In memoria del maresciallo Mancuso e del giudice Terranova

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In memoria del maresciallo Mancuso e del giudice Terranova

Il ricordo di Carmine Mancuso, figlio del Maresciallo di Polizia che fu ucciso insieme al giudice Terranova nel 1979 per mano di Cosa Nostra. “Una mattina di primavera del 1962, mentre stavo per andare a scuola, una signora vestita di nero in segno di lutto si avvicinò al portiere del palazzo per domandargli se lì vivesse Lenin Mancuso. Quella signora era Serafina Battaglia ovvero la prima donna testimone contro i delitti mafiosi’’. Da quell’anno Lenin Mancuso incontrò Terranova e non si separano più.

«Il potere politico sta dietro alla mafia, è il suo cervello. La politica si serve da sempre della mafia: questo è un aspetto centrale che non può essere ignorato». Carmine Mancuso, 75 anni palermitano figlio del Maresciallo della Polizia Lenin Mancuso ucciso insieme al Giudice Cesare Terranova il 25 settembre 1979 da Cosa Nostra, pronuncia queste parole con tono fermo e deciso. Le pronuncia con la consapevolezza di chi conosce nel dettaglio il sistema della criminalità organizzata e con la convinzione di chi sa che la lotta alla mafia è una battaglia che si affronta giornalmente con abnegazione, meticolosità e attenzione verso i dettagli. Quella stessa attenzione che non è mai mancata al padre Lenin assegnato alla scorta del giudice Terranova, con cui dettero vita a un sodalizio prima ancora che professionale umano. Un sodalizio dal valore profondo che la loro uccisione quella mattina di fine settembre di quarantaquattro anni fa, mentre si dirigevano con la Fiat 131 verso il tribunale di Palermo, per opera di un commando di cui facevano parte Leoluca Bagarella, Giuseppe Madonia, Giuseppe Giacomo Gambino e Vincenzo Puccio non ha scalfito nonostante la ferocia dei mezzi adoperati da Cosa Nostra, nonostante la raffica di colpi esplosi con un Winchester e svariate armi da fuoco. Una amicizia sincera e un impegno indefesso il loro che, nell’incertezza dei giorni nostri, è quanto mai prezioso ricordare per comprendere che la fine della criminalità organizzata non è utopia ma può diventare concretezza. Una concretezza che si costruisce lavorando sulle coscienze, facendo appello a quel senso di giustizia e umanità che nemmeno la più atroce delle barbarie potrà fare venire meno.

Mancuso suo padre Lenin era calabrese, nato a Rota Greca nel 1922: quando arrivò a Palermo?

«Mio padre arrivò a Palermo in un momento di grandissima rilevanza ovvero nella primavera del 1943 qualche mese prima dello sbarco alleato in Sicilia tra il 9 e il 10 luglio durante il secondo conflitto bellico. Precedentemente, ricopriva il ruolo di Questore a Spalato. Quello era un periodo davvero importante, in cui la mafia era assopita per poi tornare prepotentemente a fare sentire la sua presenza: erano gli anni del banditismo e, in particolare, a destare preoccupazione era il bandito Salvatore Giuliano che proprio nel 1943 cominciò la sua latitanza. Detto ciò, mio padre cominciò a lavorare alla Squadra Mobile e circa vent’anni dopo conobbe il giudice Terranova».

A quando risale il suo incontro con il giudice Cesare Terranova?

«Siamo agli inizi degli anni Sessanta, esattamente nel 1962. Il giudice Terranova era a Palermo già da quattro anni: infatti, lavorava all’Ufficio Istruzione dal 1958. Detto ciò, si incontrarono nel 1962 grazie a un avvenimento significativo che portò Terranova a chiedere alla Questura di assegnare mio padre al suo ufficio».

A quale avvenimento fa riferimento?

«Una mattina di primavera del 1962, mentre stavo per andare a scuola, una signora vestita di nero in segno di lutto si avvicinò al portiere del palazzo per domandargli se lì vivesse Lenin Mancuso. Quella signora altro non era che Serafina Battaglia ovvero la prima donna testimone contro i delitti mafiosi. Serafina, soprannominata la ‘’vedova della lupara’’, perse a causa di Cosa Nostra prima il marito Stefano Leale e poi il figlio Salvatore detto anche ‘’Totuccio’’».

Una morte quella del figlio che si rivelò decisiva.

«Esattamente. Serafina era profondamente legata a Totuccio e quando venne ucciso uscì letteralmente fuori di testa. Se riuscì, con enorme fatica, a passare sopra la morte del consorte così non fece quando venne eliminato suo figlio. Fu l’evento che le permise di rompere definitivamente il muro dell’omertà; Serafina parlò con mio padre e gli disse esplicitamente di voler collaborare con la giustizia essendo a conoscenza approfonditamente di tutto ciò che riguardava Cosa Nostra. Di questo incontro tra mio padre e Serafina fu informato Terranova che poco dopo la interrogò. Da quel momento in poi, cominciò il sodalizio professionale e umano tra Terranova e mio padre: il loro fu un lavoro incredibile che portò ai primi grandi processi di mafia come ad esempio il ‘’processo dei 117’’ che si svolse a Catanzaro nel 1968, successivamente fu la volta del processo di Bari nel giugno dell’anno seguente. Furono due processi importantissimi ma che, purtroppo, si conclusero con un nulla di fatto dato che gli imputati vennero assolti. Questo è un vero peccato, perché quello era un momento in cui Cosa Nostra poteva essere sconfitta».

Cosa mancò affinché ciò avvenisse?

«Prima di tutto la volontà politica di andare fino in fondo. La politica ha sempre avuto legami e contatti con la mafia che andando avanti nel tempo si sono fatti più stretti. Inoltre, all’epoca, i giudici nei confronti della mafia potevano applicare solo l’articolo 416 del Codice Penale che prevede il reato di associazione a delinquere. Solo nel 1982, dopo la morte del prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa, ci fu l’approvazione della Legge Rognoni-La Torre che istituì l’articolo 416 bis con cui è stata definita l’associazione di stampo mafioso».

A proposito di legami tra mafia e politica, suo padre e il giudice Terranova furono fermi sostenitori di questa vicinanza tra potere politico e potere criminale, in un momento in cui si faceva fatica a riconoscere il fenomeno mafioso.

«Esattamente, basti pensare alla ‘’relazione di minoranza’’ del 1976 a cui contribuì fortemente Terranova che all’epoca faceva parte della Commissione parlamentare antimafia. In quella relazione si facevano presenti i legami tra mafia e politica, con riferimenti espliciti ai democristiani Giovanni GioiaVito Ciancimino Salvo Lima».

Suo padre e Terranova morirono nel 1979, considerato unanimamente l’annus horribilis nella lotta alla mafia, in cui perirono anche il cronista del Giornale di Sicilia Mario Francese, il segretario provinciale di Palermo della Democrazia Cristiana Michele Reina e, il 21 luglio ovvero due mesi prima dell’assassinio di Lenin Mancuso e del giudice Terranova, il capo della Squadra Mobile Boris Giuliano.

«Sì, indubbiamente il 1979 fu un anno in cui Cosa Nostra agì con una brutalità e con una frequenza incredibili ma è bene precisare che i mafiosi cominciarono molto prima a compiere atti di estrema violenza. In pochissimi fanno, ad esempio, riferimento alla Strage di Ciaculli del 1963 in cui persero la vita personalità di grandissimo intuito investigativo come il maresciallo Silvio Corrao e il tenente dei Carabinieri Mario Malausa: questo è un evento che non può assolutamente passare in secondo piano, dato che segnò uno spartiacque fondamentale e fu il culmine di quella che è passata alla storia come la Prima guerra di mafia. Molto spesso, mi accorgo che quando si affronta la tematica mafiosa manca una visione d’insieme globale e questo non è un bene».

Una visione d’insieme, ad esempio, che permetterebbe di comprendere meglio proprio gli omicidi compiuti nel 1979.

«Esattamente. Le uccisioni di Mario Francese, Boris Giuliano e di mio padre insieme a Terranova non vanno analizzate singolarmente ma devono essere prese in esame come se fossero un tutt’uno perché così è la realtà. Sono morti collegate tra di loro, Cosa Nostra sapeva di doverli eliminare perché i singoli operati di ciascuno di loro andavano ad amalgamarsi alla perfezione e questo rappresentava un serio rischio per la sopravvivenza di Cosa Nostra».

Cosa legava suo padre e Cesare Terranova?

«Una empatia immensa, l’amore per la legalità e, soprattutto, il desiderio e la volontà di dimostrare alla criminalità organizzata che lo Stato non aveva alcuna intenzione di piegarsi alla ferocia di cui si servivano i suoi rappresentanti».

Suo padre le ha mai dato l’impressione di essere preoccupato per quello che si stava verificando in quegli anni?

«Mio padre e il giudice Terranova sapevano che il loro destino era scritto. Ne avevano la piena consapevolezza e nonostante ciò hanno proseguito sino all’ultimo dei loro giorni con il massimo impegno nella lotta alla mafia».

Qual è l’insegnamento più prezioso che le ha trasmesso suo padre?

«Il senso del dovere. Mio padre non si è mai risparmiato, lavorando tutti i giorni con una passione e una tenacia uniche. Questa è la lezione più preziosa che mi ha trasmesso, oltre all’amore per la nostra famiglia. Il suo è ancora oggi un esempio fondamentale per il sottoscritto, un punto di riferimento di cui faccio tesoro ogni giorno».