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La femminista con il velo

Abbiamo intervistato la scrittrice e blogger Marwa Karakri, la femminista con il velo.“Mi ritengo femminista prima ancora di ritenermi islamica e come tale ho il preciso compito di informare, di essere vicina a chi è discriminato. Il mio pensiero corre anche ai componenti delle comunità LGBT, come noi sono ritenuti degli estranei, sono dei diversi e paradossalmente i nostri problemi sono comuni.”


«Voglia Dio che diventi madre di dieci figlie, che sono sempre poche,
mentre un figlio maschio da solo è troppo» 
NahidTabataba’i, Zarringol.

Cosa ne è stato Iran delle tue figlie? 

Le donne iraniane ormai da tempo stanno perdendo i loro diritti, fra infinite limitazioni e provocazioni da parte della Repubblica Islamica. L’ultima in ordine di tempo risale al 12 luglio scorso, con l’istituzione della Giornata nazionale dell’hijab e della castità. Chi prova a alzare la voce, come la scrittrice Sepideh Rashno, finisce per essere arrestata e torturata.

 Mahsa Amini e le ciocche di capelli

È In questo clima incandescente che si sono innescate le violenze di questi giorni, veicolate da una vicenda che ha visto protagonista una giovane di nome Mahsa Amini. La ragazza si trovava a viaggiare con la sua famiglia dalla provincia occidentale del Kurdistan iraniano verso Teheran per una visita a alcuni parenti. Durante un controllo, sarebbe stata arrestata con il pretesto di non aver rispettato le regole del Paese sull’abbigliamento femminile, inasprite lo scorso 15 agosto dal presidente Ebrahim Raisi. Alcune fonti hanno riportato che non avrebbe correttamente sistemato il Hijab, (il velo islamico), lasciando che uscissero alcune ciocche di capelli. Dopo essere stata prelevata è stata consegnata alla famiglia alcuni giorni dopo già cadavere. La ventiduenne è morta nell’unità di terapia intensiva dell’ospedale di Kasra per le percosse ricevute dalla polizia. A rimanere uccisa con alcuni colpi di arma da fuoco, anche Hadith Najafi, simbolo e portavoce delle proteste. Nonostante la scia di sangue si stia tristemente allungando, il governo ha deciso di continuare a adottare una linea rigida e inflessibile, cercando di evitare che anche gli uomini si uniscano alle manifestanti nelle piazze. 

Abbiamo intervistato la scrittrice e blogger Marwa Karakri

Ci ha spiegato come si può essere femministe pur rimanendo fedeli alle tradizioni

Marwa Karakri la femminista con il velo

“Il mio nome è Marwa Karakri ho 31 anni sono nata e cresciuta in Italia, anche se di origini marocchine. Per mia scelta e come sancito dalla Legge, al compimento del diciottesimo anno di età, ho potuto ottenere la cittadinanza italiana. Mi occupo delle donne fin da quando ero piccola, seguendo l’esempio di mia madre che, dopo essersi trasferita, ha iniziato a combattere per se stessa e per le altre straniere, cercando di costruire una rete di contatti, creando un dialogo con le istituzioni, aiutando le associazioni, da cui abbiamo avuto spesso in affido madri e minori. Lei mi ha fatto da guida, facendomi capire che avrei sempre dovuto perseguire i miei ideali.  Avevo solo 15 anni quando ho iniziato a realizzare che la conoscenza della legislatura avrebbe potuto aprirmi delle porte, solo attraverso il suo studio avrei potuto cambiare il mondo e la società. Credo di aver maturato proprio in quegli anni la decisione di frequentare la facoltà di giurisprudenza che mi ha poi permessadi aiutare altre persone. Molti concetti sono sottovalutati, le leggi sono complesse anche per gli addetti ai lavori, possiamo solo immaginare in che incubo finisca chi proviene da un altro Paese, dove spesso anche il concetto di democrazia è sconosciuto.

I miei genitori hanno sempre cercato di trasmettermi la loro cultura senza farmi dimenticare le mie radici, quando ero piccola trascorrevo almeno tre mesi in Marocco fra Fès e Casablanca. Questo però non ha evitato in me il senso di non appartenenza,sono riuscita a sentirmi straniera in Italia e allo stesso tempo in Marocco. Capita soprattutto a chi si scontra con un mondo che non è il suo, quando improvvisamente si inizia a parlare una lingua sconosciuta, quando si incontrano abitudini diverse, persino quando ti trovi a mangiare cibi differenti, perdi l’identità e con il trascorrere degli anni la fede, se poi sei una donna di terza generazione la questione si complica ulteriormente.

Fu in estate, avevo circa fra gli undici e i dodici anni quando decisi di indossare il velo. Ricordo che andai da mia madre dicendole che ero finalmente pronta, favorita anche dal fatto che avrei cambiato scuola e gruppo di amici, sarei andata alle medie dove avrei iniziato un nuovo percorso scolastico ma anche di consapevolezza. Ricordo la sua sorpresa, lei all’epoca non indossava il hijab, eravamo appena partiti per il Marocco, e i mesi successivi li ha impiegati a rassicurare i conoscenti che la fermavano chiedendole il motivo di questa scelta. Correva l’anno2002 subito dopo l’attentato alle Torri Gemelle, in un clima di diffidenza e tensione che vedeva i musulmani come il nemico. Ho sempre considerato la possibilità di indossare il velo, forse io l’ho fatto prima, nella tradizione islamica il suo uso è suggerito al raggiungimento della pubertà. Dopo aver intrapreso questa scelta sentii di aver compiuto un passo importante, lo vidi come un rito di passaggio, facemmo anche una festa. Io sono piuttosto precisa nel disporlo, prima mi nascondo i piedi e le braccia, ogni persona lo indossa come sente di farlo in base alla propria fede. All’inizio ho vissuto il suo utilizzo con gesti estremamente meccanici, slegati anche dagli aspetti religiosi. Solo successivamente verso i quattordici anni ho maturato la mia fede islamica. In quegli anni arrivarono anche i primi attacchi e non solo da parte dei coetanei ma anche da parte degli insegnanti. Mi hanno definita la ragazza con la tenda in testa quando non lo chiamavano – il cencio -. Tutti naturalmente davano per scontato che questa decisione l’avessero presa i miei genitori che non fosse spontanea. Nella mia famiglia invece si è sempre avuta una grande autonomia, seppure praticanti abbiamo sempre espresso la nostra fede sentendoci liberi. Io mi sento libera di essere religiosa, l’ho scelto. 

Il mio lavoro con le donne e per le donne è complesso, c’è una discrepanza enorme fra quello che io dico e quello che loro pensano sulla difesa personale. Sistematicamente mi trovo a chiarire che non devono essere sottomesse e tantomeno maltrattateo picchiate.  Ascoltando le loro storie ho potuto visionare la violenza in maniera indiretta. Una donna che non conosce la cultura, la lingua del paese che la ospita e che si trova a vivere queste situazioni può sentirsi drammaticamente sola. Grazie anche al nostro supporto, soprattutto quello di mia madre che ha fatto da ponte, siamo riuscite a creare sul nostro territorio la Commissione Pari Opportunità che è divenuta un punto di riferimento per le straniere. In questa realtà non giudicata e protetta cerchiamo di aiutare anche attraverso le nostre esperienze. Si parla spesso pure dell’uso dell’hijab, cerco di spiegare che è una scelta di libertà, che non c’entra nulla con la costrizione.

L’islam per sua radice non ha una gerarchia, non avendo questa autorità si appoggia alle singole figure se non c’è qualcuno che ti rappresenta ci si deve far carico di rappresentare gli altri. Mi ritengo femminista prima ancora di ritenermi islamica e come tale ho il preciso compito di informare, di essere vicina a chi è discriminato. Il mio pensiero corre anche ai componenti delle comunità LGBT, come noi sono ritenuti degli estranei, sono dei diversi e paradossalmente i nostri problemi sono comuni.

Ritengo che il vero incontro possa avvenire fra le storie che si intrecciano, osservandoci sono molte più le cose che abbiamo in comune rispetto alle differenze. Noi donne dovremo unirci e capire quali sono i nostri punti di forza, lavorando per far restare unita  la comunità. Io continuerò a combattere per tutte quante, anche quelle che non vogliono coprirsi, sposarsi o avere figli.

@photo di Marwa Karakri