quella regione sembra condannata. 

Che cos’è il Sahel

Per Sahel si intende quella vasta cintura di terra che, estendendosi dall’Oceano Atlantico al Mar Rosso, divide il Nordafrica dal continente sub-sahariano.

Qui instabilità e conflitti hanno radici storiche profondissime. Da generazioni, gruppi etnici e tribali del luogo dialogano fra loro soltanto attraverso la violenza e i soprusi, spesso animati soltanto da ragioni puramente xenofobe. Governi deboli e istituzioni fragili, povertà estrema, assenza di servizi, predisposizione alla corruzione dei capi-tribù, hanno reso il Sahel terreno fertile per bande di criminali e organizzazioni terroristiche che si sono imposte sulle popolazioni locali, sostituendosi agli Stati centrali e fungono da veri e propri centri per l’impiego per numerosi giovani senza lavoro. Non stupisce, quindi, se già a metà degli Anni Novanta proprio un Paese della porzione orientale del Sahel, ovvero il Sudan, fece da campo-base per Osama Bin Laden (e dei suoi fedelissimi) il quale, con la complicità delle élite locali, riuscì ad espandere la propria rete di influenze nella regione e a elaborare i progetti di terrore e di morte che il mondo, di lì a poco, avrebbe conosciuto.

Il G5-Sahel

Non a caso, lo scopo dell’unico organismo intergovernativo della regione, il G5-Sahel, è la politica di sicurezza comune, declinata nella cooperazione militare per fronteggiare gli estremisti islamici che operano su scala transnazionale. Le profonde ferite economiche, umanitarie, istituzionali e climatiche che interessano quest’area, provocano una emorragia di flussi migratori, in costante crescita.

La città di Agadez

La città di Agadez, in Niger è il principale bacino di raccolta di profughi, poi indirizzati prevalentemente verso le tratte algerine/tunisine e libiche, attraverso il Fezzan. L’eredità della presenza francese nella regione è testimoniata prevalentemente dall’utilizzo della lingua transalpina e del franco Cfa, una moneta fortemente condizionata dal Tesoro di Parigi, che tuttavia nelle intenzioni di Macron verrà presto sostituita da una nuova valuta, chiamata Eco.

La Francafrique oggi

La rete di influenze e interessi della Francia nelle sue ex-colonie del Sahel, ma anche degli altri Paesi dell’Africa Occidentale, la meglio nota Francafrique, continua a conservarsi, in ogni caso, attraverso l’operato di grandi aziende come Total, Alstom, Orano ed altre meno note. Da diversi anni, le attenzioni dell’Eliseo nell’area sono integrate in un più vasto impegno europeo, distribuito in progetti di natura economica, politica e militare. Un impegno che, alla luce della persistente successione di avvenimenti e sconvolgimenti nella regione, viene periodicamente ripensato e rimodellato.

Il rapporto con l’Unione Europea

Nel 2011, l’Unione Europea ha incentrato la propria “Strategia per la sicurezza e lo sviluppo del Sahel” sulle direttrici della lotta al terrorismo, della cooperazione economica e del miglioramento delle istituzioni locali, affiancandola ad una serie di missioni civili e militari, spesso sospese o ridimensionate. Neanche i più recenti piani adottati da Bruxelles, come il Rap o l’istituzione del comitato “One Desert Iniziative”, hanno potuto evitare il rapido deterioramento del teatro saheliano.

I finanziamenti dedicati alle forze militari locali, spesso coinvolte in soprusi o atti violenza nei confronti delle popolazioni civili, non meno delle bande criminali o dei gruppi jihadisti, hanno generato sentimenti di ingiustizia. Inoltre, il sentimento antifrancese e antioccidentale, dilagante nella regione, ha portato alcuni Paesi governati da golpisti, Mali, Burkina Faso e Niger, a interrompere i programmi di collaborazione intrapresi con l’Unione Europea nell’ultimo decennio.

Ad una tale perdita di legittimità delle istituzioni di Bruxelles corrispondono inevitabili perdite di spazio di intervento e di dialogo, che vengono ormai da tempo riempiti da altri attori internazionali.

Il rapporto con le Monarchie del Golfo

È il caso delle Monarchie del Golfo, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, che proprio attraverso i due Paesi più di frontiera del Sahel, hanno fra le mani le “porte dell’Africa”. La Mauritania, ad ovest ed il Sudan, ad est, tracciano le rotte d’ingresso e di uscita dei flussi di merci e di capitale umano. 

Il Sudan

Già da tempo, il Sudan, rappresenta una sorta di granaio per i Paesi del Golfo, che in quel territorio hanno indirizzato centinaia di milioni di dollari proprio rivolti allo sviluppo delle attività agricole. Il Governo di Riyad si è fatto garante del debito che questo Paese del Sahel ha nei confronti del Fondo Monetario Internazionale.

Gli Emirati Arabi, dal conto loro, nel 2022, avevano stipulato un accordo da 6 miliardi di dollari per la costruzione del porto di Abu Amama, sul Mar Rosso.

Ma l’azione in Sudan di emiratini e sauditi rappresenta soprattutto un baluardo per contenere l’influenza dell’Iran nell’Africa Orientale, nonostante nel Marzo di questo anno ci sia stato un riavvicinamento fra le due parti, con la mediazione cinese, come avevamo testimoniato a suo tempo. 

Proprio il timido disgelo fra sauditi ed iraniani, aveva favorito l’evacuazione di numerosi civili in fuga delle violenze scoppiate in Sudan nella tarda primavera, a bordo di mezzi della marina di Bin Salman. Nel frattempo, le strade sudanesi continuano a macchiarsi di sangue per i piombi dei due Signori della Guerra che si erano divisi il potere dopo la dittatura di al-Bashir, proseguendo una storia di dolore e di instabilità, che fra le sue pieghe nasconde un genocidio di proporzioni inaudite, consumatosi nel Darfur e che neanche l’indipendenza del Sud Sudan, nel 2011, ha placato.

La Mauritania

Dal lato opposto del Sahel, si estende l’altra “porta”, ovvero la Mauritania, cerniera naturale con il Magreb, con cui da pochi anni, le Monarchie del Golfo hanno intensificato le relazioni diplomatiche, commerciali e militari. Visite di Stato incrociate, quattro memorandum d’intesa firmate con i sauditi, una commissione di monitoraggio per i miliardi a loro favore stanziati dagli emiratini, l’espansione e la modernizzazione dei porti di Nouakchott e Nouadhibou per proiettare gli scambi commerciali sino all’America Latina, sono soltanto delle tracce di una penetrazione che abbraccia anche gli aspetti culturali e spirituali, attraverso la costruzione di moschee e la formazione di Imam, per contrastare il dilagarsi dell’Islam più radicale e il crescente proselitismo sciita, di ispirazione iraniana. In questo senso, va anche inquadrato, il finanziamento costante che le monarchie elargiscono al G5-Sahel, un tema già toccato nel precedente articolo.

L’economia della Mauritania si basa sull’industria estrattiva, grazie ai suoi notevoli giacimenti di oro, rame e ferro, cui si sommano le ingenti risorse gasifere offshore scoperte soltanto nel 2019, in acque territoriali condivise con il Senegal. La politica estera della Mauritania è ormai allineata a quella saudita-emiratina, come testimoniano la partecipazione alla coalizione araba impegnata in Yemen e la rottura dei rapporti con il Qatar nel 2018. Fra Mauritania e Sudan, si incastrano quattro Paesi, che nell’ultimo decennio, possono essere assimilati a due costanti: colpi di Stato militari e sentimento anti-francese, nonché anti-occidentale.                                                                                                                  

Il Mali

Ad inaugurare il giro di valzer, è stato il Mali, nel 2012, sotto le spinte dei separatisti del Movimento Nazionale di Liberazione dell’Azawad, regione a nord del Paese, area designata per la costituzione di uno Stato jihadista. La Francia rispose con due operazioni militari di contenimento, in rapida successione, la Serval e la Barkhanè, senza tuttavia riscuotere alcun risultato sul campo. Di fronte al moltiplicarsi dei territori sotto il controllo di Al Qaeda, il governo golpista maliano si gettò fra le braccia della Russia che garantì la protezione dei mercenari del gruppo Wagner, in cambio dello sfruttamento esclusivo dei giacimenti di bauxite, manganese e oro. La successiva guerra civile, le elezioni del 2013 e del 2020, archiviate con nuovi golpe militari, il ritiro definitivo della Francia nel 2022, hanno trasformato il Mali in un focolaio che ha contagiato l’intera area del Sahel, a cominciare dal Burkina Faso. 

Il Burkina Faso

Qui dal Settembre 2022 vige la legge del giovanissimo capitano dell’esercito Ibrahim Traoré che si definisce la reincarnazione dell’eroe nazionale Thomas Sankara, a cui ha copiato anche il celebre motto: «O la patria o la morte, noi vinceremo!». Intriso di socialismo economico, il giovane golpista ha lanciato dei programmi di imprenditoria comunitaria, ampliando le attività di tre miniere e di due stabilimenti di salsa di pomodoro. Il Burkina Faso ha un potenziale agricolo ancora poco sfruttato e riserve minerarie inesplorate, nonostante questo la povertà estrema è dilagante. In meno di un anno di Governo, Traoré si presentato come leader dell’antimperialismo panafricano, non mancando di bacchettare élite di potere e politicanti del suo continente. Le alleanze strategiche, diplomatiche e militari del nuovo Burkina Faso contemplano l’intero assortimento di Stati ostili all’Occidente: Iran, Venezuela, Nicaragua, Cuba. Ad inizio Settembre 2023, ha definitivamente rotto le relazioni diplomatiche con Taiwan, riconoscendo l’unica sovranità territoriale della Repubblica Popolare Cinese. Alla fine di Luglio, il giovane militare è stato uno dei più attenti e disponibili fra gli ospiti di Putin, che nella sua San Pietroburgo ha celebrato la seconda edizione del forum Russia-Africa, nel corso del quale sono state gettate le basi per un accordo, poi formalizzato, riguardante la costruzione di una centrale nucleare per mano della holding moscovita Rosatom. Al ritorno dal summit, Traoré venne accolto dal suo popolo in festa, fra caroselli e bandiere russe sventolate per aria. Tutto questo, mentre nell’ultimo anno, il Burkina Faso ha registrato un incremento del 137% di attentati terroristici e, nel Nord-Est del Paese, ormai quasi un milione di persone vivono in villaggi conquistati da Al-Qaeda ed Isis.

Gli sviluppi in Mali e Burkina Faso, avevano spinto la Francia e l’Unione Europea a fare del Niger, il perno della nuova architettura di sicurezza nel Sahel, l’ultimo avamposto occidentale nell’area. Il Niger era diventato teatro di missioni bilaterali di singoli Stati membri, fra cui figurava anche l’Italia. L’ultima operazione approvata nei palazzi di Bruxelles è del febbraio 2023 ed aveva l’obbiettivo di sostenere le forze di sicurezza nigerine in proiezione di controterrorismo e per difendere l’integrità territoriale. Tuttavia, come abbiamo raccontato questa estate, anche in Niger non si è resistito al richiamo del colpo di Stato.Deposto il Presidente filo-occidentale Bazoum, la giunta militare al potere da Luglio ha interrotto tutti i programmi di cooperazione con l’Ue ed ha bussato alle porte del Cremlino. Sono ancora fresche nella nostra memoria, le immagini dei manifestanti che mettono a soqquadro l’ambasciata francese della capitale nigerina, intonando: «Lunga vita a Putin!». Le condanne dell’Ecowass, organismo che riunisce i Paese dell’Africa Occidentale guidato dalla Nigeria, con tanto di minacce di intervento miliare non hanno fatto tornare sui propri passi, il generale Tchiani, autoproclamatosi Presidente. Oltre alla Russia, a contendere la redditizia attività di estrazione dell’uranio nigerino, c’è la Cina che ha anche avviato la costruzione di un oleodotto di duemila chilometri, sino al Benin e dunque all’Oceano. La China National Petrolum Company controlla l’estrazione di petrolio greggio in Ciad da almeno due decenni. E proprio il Ciad, chiude il mosaico del Sahel di cui ci stiamo occupando in questo articolo.

Il Ciad

In stato di emergenza alimentare dal Giugno 2022 e flagellato dalla desertificazione del bacino del lago omonimo, evento che alimenta tensioni fra allevatori nomadi e contadini stanziali, in lotta per accaparrarsi acque e terreni, siamo di fronte ad un Paese composto da oltre duecento etnie, protagoniste di scontri fratricidi che spesso sfociano nel sangue. Dopo l’uccisione del Presidente Deby, avvenuta subito dopo la rielezione per il suo sesto mandato, per mano dei ribelli, armati dalla Libia di Haftar e dai mercenari della Wagner, il Ciad è guidato da un Consiglio di transizione militare, al cui vertice, c’è proprio il figlio del Presidente deceduto. In questo scenario, il Ciad rimane la principale potenza militare del G5-Sahel e le sue truppe sono essenziali per la lotta ai fondamentalisti. Per questo motivo, le instabilità interne preoccupano la comunità internazionale, in quanto assorbono uomini e impegno nella delicata sfida al terrorismo.