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Saman, il gelsomino

L’inchiesta mancata

di Dania Ceragioli

Saman, il tuo è un nome nobile, antichissimo di origini persiane, simboleggia un fiore: il gelsomino. Un fiore piccolo, bianco, delicato e profumatissimo che nel tuo caso è stato reciso troppo presto e con inaudita violenza. Ti eri definita una “italian girl”, ma tu semplicemente eri una giovane che si stava aprendo con curiosità alla vita, che desiderava sperimentarla con avidità e sopra ogni cosa essere libera di amare. Volevi uscire dalla società chiusa di provenienza e immetterti attraverso le infinite possibilità delle società aperte occidentali, in un nuovo flusso di esperienze. Non ti è stato permesso, la tua famiglia già aveva scelto per te. Una questione di interessi piuttosto che di religione. L’“onore” in certi contesti culturali conta più dell’amore e la promessa infranta di un matrimonio combinato, sarebbe stata una macchia difficile da rimuovere per l’intero clan familiare. Nel villaggio del sud del Punjab da cui i tuoi genitori provenivano, dove vige una cultura rurale, sposare i cugini di primo grado rappresenta la normalità, Serve a rafforzare i legami familiari, è necessario affinché i possedimenti terrieri restino integri e confinati alla stessa cerchia di parenti. Questo tu avresti dovuto saperlo, o forse no, essendo quella parte di mondo, per te cresciuta in Italia, tanto distante. Anche se eri un piccolo fiore, non eri certo un pacco da recapitare al miglior offerente. Avevi denunciato, avevi avuto la forza e il coraggio di andartene, ma non è bastato, chi poteva e doveva proteggerti non è riuscito a farlo. Eri entrata da alcuni mesi in una comunità protetta, dove spesso viene offerta un’altra identità, si chiude con il passato e si entra in un’altra dimensione quella in cui spesso interviene una sorte di morte sociale. Tu hai pagato con la vita le tue scelte, non sei stata l’unica e forse non sarai l’ultima.

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Ma quante sono le altre Saman nel nostro Paese? Da fonti della Polizia di Stato pare siano ventidue solo negli ultimi tre anni, nonostante una legge istituita nel 2019 ritenga il matrimonio forzato un reato.

Ho iniziato a interessarmi al fenomeno dei matrimoni forzati al rientro da un viaggio in Yemen. Mentre stavo visitando un villaggio sperduto sulle montagne, una bambina di circa dieci anni mi si avvicinò tirandomi il vestito. Aveva uno sguardo perso e allo stesso tempo penetrante che mi sentii incollarmisi addosso. Cercò di parlarmi, ma non riuscì a comprenderla e l’uomo che era con lei si avvicinò velocemente trascinandola via. La guida che mi accompagnava lo raggiunse, scambiarono qualche parola, lo conosceva, era considerato una sorta di capo tribù. Mi raccontò brevemente la sua storia, non era il padre di quella bambina come io avevo creduto, bensì il marito. Da quelle parti non era l’unico a avere una sposa bambina. Da allora quello sguardo non mi ha mai più abbandonata, me lo porto dentro  e con esso la tacita promessa di fare qualcosa per lei e per tutte le altre bambine, ragazze, donne a cui è stata sottratta l’infanzia, oltre alla libertà di scelta.

Da alcuni anni con una collega giornalista, stiamo cercando di condurre uninchiesta sui matrimoni combinati, partendo proprio dall’Italia, dove questo fenomeno è più diffuso di quanto si possa credere. Abbiamo cercato, non senza difficoltà, di squarciare quel velo di omertà e di diffidenza che lo alimenta. Ci siamo affidate alle comunità di protezione che purtroppo ci hanno ignorate per oltre un anno, impedendoci di avvicinare le loro ospiti, nonostante  avessimo garantito loro uno status di anonimato. Siamo state ai loro convegni, abbiamo sposato le loro iniziative, ma quando si chiedeva espressamente di avere accesso alle loro strutture, ogni volta e con motivazioni sempre diverse, ci veniva sbarrata la strada. Questo tema tanto complesso non può essere affrontato in maniera settaria, richiede la sinergia di tutti. Crediamo fermamente nel potere dell’informazione, attraverso testimonianze dirette scaturite da esperienze personali, utili a mostrare una strada possibile verso la rinascita e il riscatto. Anche la protezione quando non lascia libertà di espressione, diventa essa stessa una prigione.

Foto di Dania Ceragioli