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Birmania. La pace, desiderio di tutti

di Maurizio Benedettini

Qualche cenno di storia

Una storia di migranti, re, imperi, guerre, colonialismo e colpi di Stato.

Il primo popolo che si insediò in questa zona attorno al 3.000 a.C. fu quello dei Mon provenienti dalla Cina, a cui seguirono altri gruppi etnici come i Thai, gli Shan e i Bamar, che oggi è predominante. Con l’incremento demografico nasceva l’esigenza di spostarsi in cerca di nuove terre, nuove risorse, nuove opportunità. Si insediarono così nel tempo in questo bellissimo e ricchissimo territorio diverse etnie nomadi che avevano in realtà ben poco in comune.

Più volte smembrata e riunificata, la Birmania è sempre stata una sorta di cerniera tra Cina e India, una società multi etnica e multi religiosa.

I portoghesi furono i primi colonizzatori europei. In seguito gli inglesi, protagonisti di tre differenti conflitti, ne fecero una provincia dell’India, dalla quale la Birmania si separò nel 1937.

Da allora, in diverse forme, i militari sono sempre stati protagonisti del potere politico.

Un Paese popolato da persone pacifiche che non conosce la pace.

Avvenimenti recenti

Il governo militare cambiò il nome del Paese da Birmania in Myanmar nel 1989, l’anno della caduta del muro di Berlino. Con mia grande sorpresa nel marzo del 2020 in occasione del mio ultimo viaggio, ho potuto constatare che è tornato orgogliosamente d’uso comune il nome Birmania, proibito fino a qualche tempo fa.

La giunta per assicurarsi la fedeltà dei militari li paga pochissimo, dà loro e ai famigliari un appartamento all’interno di una caserma e i basilari mezzi di sostentamento. Questa forma di ricatto scongiura anche la minima forma di disobbedienza.

Il primo febbraio del 2021 l’esercito del Myanmar ha annunciato di prendere il potere a seguito di sospetti brogli elettorali. In poche ore i principali esponenti del Partito vincitore delle elezioni, compresa Aung San Suu Kyi, sono stati arrestati. E’ molto probabile che la Cina abbia in qualche modo preventivamente accondisceso a tutto questo. I militari però non si aspettavano da parte del popolo un’opposizione così forte, soprattutto da parte delle organizzazioni etniche armate: Chin, Kayah, Kachin, Karen e Shan contano approssimativamente più di 80.000 uomini. Eserciti “privati” nati anche per proteggere la produzione e il traffico internazionale di stupefacenti come accade in Colombia e Messico.

L’esercito regolare è fra i meglio equipaggiati in Asia e può contare su circa 180.000 effettivi, ovvero con reali capacità di combattimento. Una lotta apparentemente impari.

Una ONG con sede in Thailandia ritiene che ad oggi i morti causati dall’ultimo colpo di Stato siano ormai quasi 1.500, i prigionieri politici oltre 12.000 e 406.000 gli sfollati.

Le manifestazioni di piazza e la disobbedienza civile hanno quasi paralizzato il Paese e il protrarsi della guerra civile ha complicato ancora di più la posizione di Aung San Suu Kyi. Condannata a sei anni per detenzione illegale di radio ricetrasmittenti e per violazione delle leggi sul COVID, deve essere ancora giudicata per altri reati come corruzione e abuso d’ufficio, frodi elettorali e divulgazione di segreti di Stato che se confermati allungherebbero la detenzione di altri 14 anni. Rinchiusa in un carcere di massima sicurezza con la chiara intenzione dei militari di renderla invisibile. The Lady è un simbolo troppo pericoloso.

Le reti cellulare, Internet e di conseguenza i Social sono stati resi inaccessibili per mesi.

Il colpo di Stato e la pandemia hanno avuto un effetto catastrofico sull’economia. Milioni di persone hanno perso il lavoro, i prezzi dei prodotti di prima necessità sono aumentati a dismisura, la valuta nazionale è crollata. I servizi pubblici, che già non brillavano per efficienza, sono quasi inesistenti. In particolare medici e insegnanti che sono in prima linea nel movimento di disobbedienza civile, continuano a rifiutarsi di lavorare sotto la giunta militare. Anche gli impiegati delle banche operano questa forma di protesta, rallentando e boicottando le transazioni, compresi i pagamenti degli stipendi dei militari.

La promessa della giunta di tornare presto a elezioni democratiche potrebbe forse avverarsi, ma pare che su consiglio della Cina i militari prima renderanno illegale il partito che aveva stravinto le ultime elezioni. Tutto cambia perché nulla cambi.

Sul fronte internazionale il Myanmar, che a noi piace chiamare Birmania, è sempre meno oggetto di attenzione.

Un’altra partita complicata anche per la Cina che è interessata alla stabilità della Regione, ma non prende posizione e sembra non avere alcuna possibilità di risolvere la situazione.

Il mio caro amico N. è fuggito mesi fa dalla sua casa a Yangon per paura di essere arrestato. Qualche giorno fa finalmente mi ha scritto: “Sto bene, in Birmania è tutto rovesciato, ci sono ovunque tanti combattimenti, in particolare nelle zone tribali di Loikaw e Mindat. Non sappiamo cosa ci riserva il futuro, ma abbiamo la speranza. Siamo tutti diventati soldati per la libertà e la democrazia. Grazie di tutto”. Quel grazie di tutto mi ha spezzato il cuore.