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Africa, tra fast fashion, diamanti e cobalto


Si conclude il nostro viaggio in Africa, tra Congo e Sudafrica, tra i “fiumi blu-jeans” del Lesotho e il blu cobalto del Congo.

L’ultima puntata della nostra serie di successo dedicata all’Africa si chiude con un focus sui Paesi della fascia australe ed equatoriale del continente, che si avvicendano lungo il versante occidentale.

Un ruolo dominante in questo quadrante lo ricopre, senza rischio di essere smentiti, il Sudafrica. Di gran lunga l’economia trainante di tutta l’area e non solo, in quanto può essere considerata a tutti gli effetti una sorta di piattaforma di lancio per ogni investimento diretto nel resto del continente.  

Il Sudafrica

Primo produttore africano di oro (che il 4 dicembre 2023 ha toccato il prezzo record di 2100 dollari l’oncia), negli anni è riuscito a diversificare la propria economia dalla dipendenza dalle estrazioni minerarie, sviluppando i settori del manifatturiero e dei servizi. In qualità di Paese membro del G20 (che dal prossimo anno diventerà G21 con l’ingresso dell’Unione Africana Africa, terra di business – La Redazione) e del Gruppo Brics, gode di un peso internazionale universalmente riconosciuto, come del resto è testimoniato dal fatto di essere l’unico Paese africano ad aver ospitato un grande evento internazionale, come i Mondiali di calcio, nel 2010.  

L’altra faccia del Sudafrica, tuttavia, nasconde un Paese ai primi posti nella classifica mondiale dei territori in cui vengono commessi più crimini, dietro soltanto a campioni come Venezuela, Papua Nuova Guinea e Afghanistan.

La vigilanza privata in Sudafrica

Anche per questo, probabilmente, in Sudafrica il settore della vigilanza privata è il più redditizio al mondo, a causa della corruzione e dall’inadeguatezza dei corpi di polizia, che  non godono della fiducia dei cittadini. Dal settembre dello scorso anno, inoltre, il Sudafrica è ostaggio di continui blackout anche di diverse ore ogni giorno, programmati dalla società statale Eskom per effettuare interventi di manutenzione sulle vecchie centrali a carbone ed evitare il collasso definitivo della rete elettrica.

La nazione più iniqua al mondo

Secondo un report del marzo 2022 della Banca Mondiale, il Sudafrica è la nazione più iniqua al mondo, in cui il 10% della popolazione possiede l’80% delle ricchezze, gli spazi abitativi ricalcano ancora lo scenario dell’apartheid con sobborghi di baraccopoli popolate anche da milioni di persone, le cosiddette township, di cui Soweto è soltanto il caso più noto. Nel periodo in cui ricorre il decimo anniversario della morte di Nelson Mandela, una analisi approfondita del Sudafrica richiederebbe uno spazio tale da non consentirci di menzionare gli altri Paesi dell’area, per questo ci fermiamo con questa cornice.

Il Lesotho

All’interno del territorio sudafricano sono incastonati i due piccoli regni del Lesotho dell’Eswatini, insieme al Marocco uniche monarchie del continente africano.

Il Lesotho è il maggior esportatore di indumenti verso gli Stati Uniti d’America dall’Africa sub-sahariana. Una piccolissima nazione nelle mani di alcuni dei principali marchi della moda low-cost, che qui hanno stabilito alcuni dei propri siti produttivi.

Il fast-fashion

L’industria del fast-fashion, tuttavia, si sa, è uno dei settori più inquinanti in assoluto e il Lesotho se n’è reso accorto a sue spese, quando qualche mese fa, uno dei fiumi che scorre nel suo territorio si è dipinto interamente di blu, assorbendo il colore degli scarti di produzione di una fabbrica di jeans, che opera nei dintorni.

L’Eswatini (ex Swaziland)

Non passa inosservato neanche l’ancor più piccolo regno di Eswatini, fino al 2018 conosciuto come Swaziland, dove il re Mswati III si è recentemente distinto per essere il primo governante africano ad aderire al Clean Network Initiative, un programma messo in capo dal Dipartimento di Stato statunitense nel 2020 contro le società cinesi che gestiscono le infrastrutture del 5G. Nel rompere con Pechino, il monarca ha fatto le cose “per bene”, annunciando anche di intensificare le proprie relazioni diplomatiche e commerciali con Taiwan.  

La Namibia

La reputazione della Cina inizia a vacillare, tuttavia, anche nella più estesa Namibia, ex colonia tedesca sull’Oceano Atlantico, che soltanto nel 2016 si è vista ricevere le scuse ufficiali di Berlino per un orrendo genocidio consumatosi all’inizio del Novecento. Una espiazione dei peccati del proprio passato arrivata giusto in tempo, per permettere alla Germania, in partnership con la Gran Bretagna, di avviare nella Namibia un progetto per la produzione di idrogeno verde, a cui alla fine di ottobre di quest’anno si è accodata anche l’Unione Europea, con uno stanziamento da un miliardo di euro.  «I namibiani sono stati venduti ai cinesi» è una delle dichiarazioni lanciate dal partito nazionalista locale, la scorsa estate, che ha raccolto grande consenso nella popolazione al punto da generare manifestazioni e cortei di protesta, al limite dell’odio razziale. Soltanto pochi giorni fa, inoltre, il Governo della Namibia ha dato mandato alla polizia di imporre il fermo al trasporto di litio alla compagnia cinese Xinfeng, con le accuse di aver acquisito i diritti sulla miniera di Uis con la corruzione, di imporre condizioni di lavoro “da apartheid” e di arrecare danni ambientali.

La protezione dell’ecosistema prevista in Costituzione

Una sensibilità ambientale che non nasce per caso, da queste parti se si considera che la Namibia, nel 1998, è stato il primo Paese in assoluto a inserire nella propria Costituzione la protezione degli ecosistemi. Tutt’ora il 44% del territorio è sotto tutela, offrendo un patrimonio di paesaggi mozzafiato, che vanno dal deserto, alle coste selvagge, sino alle fitte foreste fluviali, in cui trova esaltazione la biodiversità di flora e fauna. Queste peculiarità, tuttavia, aprono le porte ad altre criticità, come il dilagante fenomeno del bracconaggio di rinoceronti, elefanti e ippopotami e soprattutto la cronica carenza di acqua.

Scopriremo presto se le azioni del Governo namibiano nei confronti di Pechino sono soltanto di facciata per alzare l’asticella degli investimenti o se si tratta di una nuova presa di coscienza. Certo è che l’infrastruttura più importante del Paese porta la firma di un’azienda cinese che, fra il 2014 e il 2019, ha raddoppiato il terminal del porto di Walvis Bay, rendendolo uno degli scali più importanti di tutta l’Africa australe.

Sempre cinesi sono i capitali e la manodopera che hanno migliorato i collegamenti autostradali fra le città di frontiera e l’aeroporto della capitale.  

Il Botswana

Con la Namibia e con il Sudafrica, confina un Paese che ai tempi della sua indipendenza, a metà degli Anni Sessanta, era fra i più poveri a livello globale, insieme al Bangladesh. Ai giorni nostri, invece, i suoi cittadini guadagnano in media un reddito pari ad almeno il quadruplo della media continentale, con livelli di istruzione di base impartiti al 90% dei bambini, un sistema stradale efficiente e capillare, solide istituzioni democratiche.

I diamanti del Botswana

Ci riferiamo al Botswana, secondo produttore di diamanti su scala mondiale, abile a non farsi inghiottire da quella maledizione delle risorse, che investe gran parte dei territori ricchi di materie prime eppure incapaci di goderne per le sviluppare le proprie comunità. In Botswana, lo Stato riesce a trattenere i tre quarti delle rendite provenienti dalla vendita di diamanti, grazie ad una collaborazione storica e proficua con l’azienda estrattrice, una controllata del gruppo De Beers. 

La holding De Beers

La holding De Beers, con sede in Sudafrica, venne fondata dall’eclettico Cecil Rhodes, uomo d’affari dalla storia romanzata, che nella seconda metà dell’Ottocento, riuscì addirittura a farsi riconoscere dalla Corona britannica, una colonia che portava il suo nome, nei territori degli attuali Zambia e Zimbabwe, nota come Rhodesia. Isole d’Africa, le nuove colonie – La Redazione

L’Angola

Bagnata dall’Oceano Atlantico, l’Angola è la seconda economia dell’intera regione australe, sebbene, a differenza del Sudafrica in grado di diversificare le proprie entrate, qui si assiste ad una pressoché totale dipendenza dal petrolio e dal settore minerario. Ad acquistare il 70% del petrolio angolano, nel 2021, è stata la Cina, a conferma di un legame viscerale fra i due Paesi, ancor meglio spiegato dal dato per cui l’Angola sia il destinatario di un quarto di tutto il denaro investito da Pechino in Africa,  sin dall’inizio del millennio. La cooperazione con il gigante asiatico si è intensificata a partire dal 2002, anno che segnò la fine di una guerra civile pluridecennale che lasciato dietro sé macerie e morte. A partire da allora, la Cina ha costruito case, scuole, ospedali, strade, ferrovie, nuovi quartieri e addirittura città intere anche a solo fine speculativo, come si potrebbe dedurre dal caso di Cidade de Kilamba, in cui tutt’ora vi sono centinaia di palazzi a otto piani completamente disabitati. L’impegno cinese in Angola è dettato da accordi molto chiari e stringenti: il 70% di tutti i contratti infrastrutturali devono essere affidati ad imprese del Dragone, così come almeno la metà dei materiali e delle attrezzature devono provenire dalle stesse latitudini. Come già in altri territori di questa area dell’Africa, tuttavia, l’influenza culturale e romantica dell’Unione Sovietica è quella dominante, da far risalire ai tempi delle lotte per l’indipendenza dai domini coloniali, nel caso angolano, domini portoghesi. L’erede sovietico per eccellenza, ovvero la Russia, incassa questo fascino che esercita nel Paese, sfruttandone le ricchezze minerarie, in particolare diamantifere, attraverso partnership firmate dalla società Alrosa, attiva nel sito di Lauchi, nella provincia nord-occidentale dell’Angola.

A non voler restare indietro sul palcoscenico angolano sono le principali potenze occidentali, che qui stanno concentrando parte dei propri sforzi, per rilanciare la competizione internazionale e ribaltare la narrazione sul grande Sud Globale. A novembre, il comandante generale dei Marines americani si è recato nella capitale angolana per incontrarne il Presidente e gli alti vertici militari, sebbene accanto al contributo nel settore della difesa, Washington sta mettendo sul piatto milioni di dollari da investire nello sviluppo infrastrutturale del Paese.

Nello specifico, come si evince da un memorandum concepito durante il G20 di Nuova Delhi, gli Stati Uniti d’America e la Commissione Europea collaboreranno ai lavori per l’ampliamento del corridoio di Lobito, una linea ferroviaria di oltre duemila chilometri, che dovrà collegare la costa dell’Angola alla città di Lumumbashi, nella Repubblica Democratica del Congo, passando per Kolwezi e poi da lì, fino in Zambia.

L’opera permetterebbe di dare una svolta ai flussi commerciali di tutta la regione, mettendo in rete le principali località minerarie dell’area.

Il Congo

E proprio seguendo il percorso di questa linea ferroviaria, il nostro racconto si sofferma adesso sul Congo. In realtà, ad avere questo nome sono due Stati differenti, ciascuno con la propria storia e separati geograficamente dal corso del fiume Congo, per l’appunto, da cui il nome di entrambi.

La piccola Repubblica del Congo, con capitale Brazzaville, fu una colonia francese. Praticamente confinante con Brazzaville è Kinshasa, la capitale della immensa Repubblica Democratica del Congo, fino al 1997 denominata Zaire, un tempo colonia belga.

Il primo è uno Stato povero, con scarsa livelli sanitari e di alfabetizzazione, in cui per la mobilità interna piuttosto che affidarsi ad una rete stradale si navigano i fiumi. Governata dallo stesso uomo, già al potere nel 1979, incentra la propria economia prevalentemente sulla lavorazione delle risorse derivanti del proprio patrimonio forestale, come legno e caucciù, oltre all’estrazione petrolifera, in cui l’Eni ricopre un ruolo di primo piano.

Per descrivere invece l’altro Congo, quel gigante grande otto volte l’Italia, con capitale Kinshasa, si potrebbe partire dalla visita ufficiale di Papa Francesco, ad inizio 2023 e dal suo appello rivolto direttamente «al Padre che è nei cieli», abbassando umilmente il capo per chiedergli «perdono per la violenza dell’uomo sull’uomo». Il Pontefice chiese alla platea di “disarmare i cuori”, in un Paese che vive una tragedia perpetua, in cui parlare di una guerra è limitativo, in quanto bisognerebbe piuttosto parlare di uno stato continuativo di conflitti, ininterrotto sin dalla indipendenza del 1960. Una indipendenza ai tempi salutata dall’eroe nazionale Patrice Lumumba con le parole trionfali “lacrime, fuoco e sangue”, sebbene ben presto, si rivelarono un fosco presagio del destino della Repubblica Democratica del Congo.

Qui, ormai in una logica in cui l’obbiettivo non è la vittoria sul nemico, quanto la prosecuzione del conflitto stesso, bande armate agli ordini di piccoli e grandi signorotti spadroneggiano voracemente, riproponendo le atrocità in passato inflitte dai padroni coloniali, dalla dittatura trentennale di Mobutu e dalla dinastia dei Kabila che l’ha succeduta, fino ai giorni nostri.

Dalle ceneri di una delle guerre più violente e mortifere che il mondo abbia mai conosciuto, consumatasi alle porte del nuovo millennio, con una capacità espansiva tale da renderla una guerra continentale che eccitò il protagonismo degli Stati confinanti, su tutti Ruanda ed Uganda, ne è uscito un Paese disgregato e lacerato, che rappresenta un fallimento vergognoso per tutta la comunità internazionale, la quale a coronamento della propria inconsistenza, il 19 dicembre 2023, ha deliberato la fine della missione di peacekeeping, nota come Monusco, attiva nel territorio da ventitré anni. Il suo sottosuolo custodisce una tale quantità e varietà di minerali preziosi da renderlo un banchetto già apparecchiato per gli appetiti di trafficanti, bande armate, Paesi vicini e lontani.

La competizione per le risorse minerarie alimenta una economia di guerra ramificata a livello globale, in cui diverse élite tendono a mobilitare i rispettivi gruppi etnici per ottenere il controllo dello Stato e impossessarsi delle rendite da esso controllate, così da provocare una incessante proliferazione di movimenti ribelli animati dall’obbiettivo di prendersi una fetta della torta. Le frequenti scissioni fra i vari gruppi armati provocano poi un effetto moltiplicatore delle milizie, in un meccanismo che incentiva l’emersione continua di nuove bande, guidate da piccoli leader che ambiscono a una carriera politica o militare, incoraggiati da una situazione in cui le istituzioni statali e il mondo delle milizie sono separati da porte girevoli in continuo movimento.

Queste logiche permeano anche le relazioni sociali a livello popolare, convincendo giovani e addirittura bambini ad arruolarsi nei gruppi armati privati, pur di sfuggire alla povertà, ma contribuendo soltanto ad allungare la spirale di violenza, saccheggio e stupri, a danno delle popolazioni locali.

In tali dinamiche, nel febbraio 2021, ha perso la vita l’ambasciatore italiano Luca Attanasio, vittima di un attentato nella provincia del Kivu, al confine con il Ruanda.

Corno d’Africa, dove vanno a caccia Cina e Russia – La Redazione

La drammaticità di questo scenario è amplificata dal fatto che la spropositata ricchezza mineraria della Repubblica Democratica del Congo non corrisponde ad altrettanti benefici per la popolazione locale, come invece accade per il già citato Botswana.

Il cobalto del mondo

Basti pensare che i tre quarti del cobalto mondiale, minerale essenziale per tutte le apparecchiature tecnologiche, provengono proprio da qui, rappresentando una quota più che doppia rispetto a quella che l’Opec detiene nella produzione di petrolio.

Alla drammaticità, si aggiunge l’ipocrisia di un mondo che rincorre la transizione energetica in nome di un ambientalismo dogmatico, da raggiungere attraverso la diffusione di totem ideologizzati come l’auto elettrica, la cui batteria, per essere assemblata ha bisogno di grandi quantità di litio e coltan, minerali di cui proprio questo Congo detiene un quasi monopolio. Minerali estratti con procedure altamente inquinanti e impattanti per gli ecosistemi circostanti, attraverso l’umiliazione dei minatori e sfruttamento minorile e ipertrofizzate da circuiti di corruzione e mazzette fra funzionari pubblici e faccendieri vari, disegnando una filiera che di sostenibile ha soltanto lo sdegno.

Cina e Russia in Congo

A godere di un ruolo egemone nel settore minerario del grande Congo è la Cina, attraverso la Sicomines che gestisce diciannove siti estrattivi con riserve stimate di almeno otto milioni di tonnellate. In cambio, Pechino, sin dall’accordo siglato nel 2008, si è impegnata nella costruzione di infrastrutture, finanzia progetti di sviluppo, fornisce armamenti e recentemente ha cancellato un debito di 27 milioni di dollari.

Molto più antichi sono i legami con la Russia, ben manifestati da quella che il Ministero della Pubblica istruzione del Cremlino classica come terza migliore Università dell’intera federazione, situata in un quartiere meridionale di Mosca e che si chiama “Università dell’Amicizia dei Popoli Patrice Lumumba”, in onore del leader congolese, protagonista dell’indipendenza del Paese e assassinato pochi mesi dopo.

L’abbraccio di Putin si fa sentire anche e soprattutto nel cuore dell’Africa, in quel Gabon che quest’estate ha visto la caduta del regime familistico dei Bongo, ininterrottamente al potere dal 1967 e che in sede Onu è stato uno dei quattro Paesi a non aver condannato, tramite la risoluzione dello scorso Ottobre, le annessioni illegittime delle regioni ucraine all’interno dei confini russi.

Qui foreste, boschi e aree naturali coprono la quasi totalità del territorio, rendendolo un ambiente bucolico, dove pure in realtà le ricchezze del sottosuolo abbondano.

Lo sa bene la Cina, la quale attraverso il consorzio Cmec gode da quasi vent’anni dei diritti esclusivi sulla miniera di ferro nella regione di Bélinga, da cui sempre ditte cinesi stanno facendo partire una linea ferroviaria di oltre cinquecento chilometri che collegherà il sito estrattivo al porto di Santa Clara sull’Oceano Atlantico.

Gli investimenti di Pechino nella ex-roccaforte dei Bongo hanno interessato anche una diga idroelettrica e moderni stadi e impianti sportivi, che hanno permesso al Gabon di ospitare le edizioni 2012 e 2017 della Coppa d’Africa, la massima competizione calcistica del continente per le rappresentative nazionali.

Quartier generale del potere di Putin in Africa è senza dubbio la Repubblica Centrafricana, dove utilizza la compagnia Wagner per attività ibride e per il lavoro sporco che l’esercito regolare non potrebbe compiere. Il contingente di mercenari russi controlla vaste zone del territorio, presidia caserme e aeroporti, funge da guardia del corpo del Presidente Touaderà, per il quale svolge anche vere e proprie operazioni militari contro i movimenti ribelli.

In Repubblica Centrafricana, i Wagner producono addirittura una birra, la Ti l’Or e per salvaguardare quote di mercato del proprio prodotto, hanno addirittura messo a fuoco uno stabilimento della concorrente francese Mocaf.

I mercenari svolgono soprattutto funzioni di sorveglianza sulle miniere d’oro presenti nel Paese, spesso prese di mira da gruppi di ribelli che sabotano le attività estrattive.

In un rimpallo di accuse,  i Wagner sono stati accusati proprio da uno di questi gruppi di eversivi di esser stati gli artefici di un agguato del 19 Marzo 2023, in una miniera d’oro, in cui hanno perso la vita nove cittadini cinesi, che gestivano proprio quel sito.

L’evento provocò grande sgomento ai piani alti di Pechino, sebbene la solidarietà delle popolazione locale fu immediatamente manifestata, attraverso cortei e striscioni eloquenti che esprimevano tutto l’affetto sia per la Cina, sia per la Wagner e per Putin.

Il mercato dell’oro centrafricano è saldamente nelle mani della donna d’affari cinese Zhao Baomei, con licenze esclusive sulla aree di Yaloké, Bambari e ai confini con il Camerun. Africa occidentale, è “contesa” – La Redazione

Una imprenditrice talmente influente e legata al potere locale, che un missionario straniero dopo aver denunciato alle istituzioni l’inquinamento provocato dalle sue aziende è finito in cella.

La leadership russa in Repubblica Centrafricana viene utilizzata da Putin per sviluppare relazioni con il vicino Ciad, nel Sahel, uno degli ultimi Stati africani non ancora avvicinata dal Cremlino, come testimonia un recente viaggio proprio in quel Paese, di una delegazione di diplomatici di Mosca guidata dal Ministro degli Esteri del Presidente Touaderà.  Sahel, si scalda il cuore d’Africa – La Redazione