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L’Ucraina vista da dentro

Hanna Perekhoda som är ifrån Ukraina, forskar kring rysk och ukrainsk historia och politik i lausanne- Schweiz.

Ecco la nostra intervista a Hanna Perekhoda, analista e ricercatrice di Donetsk, nell’est dell’Ucraina, là dove l’odore del sangue e della paura trasportato dal fragore delle bombe, ha iniziato a diffondersi già dal 2014, cioè otto anni prima dell’invasione totale di Putin sul resto del Paese.

Hanna è giovane, ha i capelli lisci castani sino alle spalle, lo sguardo fiero filtrato dalle sue iridi chiare, un piercing ad anello sulla narice sinistra e tanta passione per quello che fa ogni giorno, ovvero studiare, confrontarsi e far conoscere le sue idee.  

Oggi collabora con l’Università di Losanna e scrive per diverse riviste internazionali. L’ho scoperta per caso, durante una delle mie consuete rassegne-stampa in giro per il web. Leggere alcune delle sue riflessioni è stato per me a tratti illuminante. Per questo l’ho rintracciata, l’ho contattata e le ho chiesto una intervista. La prima volta che faccio qualcosa del genere. È stata cordiale ed entusiasta di collaborare con me.

Ad alcune domande che le ho posto ha preferito non rispondere, per motivi di opportunità professionale e di sicurezza.

Qui di seguito vi propongo la mia conversazione con Hanna, tradotta dall’inglese, ricca di spunti e contenuti che, a due anni dall’invasione del Cremlino in Ucraina e a dieci anni dai fatti di Euromaidan, offrono una prospettiva analitica di chi è dentro i fatti e non sopra, di chi non si accontentata della banalizzazione del racconto, del sensazionalismo o di chi non si lascia pervadere dal vento della propaganda per appagare la propria sovrastruttura fatta di preconcetti, ossessioni e vanità, magari anche applaudendo e arricchendo quegli influencer della pace, divenuti star della televisione.

In grassetto le mie domande.

Partiamo da uno dei tuoi ultimi articoli pubblicato su NewPol che ho trovato illuminante perché spezza la stucchevole narrazione di un dibattito che, nella maggior parte dei casi, è filtrato dalle lenti del secolo scorso e non attraverso schemi aggiornati. In Italia e in Occidente, in genere, certi ambienti hanno fatto passare il messaggio che l’azione di Putin in Ucraina sia quasi giustificata da una sorta di “sindrome dell’accerchiamento” nei confronti dell’allargamento della Nato, interpretandolo come qualcosa di necessario quindi, e in un certo senso, provocato proprio dall’Occidente. Emblematico fu “l’abbaiare della Nato” pronunciato da Papa Francesco. Tu smonti questa tesi e fai risalire invece l’invasione violenta allo sfogo di un furore ideologico, che fa leva su quel “russkiy mir”, sdoganato da Putin già alla Conferenza di Monaco del 2007, fondato su nazionalismo, mitizzazione del passato, fanatismo religioso e per cui l’Ucraina è una minaccia esistenziale all’identità russa, un progetto artificiale, una “anti-Russia.” Parlane un po’ anche ai nostri lettori e, poi vorrei chiederti, quanto questa visione del Cremlino è radicata nella popolazione civile russa?

Credo che per comprendere la politica estera russa sia necessario superare l’idea che l’aggressione russa all’Ucraina sia una reazione a un pericolo reale per la sovranità dello Stato russo, un pericolo rappresentato, come dice la leggenda, dall'”espansione” della NATO.

La Finlandia ha aderito alla NATO lo scorso anno, raddoppiando di fatto la lunghezza del confine diretto tra la Russia e i Paesi della NATO (NdR: In questa settimana è stato ufficializzato anche l’ingresso della Svezia).

Sorprendentemente non sono emerse notizie sulla presenza militare russa lungo questo confine esteso. Se la Russia vede davvero la NATO come una minaccia, perché non abbiamo assistito a un aumento delle truppe russe o a una propaganda che dipingesse la Finlandia come un avversario militare? Nei media russi non compare una sola parola sulla Finlandia. Chiaramente, non sembra essere una preoccupazione importante.

L’idea che la guerra sia iniziata a causa dell’espansione della NATO rivela un affidamento a spiegazioni post-evento da parte di molti analisti occidentali che si allineano alle loro teorie preconcette piuttosto che riconoscere le realtà fattuali. Siamo onesti: la maggior parte degli esperti di politica internazionale non ha alcuna conoscenza empirica dei Paesi di cui pretende di interpretare la politica. Non conoscono la lingua russa né la storia russa, per non parlare dell’Ucraina. Non deve sorprendere che tendano ad adottare l’approccio strutturalista alla politica internazionale, che non richiede conoscenze specifiche ma dà l’impressione di avere uno strumento analitico con una sua coerenza interna. Tuttavia, questo comprensibile desiderio di diventare un esperto di “politica mondiale” ha grandi implicazioni politiche, in quanto il realismo strutturale (o neorealismo) normalizza una visione profondamente reazionaria del mondo, dove l’unica regola è quella del più forte.

Difendo l’idea che per comprendere le motivazioni dell’aggressione russa all’Ucraina, dobbiamo esaminare le dinamiche di potere tra lo Stato, gli attori economici e la società russa, almeno negli ultimi vent’anni.

Di fronte al declino della sua legittimità politica in Russia e al fallimento del suo progetto di dominio sui Paesi post-sovietici attraverso la corruzione dei suoi leader, Putin è passato a una strategia di controllo politico diretto dello spazio post-sovietico attraverso l’invasione militare, e in questo contesto va inquadrata l’operazione Ucraina, già a partire dal 2014.

Per quanto riguarda le basi ideologiche, anche se la creazione di miti inizialmente mirava alla mobilitazione sociale, le ideologie possono affascinare i loro creatori e andare fuori controllo. Putin e i suoi vecchi amici del KGB che sono saliti al potere hanno iniziato a credere che l’identità nazionale distinta degli ucraini sia un costrutto artificiale creato dai nemici occidentali (polacchi, austriaci, tedeschi) e dai loro agenti (bolscevichi). In breve, l’Ucraina è vista come una pedina in un gioco a somma zero: se c’è un’Ucraina indipendente, la Russia non può diventare una grande potenza e quindi la sua sovranità è minacciata, perché secondo questa visione del mondo solo le grandi potenze hanno una vera sovranità politica. Di conseguenza, prendere il controllo dell’Ucraina e trasformare gli ucraini in russi è visto come un requisito fondamentale per la sopravvivenza stessa della Russia.

Sono convinti che senza la protezione della Russia, gli ucraini abbiano ceduto alle forze ostili dell’Occidente che “impiantano pseudo-valori nelle loro menti” (nazionalismo, liberalismo, femminismo, “ideologia” LGBT sono tutti messi nella stessa scatola) e li usano come “ariete” contro la Russia. Distruggendo l’unità storica del “popolo russo”, che include gli ucraini, l’Occidente impedisce alla Russia di occupare la posizione che le spetta nel mondo. Questi concetti non sono frutto dell’ingegno di Putin. Sono al centro della narrazione nazionale russa. La rappresentazione dell’Ucraina come fattore cruciale per la stabilità interna e l’influenza esterna della Russia era già profondamente radicata nella psiche politica russa ben prima che Putin salisse al potere. L’Ucraina assume un ruolo sproporzionatamente significativo nell’auto-rappresentazione nazionalista russa e nella visione del mondo. Se non si tiene conto di ciò, è impossibile comprendere il significato esistenziale che questa guerra riveste per le élite statali russe.

Naturalmente, le visioni del mondo sopra descritte sono principalmente il progetto delle élite che attivano queste narrazioni per raggiungere i loro obiettivi politici. Ma mi permetto di suggerire che se non fossero radicate nella coscienza di massa, la manipolazione non funzionerebbe ogni volta con la facilità con cui i russi hanno applaudito l’annessione della Crimea. Senza una radicale rivalutazione critica, questi “miti nazionali” faranno risorgere lo spettro dormiente del risentimento russo ogni volta che le autorità lo riterranno necessario e forniranno l’impulso appropriato. Va da sé che un prerequisito per questo è il superamento delle terribili disuguaglianze sociali che rendono possibile non solo approvare le guerre, ma anche parteciparvi direttamente.

La domanda precedente è strettamente connessa alla successiva e la faccio generare dalla mia sfera personale. Io ho iniziato a seguire la causa ucraina, nel 2012, prima della secessione del Donbass, prima dell’invasione della Crimea, prima di Euromaidan, attraverso le vicende di Yulia Tymoshenko. Era il periodo in cui, a causa della sua detenzione arbitraria e dei maltrattamenti subiti in carcere, montò fra le istituzioni di Bruxelles l’idea di boicottare i campionati europei di calcio, che si svolsero proprio in Ucraina. Da allora, con la stessa corona di trecce sulla testa e la passione di sempre, Tymoshenko non ha mai smesso di rappresentare il volto filo-occidentale del suo Paese. Mi ha colpito molto, quando in una sua intervista di qualche mese fa rilasciata su EuroNews, ha detto esplicitamente di non illudersi troppo che da un futuro cambio al vertice del Cremlino, possa derivare un cambio di approccio nei confronti dell’Ucraina. Per lei questa è una guerra della Russia, non solo di Putin, intrinsecamente connessa con il mondo russo. Anche con una nuova generazione di leader la situazione potrebbe non cambiare proprio per questa idea di grandezza russa, del ruolo russo nel mondo. Tu la pensi come lei?

Fare generalizzazioni così ampie e conclusioni semplicistiche potrebbe essere ingiustificato. L’aggressione russa all’Ucraina è guidata da diversi fattori. L’ideologia, e in particolare il concetto di “grande potenza”, è un elemento importante, ma non esiste in un vaccino.

Naturalmente, per le classi dirigenti la cui ricchezza si basa sulla rendita e su forme estreme di sfruttamento economico e che vivono nel costante timore di rivolte popolari, l’unico modo per garantire la sicurezza del loro regime è l’espansione e la guerra. Ma immaginiamo uno Stato russo con istituzioni democratiche funzionanti, un senso civico sviluppato, un’architettura statale veramente federale e un’economia basata non sulla rendita ma sulla tassazione. Certo, ci saranno ancora dei patrioti nostalgici di un impero perduto. Ma saranno in grado di esercitare un’influenza sufficiente sulla politica per convincere le élite statali che è necessario iniziare una guerra irredentista per riconquistare una parte perduta del “corpo nazionale” che è stata infettata dal virus democratico “occidentale”? Se non c’è terreno fertile per l’emergere di élite autocratiche e cleptocratiche, non c’è bisogno di temere la democrazia e quindi non c’è bisogno di invadere l’Ucraina. Naturalmente si tratta di una spiegazione molto semplificata, ma quello che sto cercando di dire è che un’ideologia può diventare una forza materiale solo quando incontra un ambiente ricettivo per la sua manifestazione ed è spinta dalla volontà politica di chi è al potere.

L’ossessione russa per l’Ucraina è in effetti molto antica e può essere fatta risalire almeno al XIX secolo. Per rimanere tra le grandi potenze, le élite statali russe devono adattarsi al modello dominante della modernità occidentale: per diventare moderni ed europei, è necessario costruire una “nazione”. Il modello di costruzione della nazione più conveniente per il regime autocratico era un nazionalismo etnico primordiale che, a differenza del nazionalismo civico, non implicava una partecipazione popolare alla politica. L’idea della “nazione” russa, fortemente influenzata dalla mitologia ecclesiastica ortodossa dell'”Antica Rus'”, presupponeva l’assimilazione degli ucraini. Ma la costruzione di una nazione in un impero continentale, anche se leale e antidemocratico, distrugge la stabilità interna del sistema di governo imperiale.  Lo Stato si trova in crisi permanente. Inoltre, se il vostro Stato non è democratico, non avete strumenti per fare una verifica dei reali sentimenti delle masse, quindi potete continuare a vivere nell’illusione che il popolo ami il suo zar. Se il popolo ama lo zar, allora tutte le rivolte interne non sono altro che una cospirazione dei nemici occidentali. E di cosa abbiamo bisogno per difenderci dalla cospirazione dei nemici? Naturalmente, abbiamo bisogno di ancora più autocrazia, ancora più isolazionismo anti-occidentale, ancora più unità nazionale, il che significa che gli ucraini devono essere assimilati. Nonostante il tardo impero russo e il regime sovietico affondino le loro radici in ideologie distinte e opposte, i principali problemi – ovvero il carattere imperiale dello Stato e il dominio intellettuale e politico occidentale – hanno plasmato l’essenza della visione del mondo dell’élite russa.

Significa che queste idee sono in qualche modo parte del dna russo e che persisteranno indipendentemente dai cambiamenti storici? Al contrario, l’idea che la Russia debba assimilare l’Ucraina è storicamente situata, plasmata dalle scelte degli attori politici in risposta alle sfide esterne e interne. Ciò significa che, in qualsiasi momento storico, le élite russe avevano e hanno tuttora la possibilità di optare per una traiettoria diversa. Se vogliamo andare oltre le idee semplicistiche ed emotive sulla “Russia” e sciogliere il nodo che lega l’Ucraina alle ambizioni di “grande potenza” delle élite russe, dobbiamo affrontare la complessa interazione tra ideologia e realtà tangibili della geografia, dell’economia e delle dinamiche sociali.

Nel mondo Occidentale, invece, accade tutto il contrario. Da molto tempo ormai e con una vistosa accelerata negli ultimissimi anni, è in corso una sistematica operazione di demolizione del nostro passato, attraverso una sorta di processo auto-colpevolizzante senza appello alla nostra storia, per il quale ciascuno di noi sembra sia nato macchiato da un peccato originale. Come ci hai raccontato tu, questa analisi critica al proprio passato non è neppure immaginabile in Russia e, io aggiungo, anche in altri luoghi dove la storia viene reinterpretata in funzione di un revanscismo nazionalista, per giustificare le ideologie e gestire il consenso delle masse. È il caso degli eredi dell’impero cinese, di quello ottomano o del mondo arabo, che pure nei secoli hanno costantemente vessato i propri vicini, con lo scopo di allargare i confini o di accaparrarsi schiavi e materie prime, facendo razzie di usi, costumi e religioni. Qual è invece il rapporto dell’Ucraina con il proprio passato?

Certamente l’Ucraina non mostra alcun complesso imperiale e non è influenzata dall’ideologia delle grandi potenze. Tuttavia, l’assenza di questi fattori non rende l’ideologia nazionalista ucraina benigna. Se da un lato il nazionalismo ucraino funge da forza progressista nella resistenza a un impero revanscista, dall’altro il suo ruolo cambia quando si parla degli sforzi interni per promuovere la coesione nazionale, un impegno cruciale per la sopravvivenza dello Stato e della società. La sua forma etno-primordiale porta con sé un significativo potenziale di oppressione.

Se il criterio di appartenenza alla comunità ucraina di solidarietà orizzontale (qualcosa che chiamiamo “nazione”) si basa su tratti primordiali come la lingua, la cultura, le tradizioni o la religione, allora la “nazione” esiste già. Questo tipo di nazionalismo è un percorso diretto verso l’autoritarismo, la passività politica dei cittadini e la repressione di qualsiasi dissenso. Purtroppo, molti imprenditori politici e culturali ucraini, compresi gli storici, scelgono questo semplice percorso di costruzione della nazione. Al contrario, molti cittadini comuni dimostrano la loro lealtà allo Stato non attraverso l’esaltazione della lingua e della cultura, ma rischiando la vita in prima linea e contribuendo a istituzioni essenziali come ospedali e scuole, senza le quali l’Ucraina non potrebbe sopravvivere. Purtroppo, le voci di questi individui spesso vengono stigmatizzate se si discostano dall'”ideale” etnonazionale prescritto.

Lo stesso vale per l’approccio alla storia. La sovranità dello Stato ucraino è direttamente minacciata. È un ambiente piuttosto sfavorevole alla decostruzione critica della mitologia storica o all’esame responsabile dei capitoli più oscuri della propria storia. Gli ucraini mantengono un certo spazio pubblico dove questi temi possono ancora essere discussi e analizzati. Ma salvaguardare la libertà di parola e le libertà accademiche diventa particolarmente impegnativo in tempo di guerra. La loro esistenza in Ucraina non è assicurata, richiede una difesa continua. È evidente, tuttavia, che la loro sopravvivenza sarebbe ancora meno possibile sotto l’occupazione militare straniera di uno Stato fascista.

Entrando nell’ambito dell’informazione (se così si può chiamare), che idea ti sei fatta della recente intervista di Putin rilasciata a Tucker Carlon, ex anchorman di Fox News e uno dei personaggi televisivi più vicini a Donald Trump? A me, ha fatto tornare in mente, la mega-intervista che il Presidente russo rilasciò ad Oliver Stone qualche anno fa. Stesse ore di inquadrature accattivanti e domande asservite per rilanciare la propaganda del Cremlino. Il Ministro ucraino Kuleba ha commentato l’episodio senza mezzi termini: «Intervistare Putin nel 2024 è come intervistare Hitler nel 1944».

Putin ha ripetuto ancora una volta che l’obiettivo iniziale della guerra – la “denazificazione”, un termine del Cremlino che significa semplicemente lo smantellamento totale della statualità ucraina – non è cambiato e che la guerra continuerà finché l’Ucraina non sarà “denazificata”. Una volta fatto un piccolo sforzo per ascoltare effettivamente ciò che le classi dirigenti russe ci dicono, come si può ancora fingere che questa guerra riguardi i territori e proporre all’Ucraina di cedere “terra” (e milioni di persone che la abitano) in cambio della “pace”? L’esistenza di un’Ucraina indipendente, sia all’interno dei suoi confini riconosciuti a livello internazionale che in quelli significativamente ridotti, è inaccettabile per un regime le cui classi dirigenti sono convinte che sia una creazione dei nemici che la usano come base per distruggere il loro regime politico.

L’analogia con Hitler non è priva di fondamento, ma la collocherei nell’ottobre 1939, quando mentre invadeva la Polonia insieme all’URSS, si “appellava alla ragione” degli europei. Insisteva sul fatto che voleva buone relazioni con la Gran Bretagna e la Francia, sperando che le nazioni europee potessero accordarsi per una pace – ma solo una pace in cui le richieste tedesche sarebbero state soddisfatte. Queste richieste includevano, tra l’altro, l’accettazione della spartizione della Polonia, l’annessione di alcuni altri Stati e, più in generale, l’accoglienza di una Germania fascista, con il suo regime dittatoriale totalitario, in un club di grandi potenze. Egli difese che le sue annessioni e invasioni “non causarono alcun caos in Europa, ma al contrario produssero il prerequisito di condizioni chiare, stabili e sopportabili”. Ha detto di aver fatto “le proposte più moderate” alla Polonia, che le ha rifiutate e non gli ha lasciato altra scelta che l’invasione. Egli disse chiaramente che il rifiuto della sua “mano tesa” e del suo appello “alla ragione” si sarebbe tradotto in un attacco agli Stati europei. Raccomando a tutti di leggere questo discorso perché offre l’opportunità di decostruire le nostre percezioni del passato, consentendo una migliore comprensione del presente. Non siamo però nel 1939. L’Ucraina non è spartita, ma resiste vigorosamente; l’ordine di sicurezza internazionale, sebbene indebolito, non è del tutto distrutto; e la capacità militare della Russia non è paragonabile a quella della Germania. Inoltre, il mondo ha già assistito a due guerre mondiali, in parte dovute ai tentativi di placare gli aggressori e di ripristinare la legge del più forte. Spero che possiamo trarre lezioni dalla storia.

È servita la morte di Aleksey Navalny per far tornare la guerra ucraina sulle prime pagine dei giornali occidentali e al centro dell’agenda politica di Unione Europea e Stati Uniti d’America, dopo un periodo in cui addirittura, ad entrambe le latitudini, erano stati messi in dubbio nuovi pacchetti di aiuti militari e finanziari? Tutto questo, sommato alle proteste plateali degli agricoltori europei che si sentono minacciati dalle importazioni di grano ucraino, sono il segno di un sentimento di stanchezza e disaffezione nei confronti dei tuoi concittadini su cui quotidianamente continuano a cadere le bombe della Russia. Hai qualcosa da dire ai nostri lettori, per continuare ad essere solidali con la vostra causa?

Direi che non bisogna romanticizzare il Paese e il suo popolo per sostenere la loro lotta. L’importante è che gli ucraini difendano il progetto di un futuro in cui il cambiamento è possibile: uno Stato con libertà di parola, libertà di associazione, elezioni libere, tribunali indipendenti, che è un quadro fondamentale per qualsiasi lotta politica e sociale. Anche la Russia ha un progetto: un mondo in cui nessuna lotta popolare ha possibilità di successo. L’ideale di “pace” eterna di Putin è già stato imposto in Siria, Bielorussia e Kazakistan con l’aiuto di armi e mercenari russi. Il Cremlino vuole costruire un mondo in cui ogni autoproclamata grande potenza abbia la propria zona di influenza esclusiva, dove poter sfruttare la popolazione e la natura nella più totale impunità, senza essere disturbata da alcuna norma e regola internazionale. Sta allineando politici che non si preoccuperebbero di distruggere i restanti meccanismi internazionali per raggiungere questo obiettivo. Questo sarebbe un mondo meraviglioso per i dittatori di estrema destra. Ma sarebbe un inferno per i lavoratori comuni e ancor più per le donne e per qualsiasi tipo di minoranza oppressa. L’emergere di questo mondo “multipolare” passerà attraverso guerre e genocidi che si faranno sentire soprattutto nelle periferie del sistema capitalistico globale. Ecco perché la solidarietà con l’Ucraina non deve essere solo una posizione morale, ma una risposta razionale per chiunque abbia a cuore il nostro futuro comune.

L’obiezione che qualche provocatore potrebbe fare a chi la pensa come noi è: fino a pochi anni fa, tutti i leader europei si sono fatti fotografare con Putin fra sorrisi e strette di mano. Cosa risponderesti tu a tal proposito?

Vale la pena ricordare che la Russia post-sovietica non si è mostrata ostile al cosiddetto Occidente. Sotto Putin ha stabilito partnership con la NATO e ha partecipato a esercitazioni militari congiunte, il che fa pensare che le élite russe aspirassero davvero a integrare il proprio Stato nella comunità internazionale, ma che fossero deluse da un Occidente arrogante e ostile.

Ma la dichiarata volontà di Putin di cooperare con l’Occidente all’inizio degli anni Duemila potrebbe essere meglio paragonata a quella di un gruppo criminale che cerca di stabilire legami con poliziotti corrotti. Seguendo una logica mafiosa, Putin chiedeva ai “poliziotti” occidentali, di cui non contestava ancora l’egemonia, di permettergli di stabilire un controllo esclusivo sullo spazio post-sovietico in cambio dell’offerta di combustibili fossili a basso costo e dell’iniezione di denaro oligarchico nelle aziende occidentali, ecc. Tuttavia, ottenere il monopolio dello spazio post-sovietico si è rivelato per Putin più difficile del previsto. La Russia poteva corrompere i presidenti post-sovietici, ma i cittadini di questi Paesi esprimevano regolarmente il loro malcontento nei confronti dei leader autocratici e inefficaci sostenuti da Putin.

Quando il controllo del clan di Putin è stato minacciato anche sulla Russia stessa, qualsiasi impulso democratico all’interno e all’esterno del Paese è stato visto come una minaccia per il regime.

L’aggressione del Cremlino è stata resa possibile dall’impunità. La Russia ha commesso crimini di aggressione e crimini di guerra in Cecenia, Ucraina e Siria. Questi crimini non sono stati considerati abbastanza importanti da interrompere il commercio con la Russia. Gli affari come al solito con dittatori e criminali di guerra sono stati e sono tuttora presentati come legittimi, nascondendo così le conseguenze politiche di questa logica cinica. La guerra russa continua solo perché noi paghiamo i conti di Putin. Compriamo i combustibili fossili russi, consumiamo e ci divertiamo, sperando che la guerra in Ucraina e la crisi climatica si risolvano da sole. Non lo faranno, a meno che non prendiamo coscienza della nostra responsabilità collettiva e iniziamo ad agire.

Quando Hanna parla di spazio post-sovietico, oltre all’Ucraina, mi viene subito  in mente la situazione incandescente del Caucaso, dove Putin non ha mosso un dito per difendere l’Armenia dall’avanzata dell’Azerbejan, in Nagorno-Karabakh, quasi per punire le perplessità espresse del premier armeno nei confronti dell’alleanza strategica con Mosca. Discorso analogo per la Georgia, che sta attraversando una parabola molto simile a quella dell’Ucraina, con le proteste di piazza dello scorso anno contro la legge sugli agenti stranieri (https://www.laredazione.net/georgia-unaltra-ucraina/), la detenzione dell’ex leader filo-occidentale Saakhasvili in condizioni di maltrattamento e continue guerriglie locali nelle regioni secessioniste dell’Ossezia del Sud e dell’Alcazia. Nel Caucaso stanno acquisendo un ruolo sempre più importante attori come Turchia e Iran.

Ho chiesto ad Hanna se, a suo avviso, la Russia accetterà di perdere influenza anche in questa regione e se c’è il rischio che come contrappeso possa convogliare tutta la propria furia proprio contro l’Ucraina. Ma questa è una di quelle domande a cui ha preferito non rispondere. E la comprendo.

A quel punto, ci siamo salutati con due parole che sono ormai diventate un inno alla libertà, per chi crede che la libertà non sia saltellare dentro un recinto sorvegliati dai custodi, come alludeva una di quelle star televisive quando diceva che anche sotto le dittature crescevano bimbi felici:  Slava Ukraini!