Continua il nostro viaggio all’interno delle basi americane in Italia, per tracciare un profilo più intimo dei militari e delle loro famiglie

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Continua il nostro viaggio all’interno delle basi americane in Italia, per tracciare un profilo più intimo dei militari e delle loro famiglie

di Dania Ceragioli

Siamo penetrati all’interno di due istallazioni situate a Vicenza, la Caserma Carlo Ederle e Camp Del Din che complessivamente contano al loro interno una popolazione pari a 16000 unità fra militari e civili. La prima costruita fra il 1942 e il 1943 risulta essere la sede più datata, mentre la seconda di più recente costruzione, è stata inaugurata nel luglio 2013. Le due caserme costituiscono la doppia sede di una guarnigione di diverse unità USA operanti in Europa. Vicenza Military Community accorpata al Darby Military Community situata fra Pisa e Livorno, costituisce lo United States Army Garrison (USAG) Italy.

La Caserma Ederle ha un’estensione di 600 mila mq e prende il suo nome dal militare, pluridecorato durante la prima guerra mondiale, Carlo Ederle caduto in combattimento nel 1917. Già sede dell’Esercito Italiano, nel 1965 vi ha visto trasferire il quartier generale della Southern European Task Force USA. Oltre agli alloggi, agli uffici, ai negozi, al supermarket, alle scuole (fino alle secondarie di primo grado), alla cappella, al suo interno anche una sala bowling e una stazione radiofonica.

Camp Del Din deve il suo nome a Renato Del Din, nome di battaglia Anselmo, che è stato un militare e partigiano italiano, insignito di una medaglia d’oro al valor militare. La base composta da 28 edifici, si estende su 58 ettari di terreno. Sorta nell’area dell’ex aeroporto Dal Molin, è una fra le più verdi d’Europa, ed è riuscita a ottenere la certificazione d’eccellenza per l’efficienza energetica e l’impronta ecologica degli edifici. Dal 2000 al suo interno hanno la loro sede la 173rd Airborne Brigade Combat Team e lo United States Army Africa

Abbiamo intervistato il Tenente Colonnello Leslie A. Shipp, ufficiale esecutiva addetta al Comando
U.S. Army Garrison Italy

Non appartenere a nessun luogo e allo stesso tempo far parte di un sistema può destabilizzare?

Anche se non si è nati nel luogo di destinazione, nelle basi ci viene riservata sempre una grande accoglienza, questo ti permette di sentirti a casa, si acquisisce la consapevolezza di far parte tutti di una stessa grande famiglia.

Rispetto ad altre installazioni in cui ha prestato la sua attività pregi e difetti se ve ne sono di questa in particolare?

Qua in Italia devo fare sicuramente più attività fisica poiché i carboidrati e il vino giocano un ruolo essenziale nella vita quotidiana, portandomi a ingrassare. Scherzi a parte, vivere in questa base ci consente di poter assorbire meglio gli aspetti culturali del paese, di essere vicini ai siti storici che possiamo condividere con i nostri figli. Avete così tanti luoghi iconici, i nostri ragazzi sono così increduli quando li riconoscono sui libri. Sarò sempre grata all’esercito americano per questa esperienza.

Stiamo vivendo in un contesto storico davvero complicato: prima la pandemia, poi la guerra alle porte dellEuropa. Come state affrontando con le vostre famiglie questo momento?

Siamo arrivati a Vicenza nel luglio 2019 poco prima della pandemia e vivendo in Veneto abbiamo vissuto nel “ground zero” del covid, essendo stato riconosciuto prima che altrove. Mio marito ha avuto subito la possibilità di rimanere a casa con i nostri tre figli, che hanno età ricomprese fra gli otto e i quindici anni, tutti nel percorso di didattica a distanza. Siamo entrati immediatamente in questa ottica di protezione che prevedeva distanziamenti, mascherine e isolamento. A ottobre mi sono recata in America per un corso e ho potuto constatare che le misure contro il virus non erano altrettanto restrittive. Mi sono sentita fortunata per avere vissuto il lockdown in Italia, dove siamo stati sicuramente più protetti. Per quanto sta accadendo alle porte dell’Europa, sento di aver già vissuto con la mia famiglia questa situazione. Dal 2017 al 2019 mi trovavo in Corea del Sud quando la situazione era piuttosto tesa e il pericolo di una escalation era reale. Facendo parte di questa organizzazione non mi sono mai sentita in pericolo pur avendo la guerra alle porte di casa. Ad agosto ci trasferiremo in Germania e facendo parte dell’Alleanza mi sento altrettanto tranquilla, ci riteniamo integrati e sereni nel poter proseguire la missione. I soldati sono mentalmente preparati, addestrati ad affrontare queste situazioni. Anche mio marito è un militare e la possibilità che entrambi possiamo essere destinati in Lituania e Lettonia è concreta. Abbiamo una struttura militare capace di gestire queste situazioni, anche di occuparsi dei nostri ragazzi, che potrebbero essere presi in carico da una figura surrogata, un tutore, nel caso di una nostra contemporanea assenza.

Si parla molto di stress post traumatico legato a teatri di guerra, come viene gestito, quali aiuti a voi e alle vostre famiglie vengono forniti?

Ho vissuto da vicino questo disturbo, anche a mio marito è stata diagnosticata la sindrome di PTSD. Ha svolto cinque missioni in sei anni, trovandosi in scenari di guerra quali Afghanistan e Iraq. Proprio in Iraq durante un’operazione di guardia è avvenuta una sparatoria che lo ha coinvolto. Psicologicamente provato per l’accaduto, è stato immediatamente prelevato e trasferito in Germania, fino a quando l’evento non è stato risolto per poi essere reinserito nella missione. Abbiamo quindi avuto modo di sperimentare le risorse messe a disposizione per superare questi traumi, fra cui il supporto psicologico. le terapie farmacologiche, le tecniche di rilassamento come meditazione e yoga, utili a gestire i ritmi respiratori, gli incubi notturni, necessarie anche a ristabilire la consapevolezza che quello avvenuto era ormai un momento lontano. A distanza di dieci anni da quell’episodio segue ancora la terapia una volta al mese, ma fortunatamente adesso sta bene.

Il ruolo del militare secondo lei è cambiato con il trascorrere del tempo?

Il ruolo di difensori e portatori della pace non è cambiato. Io rappresento la quinta generazione di militari nella mia famiglia da parte di padre ad aver intrapreso questa carriera. Neppure ho voluto convertire il mio cognome con quello di mio marito per portare avanti questa tradizione, come diciamo noi in America, questo è “un affare di famiglia”. Sono l’unica donna e quella che al momento ha raggiunto il grado più alto. I miei fratelli, pur avendo servito la patria per quattro anni, hanno deciso di dedicarsi ad altro, ma questo gli conferisce comunque un grande senso di rispetto. Anche mio marito è un militare di terza generazione, si tende spesso a proseguire la carriera dei nostri genitori.

Secondo lei questa scelta può quindi essere in qualche modo condizionata?

La mia è stata una scelta consapevole, nessuno mi ha obbligata e non avrei niente in contrario se i miei figli decidessero di fare questa carriera seguendo le mie orme, anche solo per quattro anni, mi gratificherebbe vedere che si sono comunque messi a disposizione del loro paese. Vorrei trasmettergli quell’orgoglio e quei valori che ho visto in tanti ragazzini coreani impegnati nel servizio militare reso loro obbligatorio per tre anni.

Ma non si ha mai paura?

Certo, ricordo ancora in Iraq quando mi trovavo a fare i pattugliamenti in strada di notte, che a prescindere dal luogo, un’attività del genere presenta ovunque delle criticità. Ebbene sì ho avuto paura.

Soprattutto in questi ultimi anni, dal cinema alla televisione, basti pensare anche alla serie di Guadagnino girata qui a Vicenza We are who we are” c’è stato molto interesse per la vita militare americana. Ha contribuito ad avvicinare la gente comune alla vostra realtà? Possono essere considerati autorevoli?

Non ho un’opinione contraria al riguardo, visti da fuori questi film possono sembrare molto credibili, divenendo talvolta fonte di reclutamento, possono contribuire ad aiutare la Nazione, soprattutto se riescono a trasmettere valori molto forti.

Quali sono secondo lei gli aspetti più interessanti di questa carriera?

Dalla citta di Cincinnati in Ohio ho avuto l’opportunità di spostarmi, di essere assegnata a basi e missioni sparse ovunque, dal Texas, alla Virginia, all’Iraq, all’Afganistan, alla Corea del Sud, all’Italia. Ho vissuto situazioni inimmaginabili, avendo la possibilità di conoscere luoghi, culture e persone diverse, questo è un valore aggiunto che non avrei potuto sperimentare altrove.

Il ritiro delle truppe americane dallAfghanistan è stato molto criticato dallopinione pubblica, vista da dentro qualche impressione al riguardo può fornircela?

Il comandante in capo ha fatto quello che era giusto fare. 

Ho letto che anche dalle vostre basi, in relazione alla guerra in Ucraina sono partiti militari da destinare alle forze Nato in supporto della difesa delle frontiere. Come si affrontano queste missioni?

I soldati impiegati a rafforzare le capacità difensive dell’Alleanza Nato sono stati inviati in Lettonia e appartengono alla 173a Brigata aviotrasportata USAF di stanza alla caserma del Del Din. Le missioni si affrontano con la preparazione. Per quanto mi riguarda io sono un ufficiale esecutivo, una delle poche donne che è riuscita a superare il corso di abilità al comando e sono in attesa dell’assegnazione, che avverrà nell’estate del 2023, di un battaglione.  Andrò a ricoprire un ruolo operativo e avrò il supporto dell’esercito che ha tanto investito su di me. Mio marito è quello che al momento ha avuto la priorità di scelta e io lo seguirò fino a quando sarò io a dover scegliere. Potrei ritrovarmi geograficamente separata da lui, lontana dall’intera famiglia, ma quando questo capiterà, ci saranno le condizioni per poter partire in tranquillità e sicurezza.