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Nessuna trattativa Stato-mafia


Fine di quell’inchiesta trentennale costruita “nel nome di Falcone e Borsellino” anche se, molto probabilmente, proprio Falcone e Borsellino non avrebbero mai costruito. Assolti in via definitiva gli ex ufficiali del Ros dei Carabinieri, Mori, Subranni e Di Donno.

Nessuna trattativa Stato-Mafia, nessun nuovo processo.

Fine di quell’inchiesta trentennale costruita “nel nome di Falcone e Borsellino” anche se, molto probabilmente proprio Falcone e Borsellino non avrebbero mai costruito.

In tanti esponenti della magistratura, del giornalismo e della cultura hanno fatto carriera sulla presunta trattativa. Almeno questa volta, non saranno loro a scrivere la storia.

A distanza di tre decenni, due interi Governi e due ex Presidenti della Repubblica, Scalfaro e Napolitano, escono riabilitati, ma non risarciti.

È un verdetto importante quello emesso il 28 aprile dalla Cassazione perché, oltre a confermare la sentenza dei giudici di secondo grado, ha anche modificato le formule di assoluzione, che permettono agli imputati di uscire dal processo senza ombre, al culmine di un iter giudiziario di quindici anni.

Annullate le condanne di Bagarella e Cinnà

La Corte Suprema ha inoltre annullato, senza rinvio, le uniche condanne emesse dalla Corte d’Appello di Palermo, quelle ai mafiosi Leoluca Bagarella e Antonino Cinnà per intervenuta prescrizione. Si conferma l’assoluzione per non aver commesso il fatto per Marcello dell’Utri, proprio come aveva chiesto anche il Procuratore Generale.

Assolti gli ex ufficiali del Ros, Mori, Subranni e Di Donno

Assolti in via definitiva gli ex ufficiali del Ros dei Carabinieri Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe Di Donno.

È Giorgio Fidelbo, che presiede la sesta sezione penale della Cassazione, lo stesso, che nell’ottobre del 2019 aveva salvato la città di Roma dall’ignominia di esser conosciuta nel mondo come capitale della mafia, cancellando il reato di 416 bis agli imputati del processo “Mondo di mezzo” Salvatore Buzzi e Massimo Carminati.

‹‹Il mio mestiere lo conosco, se avessi sbagliato me ne sarai accorto. Non ho mai avuto dubbi, né per me né per gli altri›› ha commentato a caldo il Generale Mori, presente in aula. Nei confronti dei tre ufficiali dell’Arma la Procura Generale aveva chiesto un appello-bis. Nel Settembre 2021 la Corte d’Assise d’Appello di Palermo ribaltando la decisione del primo grado li aveva già assolti perché il fatto non costituisce reato.

I giudici della sesta sezione penale della Corte di Cassazione hanno ulteriormente modificato la formula: assolti per non aver commesso il fatto.

Per quanto riguarda i boss Leoluca Bagarella e Antonino Cinnà, medico di Totò Riina e Bernardo Provenzano, la Cassazione ha riqualificato il reato per i quali erano stati condannati rispettivamente a 27 e 12 anni di carcere, da violenza e minaccia al corpo politico dello Stato, a tentata violenza, che prevede una pena più lieve di conseguenza prescritta.

Non è dimostrabile che Cosa Nostra esercitò pressioni sull’allora Ministro della Giustizia

Nello specifico per i giudici della Corte Suprema, non è dimostrabile che Cosa Nostra esercitò pressioni sull’allora Ministro della Giustizia Giovanni Conso, per alleggerire il regime di carcere duro ai mafiosi, in cambio dell’interruzione delle stragi, dopo gli attentati di Roma, Firenze e Milano del ’93.

Quello del Ministro, si trattò di un atto burocratico che cercava di  mettere ordine negli istituti di pena italiani, dopo che, nell’estate del 1993, una retata massiccia aveva riempito le carceri speciali di Pianosa e Asinara di detenuti di ogni tipo, considerati come mafiosi anche quando non lo erano.

Il Ministro Conso fu sollecitato da diversi giudici di sorveglianza e cappellani delle carceri a esaminare meglio ogni singolo caso. Nello stesso periodo vi fu anche una importante sentenza della Corte costituzionale che andava applicata.

Non stupisce allora come in trenta anni di inchiesta, i giudici non siano riusciti a cogliere una precisa ricostruzione delle presunte minacce della mafia al Governo di allora, con quali esatte modalità o solo congetture.

La Cassazione ha posto la parola fine. Ma non del tutto, nel sottobosco della nostra cultura, come scrive Giandomenico Caiazzo, Presidente dell’Unione Camere Penali Italiane, in una lettera, pubblicata su Il Riformista, talmente densa di contenuti che intendiamo riportare integralmente: “Nessuno si faccia illusioni. Nemmeno la Corte di Cassazione, in una delle sue composizioni notoriamente più autorevoli ed indiscusse, basterà a scrivere la parola fine in coda a questo b-movie giudiziario detto della “trattativa Stato-Mafia”. Un filmaccio di quart’ordine, costruito intorno ad un reato esistente solo nella mente dei suoi approssimativi sceneggiatori, rispetto al quale ci potremmo limitare a scrollare le spalle uscendo infastiditi ed annoiati dalla sala, se non fosse che con esso si sono letteralmente tritate le carni -dignità, onorabilità, salute psicofisica- di protagonisti della lotta (quella vera) alla mafia, linciati come traditori e dati in pasto all’orda famelica delle milizie antimafiose più fanatiche.

Perché questo è il punto, tenetelo a mente. Questa antimafia, cioè quella che preconizzò da subito Leonardo Sciascia, quella che con la lotta alla mafia non ha nulla a che fare, ma che è straordinariamente utile a costruire carriere, fortune editoriali, successi politici, fortune economiche, e ancor più a distruggere carriere, fortune politiche, patrimoni altrui, non può certo arrendersi. C’è tutto un mondo, articolato, complesso e potentissimo, che vive e prospera grazie a questa narrazione, la quale nasce da una idea forte ed inconfutabile, e cioè che la mafia ha sempre goduto e gode anche di sponde, collusioni e complicità istituzionali.

Ma questa indiscutibile verità viene poi sviluppata in termini iperbolici, ossessivi, quasi maniacali, nella convinzione che nessuna lotta alla mafia sarà degna di questo nome se non sarà lotta innanzitutto e soprattutto alle collusioni ed alle infiltrazioni istituzionali, sempre e comunque, anche quando l’inchiesta giudiziaria non ne coglie traccia. E se non ne coglie traccia, è una inchiesta marginale se non inutile, e magari -perché no- essa stessa espressione e frutto di collusioni più o meno oscure. I protagonisti di questa narrazione – giornalisti, associazioni, forze politiche, e naturalmente magistrati- si sono presto resi conto della sua straordinaria forza comunicativa, della fascinazione esercitata sulla pubblica opinione, e soprattutto della formidabile sua idoneità a stigmatizzare chi osi metterla in dubbio.

Ecco allora che nessuna inchiesta giudiziaria su fatti di criminalità mafiosa meriterà considerazione se non contemplerà almeno il coinvolgimento di qualche deputato o consigliere comunale, di qualche ufficiale di polizia giudiziaria, e naturalmente di qualche avvocato, oltre che dell’imprenditore di turno dedito a riciclare patrimoni criminali. Più eclatante sarà il preteso disvelamento di collusioni istituzionali o coperture insospettabili, più forte sarà la ricaduta mediatica e la fortuna professionale dell’inchiesta.

L’inchiesta sulla “Trattativa” ha rappresentato l’acme, la sintesi estrema e parossistica di questo fenomeno, perché giunta di fatto ad “inventare” -attraverso una forzatura giuridica da subito evidentissima- un reato inesistente di “trattativa”, per poter affermare che proprio coloro ai quali erano affidati ruoli di vertice nella lotta alla Mafia erano in realtà collusi con essa nel ricattare lo Stato. Attorno a questa sconclusionata indagine si sono costruite fortune editoriali e carriere professionali di eccellenza, e si è grandemente irrobustita la vera forza dell’antimafia militante, cioè la sua capacità di dividere il mondo in buoni e cattivi, virtuosi e corrotti, mafiosi ed antimafiosi, con una laconica iscrizione nel registro degli indagati, o con una semplice intervista del PM buono, o articolo del giornalista buono, o interrogazione parlamentare del politico buono, o manifestazione della associazione buona.
Questa antimafia è ormai un potere enorme, invincibile, perché il consenso della opinione pubblica è ovviamente scontato, e facilmente alimentabile.

Anche ora, dopo una sentenza che dovrebbe solo comportare scuse e contrizione nei confronti delle vite spezzate, infangate ed umiliate di quegli imputati innocenti, leggiamo titoli sarcastici, sulla mafia che “tratta da sola”, ed altre imbecillità criminali del genere. Assisteremo ad interviste contrite ed addolorate, ma più probabilmente aggressive ed avvelenate, dei responsabili di questa bufala giudiziaria senza precedenti, che invece di essere chiamati a rispondere del male che hanno seminato a piene mani, saranno gli eroi dolenti ma indomiti delle prossime settimane. E la ragione sta proprio nel potere immenso che quella narrazione dell’antimafia, della quale la Trattativa è solo il più fulgido tra i molti capitoli, garantisce a questa vera e propria casta invincibile di giornalisti, politici, magistrati, nonché -non dimentichiamolo mai- amministratori giudiziari di immensi patrimoni, di centinaia di aziende sequestrate, spolpate e poi restituite come stracci bagnati ai suoi incolpevoli proprietari, solo perché sospettati di inesistenti collusioni mafiose.

Nemmeno questa sentenza di Cassazione, pronunciata da giudici valorosi ed unanimemente stimati ed apprezzati, varrà a ristabilire la verità. Quella storia, come tutta la narrativa dell’antimafia militante preconizzata da Sciascia, quella che poi ruba perfino l’origano alle mense scolastiche o spartisce tra amici e parenti le immense fortune dei patrimoni sequestrati ed amministrati in nome della lotta alla mafia, non mollerà certo quell’immenso suo potere, il più grande che un uomo possa esercitare: dividere il mondo in buoni e cattivi a proprio piacimento, impunemente, traendone infine, già che ci siamo, insperate ed imperdibili fortune”.