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Hikikomori, che cos’è

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Ne abbiamo parlato con il Presidente dell’associazione italiana

Vivono immersi nel presente concentrandosi solo sulla giornata scandita da necessità essenziali. La loro vita è circoscritta al perimetro della loro camera e i loro computer sono l’unico faro acceso sul mondo. Sono gli Hikikomori, una definizione che arriva dal Giappone dove questa realtà ormai consolidata si è spostata anche nel nostro Paese. Letteralmente il suo significato è “stare in disparte”: sono i ragazzi che si isolano volontariamente, che tagliano fuori la realtà che li circonda. In Italia il fenomeno sta velocemente raggiungendo cifre vertiginose, seppure sottostimate. Dalla Relazione annuale al Parlamento sulle tossicodipendenze redatta dal Dipartimento per le politiche antidroga della Presidenza del Consiglio dei ministri, si evince che circa un quinto degli intervistati ha affermato di essersi isolato per un significativo periodo di tempo. Lo studio eseguito da Espad rende disponibili per la prima volta dati che forniscono una stima sul ritiro sociale. A essere interessati da questa sindrome i giovani con età compresa fra i 14 e i 30 anni, al 90% di genere maschile che avvertono un disagio adattivo sociale, dovuto alle pressioni generate dalla società in cui vivono e dove fanno fatica a incastrarsi.

Ne abbiamo parlato con

Marco Crepaldi, specializzato in psicologia sociale e comunicazione digitale fondatore dell’associazione nazionale “Hikikomori Italia” (https://www.hikikomoriitalia.it/), di cui ne è il presidente, da anni si occupa di sensibilizzazione, supporto e formazione sul tema.

In una delle sue conferenze ha dichiarato che Hikikomori è un effetto collaterale del capitalismo che cosa intendeva dire?

È ovvio che il capitalismo ha tanti aspetti positivi e negativi. Uno degli aspetti più rilevanti è quello di andare sicuramente a stimolare la competizione sfrenata per l’ottenimento delle risorse, come il raggiungimento della ricchezza, che poi si declina in altre sfaccettature tese a sfruttare al meglio questa competizione. Al tempo stesso però questa rappresenta lo schiacciamento dei più deboli, quelli che non hanno caratteristiche di competitività e in generale di estroversione, di forza sociale, che non riescono a aderire a un modello vincente. Questa mancata adesione provoca in taluni soggetti una grande sofferenza psicologica portandoli a nascondersi e a scappare dalla società e dal giudizio degli altri, in poche parole traducendosi in Hikikomori. Possiamo quindi definire tutto ciò un effetto di un certo tipo di capitalismo, un capitalismo che non tiene conto di vari fattori dell’essere umano. Non si capisce ancora perché continuiamo a calcolare il benessere di uno stato con il pil, un valore questo che ci indica quanto uno stato è sicuramente ricco, ma non quanto sia felice. L’unico criterio che potrebbe interessare per capire se stiamo andando nella direzione giusta non è il pil, ma il grado di felicità della popolazione. Non credo che oggi si abbia un grado di felicità in qualche modo legato o parallelo alla crescita e questo lo possiamo sicuramente constatare in paesi come il Giappone, dove si trova il più alto numero di Hikikomori, di suicidi e di isolamento sociale. Focalizzarci essenzialmente sul benessere, sullo sviluppo tecnologico, che è l’obiettivo di oggi del capitalismo, non è la strada giusta se una società vuole diventare più felice. L’idea che l’uomo si possa salvare con i soldi, che la felicità sia legata a quanto possa realizzare è falsa e gli Hikikomori ce lo dimostrano.

Secondo lei quali sono se ve ne sono gli elementi che contribuiscono a far divenire un giovane Hikikomori?  

Non può esserci una sola risposta, possiamo partire da un presupposto, gli elementi personali, che sono la ipersensibilità, l’iper moralità, la diversità in generale dagli altri, questo è la grande caratteristica degli Hikikomori. È un disturbo adattivo, si fa fatica a conformarsi alla società perché si è diversi da quello che in una determinata collettività viene considerato il modello più vincente. Quindi per tanti motivi fisici, psicologici e caratteriali non riuscendo a aderire perché si è timidi, introversi, oppure molto intelligenti, ma con una scarsa capacità a relazionarsi, si entra in conflitto. Lottare per cercare di migliorarsi, di assestarsi, magari avvicinandosi al modello, oppure scappare e chiudersi in casa? Il sistema socio-economico attuale lo consente, decidere quindi se lottare o subire diviene una scelta.

Qualche anno fa forse non avremmo parlato di tutto questo con significativo allarme ma più semplicemente di ragazzi asociali, o di eremiti, c’è qualche differenza?

Dipende tutto dai numeri, se vediamo che in Giappone ci sono più di un milione di isolati e in Italia stanno crescendo a dismisura, in associazione continuiamo a ricevere richieste ogni giorno, vuol dire che c’è un problema. Non è un caso isolato una psicopatia che nasce esente dal contesto, ma è un tema psicosociale di massa, che deve essere preso in considerazione, anche perché fra qualche anno ci troveremo giovani inattivi che non produrranno. Gli Hikikomori comunque non sono asociali, gli asociali non hanno voglia di vivere la relazione, gli Hikikomori non riescono perché hanno paura del giudizio, i momenti in cui vengono posti in contesti in cui non c’è giudizio, come una chat composta da altri ragazzi isolati come loro, parlano a ripetizione, a testimonianza del fatto che la socialità è una cosa che vogliono ma non riescono a ottenere e in modo positivo. Eremiti ancora meno, l’eremita si isola da tutto e da tutti, gli Hikikomori restano connessi alla società tramite internet, si isolano dal punto di vista fisico senza mai abbandonare i benefit terreni.

La fascia di età maggiormente interessata da questo fenomeno riguarda i ragazzi (principalmente di genere maschile) fra i 14 e i 30 anni. Secondo lei perché è più facile che questo disagio colpisca proprio in questa fetta di popolazione?

Perché l’adolescenza è molto instabile dal punto di vista emotivo, le pressioni sulla realizzazione futura sono più forti, manca l’empatia tra i giovani che si sviluppa più tardi, un modello vincente che è ancora più esasperato, più netto, più pressante in questa età. Possono inoltre venire fuori anche tutte le mancanze educative che ci sono state in famiglia. La connessione fra debolezza genetica legata alla socialità, e l’educazione molto protettiva è tipica della famiglia Hikikomori, come pure l’incapacità di non riuscire a affrontare i problemi, di risolverli, lasciando che spesso siano i genitori a sostituirsi al posto loro impedendogli di diventare adulti indipendenti. Si crea uno stop del processo evolutivo psicologico di transizione dall’infanzia all’adolescenza e viene lasciato spazio a questa sorta di eterna giovinezza. Si crea quindi un rapporto ambivalente con il genitore, da una parte se ne è dipendenti sempre, sia economicamente che dal punto di vista pratico e, dall’altra, lo si respinge e si crea un rapporto conflittuale. L’Hikikomori si compone di due parti; la prima istintiva, identificata dalla sofferenza a stare con gli altri, al mancato adattamento al contesto a essere apprezzati, stimati. Nella seconda si rafforza la preferenza a rimanere da soli, anche se spesso le pulsioni all’isolamento vengono forzate, ci si convince che la società non sia un posto adatto in cui stare e che sostanzialmente deve essere rifiutata. Nell’infanzia è un istinto puro, nell’adolescenza diventa un pensiero concreto perché porta l’Hikikomori a rigettare anche qualsiasi forma di aiuto.

Come è nata l’idea di un’associazione peraltro unica in Italia?

Nasce da un sito Hikikomori.it che ho aperto in seguito alla mia tesi di laurea sul fenomeno perché volevo parlarne, perché mi sembrava interessante. Questo sito aiuta a divulgare ciò che ho compreso e sviluppato negli anni. Attorno a tutto questo si è creata inoltre una comunità di persone, soprattutto genitori che hanno spinto verso l’idea di un’associazione, costituita anche a livello giuridico aprendo anche a un’altra associazione di psicologi che ha appunto l’obiettivo da una parte di sensibilizzare e dall’altra di formare, di aiutare sia le famiglie che i ragazzi che si trovano in questa condizione.

I numeri danno l’Hikikomori in forte espansione, come può essere arginato, ci sono strumenti utili per contrastarlo?

Prevenzione, formazione, divulgazione del problema, preparazione degli operatori sanitari nelle scuole, dei genitori, far capire loro come rapportarsi con questi ragazzi a livello microsociale provando a cambiare le dinamiche di relazione, intervenendo anche sull’uso errato dei social.

Spesso questi ragazzi affrontano isolamenti molto lunghi addirittura di anni, è presumibile un recupero completo delle interazioni sociali?

Questa è una nota dolente l’Hikikomori più è isolato più tende a peggiorare la sua situazione per l’ansia del tempo perso, per la perdita di competenze sociali, per la perdita dei contatti con la scuola, con il mondo del lavoro. Più il problema tende a cronicizzarsi, più è difficilmente recuperabile rispetto ai primissimi momenti di isolamento. I genitori purtroppo non sanno come comportarsi e si scoraggiano facilmente, anche in associazione arrivano casi molto gravi e non è facile ritornare a un pieno recupero sociale, bisogna accontentarsi di un miglioramento.

Quanto le famiglie hanno un peso in questo processo di auto-isolamento?

Dipende, può essere molto grande o molto piccolo. Lo stile educativo pressante da una parte che idealizza il figlio perché è bravo, dall’altro lo carica di grandi aspettative  e dall’altra ancora diventa molto protettiva, cerca di sostituirsi alle sue decisioni, cerca di farsi carico delle sue problematiche, comporta che ci sia una responsabilità genitoriale. Anche se ovviamente ci sono responsabilità individuali e macrosociali, non si può ridurre tutto alla famiglia, ci sono dei casi dove la famiglia è particolarmente disfunzionale e dove invece funziona bene.

Vivere senza aspettative, senza un futuro, soltanto nel presente, a lungo termine quali danni psicologici può procurare?

Sicuramente con un’inerzia nella vita che viene scandita solo da esigenze primarie non c’è alcuna progettualità e, nel momento in cui ci si rende conto di questo, si sta male, con un aumento del rischio depressivo fobico sociale, un aumento del rischio dissociativo, per cui si può perdere anche il contatto con la realtà.

Quale messaggio sente di poter lasciare a un giovane ma anche a quelle famiglie che vivono tale condizione?

Che non dobbiamo sottovalutare il problema, c’è da capire se è una difficoltà che tenderà a risolversi con il tempo o che richiederà aiuto, necessitando di un sistema multidisciplinare atto a intervenire sulle cause.